Ma quando ho riaperto gli occhi? Quando mi sono alzato? Quando mi sono lavato via il sangue profumato dalle mani, dalla bocca e dal volto? Quando sono sceso a pianterreno? Quando ho attraversato il portone e me ne sono andato? E perché d’un tratto mi sono messo a raccontare in un tempo verbale al passato, come se quello che sto raccontando fosse successo prima? Ma come fa a essere successo prima se è successo dopo, se sta succedendo adesso, succederà?
Ecco, ormai non posso più continuare a raccontare come ho fatto finora, perché adesso non devo più raccontare solo la vita e solo la morte e solo l’immortalità della vita e l’immortalità della morte, non devo più raccontare solo la creazione e solo la distruzione e solo l’immortalità della creazione e della distruzione, ma devo riuscire ad avvicinarmi sempre di più col racconto al magnete dell’increazione.
Ma come si fa a raccontare e nello stesso tempo a increare, se il nostro linguaggio, le sue strutture grammaticali, verbali, sintattiche non possono esprimere e neppure concepire l’increazione, se possono avvicinarsi solo per approssimazioni, anticipazioni e invenzioni?
Quando ero morto, quando mi percepivo come morto, credevo che il racconto della vita fosse tutto dentro il racconto della morte che viene prima. Quando ero vivo, quando mi percepivo come vivo, credevo che il racconto della morte fosse tutto dentro il racconto della vita che viene prima.
E adesso, che non so più se sono morto o se sono vivo, dov’è il racconto, dove sarà?
Eppure, da questo punto in poi, per poter proseguire, posso solo raccontare e nello stesso tempo increare.
Finora gli uomini che hanno affidato la loro vita e la loro morte a ciò che veniva percepito come una narrazione hanno creduto che il racconto fosse ciò che si palesa della vita dentro la morte e ciò che si palesa della morte dentro la vita. Tutto ciò che è stato scritto, immaginato, raffigurato, pensato si poteva muovere solo dentro questa barriera e questo piccolo cerchio di creazione e di distruzione e di morte e vita e di vita e morte.
Lo pensavo anch’io, mentre camminavo per le strade dei vivi credendo che fossero morti, mentre camminavo per le strade dei morti credendo che fossero vivi, e poi d’un tratto tutto diventava improvvisamente buio, diventerà, anche se ero in piena luce, anche se ero in pieno giorno e fino a un secondo prima ogni cosa sbalzava così intensamente intorno a me che quasi non si vedeva, e io mi spostavo attraverso il mondo che mi sembrava quello dei vivi in quell’infinita notte e in quell’infinito buio. Ma allora, se non ero nel continente dei vivi, dov’ero, dove sarò? E anche quando ero nel continente dei morti, ed era tutto buio ed era tutto nero ed era sempre notte, e anche gli specchi erano tutti neri, e poi arrivavano all’improvviso quei bagliori di luce così accecanti che cancellavano e divoravano ogni figura e ogni forma...
Che cos’era quella luce? Che cos’era quel buio?
Una volta qualcuno mi ha detto, oppure l’ho trovato scritto in uno di quegli oggetti in forma di libro cui i vivi dentro la morte affidano i loro pensieri e i loro sogni e che altri credono di leggere anche se le loro pagine sono completamente bianche, sono completamente nere, che i nostri occhi e che la nostra visione sono il risultato di miliardi e miliardi di cellule che hanno invaso il nostro corpo come virus, batteri, e che poi sono state soggiogate e trasformate in cellule schiave rese funzionali allo strumento ottico della visione. E che la nostra retina e i suoi coni e i suoi bastoncelli che reagiscono allo shock della luce sono il risultato di devastanti scontri tra particelle, di sdoppiamenti, di distruzioni e di autodistruzioni, come nelle inconcepibili e disperate guerre umane che hanno attraversato ciò che viene percepito come lo spazio e il tempo e quelle che stanno avvenendo adesso, tra morte e vita e immortalità.
Ma allora che cos’è quello che vediamo? Che cos’è la visione? Da dove venivano quei batteri, verranno? Perché, tra tutte le presenze cieche che si tastavano in quell’infinito buio e che si avvinghiavano e che si fagocitavano senza vedersi, tra tutte le cose molli che pullulavano e tra tutte le bolle di materia vegetale in ebollizione e le prime carni, hanno invaso proprio il punto che sarebbe potuto diventare l’occhio, il nostro occhio? Perché, da allora in poi, si sono scatenate tutte quelle reazioni chimiche e tutte quelle silenziose e devastanti guerre dopo le quali gli organismi invasi hanno cominciato a poco a poco a vedere o hanno cominciato a credere di vedere? Ma che cosa hanno cominciato a vedere? E perché si sono cominciate a formare nei loro cervelli nuove connessioni e sinapsi che hanno messo in moto l’interpretazione di ciò che veniva percepito come visione? Perché quei virus e quei batteri sono stati sconfitti? Sono stati sconfitti o hanno solo fatto finta di farsi sconfiggere? E perché? Perché tutto l’edificio della cosiddetta conoscenza umana e tutto ciò che credono o sognano o inventano o fondano i vivi dentro la morte e i morti dentro la vita e dentro l’immortalità della morte e della vita, si regge su quei batteri e sulla loro invasione? Perché tutto ciò che è stato elaborato e fantasticato e inventato e fondato da questa visione batterica e da questa invasione di particelle venute chissà da dove ci è apparso come vita, come vita che si specchiava dentro la morte e come morte che si specchiava dentro la vita? E cos’è quello che sto vedendo o che sto credendo di vedere e di raccontare e di increare adesso, che vedrò, che racconterò, che increerò?
Ve l’ho già detto, io non so nulla, noi non sappiamo nulla...
Adesso posso solo dire e raccontare e increare che sono uscito da quel parco e da quella villa e da quel portone a volta e da quei cortili, e che poi ho camminato ancora attraverso quelle strade bombardate e quelle case senza facciate, sventrate, e che poi sono passato ancora vicino a quella giostrina schiantata dove si accalcavano nel fragore musicale che si sentiva rimbombare dentro la pancia tutte quelle ragazze e tutti quei ragazzi in preda alla giovinezza, e poi a fianco del fiume dalla spalletta abbattuta, dei suoi mulinelli neri e dei suoi gorghi dove forse sono annegato prima, dove annegherò, con i miei nuovi vestiti che la Pesca ha trovato frugando negli armadi della villa sfondati e che poi ha stirato con le sue mani liberando il piano di un tavolo dai calcinacci, le stesse con cui mi ha accarezzato e increato durante la nostra lunga notte nuziale.
Dove sarà adesso la Pesca? Perché ogni volta appare e scompare così? Dove posso ancora cercarla? Dove posso trovarla? La incontrerò ancora, in qualche punto della vita e della morte e dell’immortalità della vita e della morte del mondo?
E che poi ho vagato in zone di mondo dove mi sembrava di essere già stato, rese irriconoscibili dal passaggio di questa guerra che sta sfigurando e che sta rigenetizzando ogni cosa. E che mi sembrava di tanto in tanto di riconoscere uno spigolo di casa ancora in piedi oltre un ponte della ferrovia, una stanza dove avevo passato una notte buttato febbricitante sopra una branda messa improvvisamente alla scoperto dietro una facciata crollata, un gruppo di case che avevo presidiato, camminando al buio attorno alle sue cancellate con un’arma in spalla. “Sì, sì...” mi dicevo vedendoli apparire improvvisamente di fronte ai miei occhi, mentre ci passavo vicino di nascosto, di notte, per non farmi scorgere dagli immortali inalberati sulle loro autoblindo e sui loro carri “qui ci ho vissuto quando ero per la prima volta nella vita che viene dopo, mi pare, ci vivrò, avevo una piccola stanza con un piccolo letto di ferro e un tavolino e c’era la figlia dell’affittacamere che ogni tanto bussava alla porta e veniva a trovarmi, una ragazza bella e dolce, quasi senza capelli, che mi parlava piano, così piano che quasi mi addormentava. E qui invece ci ho dormito privo di conoscenza, una notte, molte notti, non saprei dire, so solo che mi svegliavo ogni tanto fradicio di sudore e non sapevo dov’ero, non capivo di chi erano quelle lunghe ombre che vedevo muoversi deformate sulle pareti. E qui ci ho vissuto per molto, in questo brandello di territorio strappato agli altri vivi dentro la morte, espugnato, quando caricavo uno dopo l’altro pesanti scatoloni su un nastro trasportatore e poi li stivavo in vagoni ferroviari che puzzavano di piscio di vacca, perché avevano trasportato bestiame durante il viaggio precedente, e poi arrivavo a casa con la schiena rotta, percorrendo senza saperlo con i miei passi le stesse strade dove aveva posato i piedi sette secoli prima un altro traslocatore di nome Durante degli Alighieri, in quella cittadella strappata al nemico e piena di bandiere e vessilli, quando credevo di portare la rivoluzione nella vita che viene prima e invece la stavo portando in quella che viene dopo... Ma perché adesso questi luoghi li devo rivedere così, sfigurati? Quando li ho visti per la prima volta, li vedrò? Li sto vedendo adesso com’erano allora o li vedevo allora come sono adesso, saranno? Che cosa mi stanno facendo vedere i batteri della visione? Che cosa mi facevano vedere allora? Che cosa mi faranno vedere adesso?
E che poi mi sono sganciato e mi sono nascosto, e che ho incontrato di tanto in tanto altri corpi che si spostavano anche loro di notte e si nascondevano per non venire intercettati e colpiti dalle nuove armi degli immortali. E che certe volte mi sono coricato a dormire e seduto a mangiare qualcosa vicino a loro, in certi improvvisati bivacchi dentro lo scrigno di qualche stanza che ricominciava violentemente a tremare per il sisma di vita e morte e dell’immortalità, o di qualche sala sprofondata nelle viscere di una casa o di un palazzo quasi completamente abbattuti, o perlomeno era questa la visione batterica che il mio cervello percepiva con le sue connessioni e sinapsi, percepirà.
«Tu chi sei?» chiedevo girandomi all’improvviso verso qualcuno che stava mangiando silenzioso e assorto vicino a me, perché mi pareva di riconoscere qualcosa del suo volto dietro il velo della barba non rasata da giorni.
«Io sono Mohammad Reza Palhavi, scià di Persia, per trentotto anni sul trono del pavone e poi deposto da un’enorme rivolta suscitata da uomini e donne sbucati con i loro turbanti e con i loro veli come dal nulla.»
«Ecco perché riconosco il tuo volto!» gli rispondevo mentre riprendeva ad addentare un avanzo freddo. «Lo si vedeva dappertutto, in quegli anni, nelle fotografie che apparivano su giornali e riviste piene di re e di regine e di principesse ripudiate, esiliate. Lo vedevo anch’io, lo vedrò, su quelle riviste passate di mano in mano, nella mia casa di Mantova, a Ducale, tu con il tuo vestito regale e la corona e lo scettro, seduto su un grande trono, la tua bella moglie dagli occhi allungati, si chiamava Soraya, mi pare, si chiamerà, ripudiata perché non poteva far tracimare il tuo seme e il tuo patrimonio genetico nella vita che è dentro la morte che viene prima e che viene dopo...»
«Io ho guidato un grande Paese nato da migrazioni indoeuropee e iraniche 1200 anni prima della tracimazione del risorto che non è voluto risorgere» mi diceva dopo un po’, smettendo di masticare. «Medi e persiani in lotta contro l’irradiazione assira e le antiche civiltà dell’Indo, tutto un crogiolo di guerre che hanno investito babilonesi, sciti e cimmeri, Ciro il Grande con i suoi vassalli achemenidi, che ha immaginato e inventato e fondato l’impero persiano e che l’ha fatto dilagare con la conquista di Babilonia e delle città greche dell’Asia Minore e delle steppe asiatiche. Io sono l’erede di Cambise che ha conquistato l’Egitto e di Dario I che si è spinto fino ai territori degli sciti e dei traci. Io ho tenuto nelle mie mani lo scettro di questo grande Paese dai confini esplosi e delle sue ondate di tracimati di fronte alla valanga ebbra dei macedoni di Alessandro Magno, e poi durante l’impero teocratico dei sassanidi in guerra contro la potenza romana e poi bizantina in Asia Minore e poi sotto Cosroe I, e poi travolto dall’espansione araba e del califfato abbaside, e poi delle dominazioni dei turchi selgiuchidi, dei mongoli e di Tamerlano e dell’islamismo scita e delle dinastie turkmene... fino alla conquista del potere con un colpo di Stato attuato dal capo cosacco Reza Khan, mio tracimatore, mio padre.»
«E tu invece chi sei?» chiedevo a un altro accampato che fumava e che sonnecchiava esausto vicino a me, su un materassino di gommapiuma sbudellato, che aveva srotolato sul pavimento dopo avere spostato col piede i calcinacci.
Si staccava la sigaretta dalle labbra, mi guardava per un istante attraverso la fessura dei suoi occhi allungati, girando verso di me il suo volto immobile, che sembrava fatto di cera, che sembrerà.
«Io sono Mao Zedong» mi rispondeva soltanto, riprendendo a sonnecchiare e a fumare.
Rimanevo immobile, muto, per un po’, per molto, non saprei dire.
«Ma io ho seguito i tuoi vessilli, nella vita che veniva dopo, li seguirò!» provavo a dire senza girare la faccia verso di lui, che continuava a fumare con gli occhi chiusi come se dormisse. «Io mi sono fatto incantare dalle liturgie scarlatte dell’idolo orientale tracimatore, quando ero completamente solo e vivevo al tredicesimo piano di quella torre e mi aggiravo per quelle periferie e per quelle strade costellate di torri ancora in costruzione e per quelle piccole piazze su cui si innestavano strade che non sembravano portare da nessuna parte, dove gli ambulanti dei mercati montavano le loro bancarelle sotto gli occhi gelati degli operai imbacuccati che si spostavano a piedi o in bicicletta verso le fabbriche, nella nebbia satura del fumo delle ciminiere, con la gamella del mangiare dentro la borsa di cuoio lisa, e poi si scaldavano attorno a piccoli falò accesi con le cassette della frutta ammucchiate. E io ho visto per la prima volta in una di quelle piccole piazze gelate, nelle prime ore del mattino, tra quelle chiazze di frutta e di verdura scartate e spiaccicate sopra l’asfalto, in una di quelle giornate fredde e senza speranza, i muri ricoperti di manifesti idolatrici con la tua testa circondata di raggi come se fosse un sole...»
«Sì, sì, lo so...» mi rispondeva staccandosi la sigaretta dal filo delle labbra. «Io ero là, aggredito dal morbo di Parkinson, nella mia reggia, e intanto miriadi di mani e di braccia ripetevano le mie parole e attaccavano manifesti con la mia testa circondata dai raggi, nel mio immenso Paese, nel mondo...»
«E, dietro tutto questo, spietate lotte di potere, delirio di onnipotenza, abiezione, carestie e morte per milioni di vivi sperimentali dentro la morte, un intero immenso Paese in preda a continue scosse sismiche per le percussioni di questa immane tracimazione, umiliazione e clonazione dei vivi dentro la morte, abbattimento dei templi degli idoli precedenti, mentre si dipanava sotto vesti apparentemente nuove un antico disegno imperiale e genetico, e avveniva quella che i teorici della tracimazione economica separata chiamavano accumulazione primitiva del capitale, che si attua sempre con mezzi spietati, con i genocidi, con gli schiavi, come hanno fatto i vivi dentro la morte in quelli che sono stati poi chiamati Stati Uniti, oppure con gli uomini resi schiavi dalle ideologie e dalle visioni batteriche della vita che viene prima, e tu intanto là, a coprire questa guerra e questa immane tracimazione con l’idolo della Storia dentro la morte, con l’idolo del Progresso dentro la morte, con il gioco della dialettica e con le disquisizioni filosofiche sulla contraddizione, se la sintesi è la chiusura e l’armonizzarsi di tesi e antitesi o se la sintesi si riapre e si squarcia continuamente e c’è solo questo fluire di tesi e antitesi che non vedono mai soluzione e che non cessano mai di combattersi sotto forme solo apparentemente nuove, perché si ripropongono di continuo all’interno di quella che ci sembra l’armonizzazione e la sintesi questa lotta e questa lacerazione e questa tracimazione, come avevano già cominciato a dire i detentori e i presidiatori del pensiero filosofico e concettuale scontornato dentro la vita che è dentro la morte che viene prima e che viene dopo, e intanto ragazzi incantati andavano in giro di notte ad attaccare manifesti con la tua testa trasformata in un sole, come ho fatto anch’io, come farò, mettevano prima dei comizi una musica celestiale cantata da armoniose vocine orientali scaturite da corpi di ragazze con gli occhi obliqui e che gorgheggiavano come bambine e come uccellini che “l’Oriente è rosso, il sole è sorto, la Cina ha regalato al mondo Mao Zedong”, mentre il vecchio idolo obeso si coricava ogni notte in mezzo a giovani contadine in fiore votate a riscaldare con i loro corpi teneri la sua flaccida carne...»
«Sì, sì, lo so, lo saprò...» mi interrompeva Mao, girando di nuovo la testa verso di me e sorridendomi per la prima volta, col taglio livido della sua bocca e con i suoi denti anneriti dalla nicotina, «io sono stato uno di quei giovani scontenti che si sono trovati a trascinare e a incendiare e a far tracimare interi popoli e Paesi grandi come continenti, sarò. Io mi sono trovato a vivere in un momento culmine della vita e della morte nel mondo, quando si potevano ancora evocare e scatenare queste visioni batteriche e questo mito della rivoluzione che viene prima nella vita che viene prima, in cui tutto il pensiero dei vivi nella morte che viene prima andava a culminare in quella cuspide rovesciata che veniva dopo credendo di venire prima, mentre mi aggiravo nell’Hunan all’inizio dell’ultimo secolo del secondo millennio che i vivi hanno cominciato a contare dalla nascita di quel risorto che non è voluto risorgere, non risorgerà, in mezzo a quelle campagne senza fine dove uomini magri come insetti, con le schiene piegate in due e le gambe storte, e bambine e ragazze con le facce tenere e le mani già indurite dai calli mi guardavano passare sollevando le teste dai campi terrazzati, con la loro disperazione di corpi tracimati nella vita e nel mondo. E poi quando mi sono arruolato a quattordici anni nell’esercito repubblicano di Sun Yat-sen, e poi mentre studiavo alla scuola normale di Changsha e poi a Pechino, e vedevo intorno a me quella enorme città tutta piena di tracimati, in quella luce buia, dove ho conosciuto le idee di quel tedesco barbuto tracimato pochi decenni prima in Germania nella morte che viene prima, e dove ho avuto i primi contatti con i nuclei del movimento marxista cinese. E poi mentre fondavo i primi circoli marxisti nello Hunan, e poi quando sono stato delegato al congresso costitutivo del Partito Comunista Cinese, a Shanghai, e poi quando ho riorganizzato su nuove basi la lotta partigiana sulle montagne di Ching-kang shan contro le repressioni feroci di Chiang Kai-shek, e poi quando ho formato i primi nuclei dell’esercito rosso, e poi quando ho fondato la prima repubblica sovietica libera dal controllo del Partito Comunista Cinese e del Comintern. E poi quando ho guidato la lunga marcia, e poi durante le nuove alleanze con il Kuomintang e nelle sempre nuove guerre e tracimazioni, fino alla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, di cui sono stato eletto primo presidente. Io, il ragazzo magro e scontento che si aggirava in quelle campagne piene di poveri corpi senza speranza e che si isolava nelle grotte in preda alla depressione anche mentre guidava eserciti di contadini in armi, sono diventato l’idolo obeso per milioni di altri ragazzi scontenti, il sole obeso e crudele per miliardi di altri poveri corpi senza speranza...»
Si interrompeva, per accendersi una nuova sigaretta con la cicca di quella appena finita, trovate chissà dove, in quanto restava di qualche negozio di tabaccaio svaligiato o crollato sotto i bombardamenti, frugando con le sue manine paffute, da donna, in mezzo ai banchi rovesciati e sfondati, tra i calcinacci.
«Perché non sei diventato immortale?» provavo a chiedergli all’improvviso, dopo un po’.
«Perché non c’è rivoluzione nell’immortalità, non può esserci» mi rispondeva anche lui, buttando fuori il fumo tra le due file di denti anneriti.
«Ma nell’immortalità non c’è anche l’immortalità della rivoluzione?» lo incalzavo. «Non l’hai teorizzato proprio tu che la sintesi si riapre continuamente, tanto che è difficile addirittura definirla sintesi, che la rivoluzione non ha mai fine, è immortale, che il popolo è immortale, che ribellarsi è sempre giusto, che le idee di rivolta sono immortali?»
«Sì, ma dentro la vita e dentro la morte, dentro la vita che è dentro la morte e dentro la morte che è dentro la vita! Perché, se viene prima la materia e dopo le idee, se è l’esistenza che determina la coscienza, e se l’esistenza è determinata dalla non esistenza e viceversa, la vita dalla morte e la morte dalla vita, e se è proprio da questo scontro e da questa insanabile contraddizione che scaturisce la rivoluzione, allora che rivoluzione può esserci se l’esistenza non è più determinata dalla non esistenza, la vita dalla morte e la morte dalla vita che vengono prima e che vengono dopo? E se la rivoluzione viene attuata da chi non ha niente da perdere se non le sue catene, se i vivi non hanno niente da perdere se non la loro morte, se i morti non hanno niente da perdere se non la loro vita dentro la morte che viene prima e che viene dopo, come possono farla gli immortali che hanno invece tutto da perdere se perdono l’immortalità e che quindi lottano e lotteranno sempre per conservarla?»
La sera scendeva. Uscivo quando era tutto buio, era notte fonda, per non farmi sorprendere dagli immortali.
Non sapevo dov’ero. Mi aggiravo al buio in un paesaggio bombardato e risagomato che mi sembrava di avere già visto ma che non riconoscevo.
Strade sollevate e poi inabissate, ponti spezzati su cui bisognava prendere la rincorsa per balzare dall’altra parte, case sbriciolate su cui erano passati sopra i cingoli dei carri armati, interni di stanze profanate che si indovinavano qua e là nel fiore delle esplosioni.
E poi aerei che volavano molto bassi, nel buio, elicotteri che facevano ruotare le loro pale sopra un mondo divaricato, mentre gli immortali scrutavano dall’alto con i loro visori notturni, per vedere se c’era sotto di loro qualcosa che si muoveva, per renderlo immortale con i fasci delle loro armi genetiche balenanti nel buio, pattuglie che perlustravano questo mondo in preda all’immortalità della vita e della morte e sconvolto dalla sua prima e ultima guerra immortale.
«Resta con noi! Combatti con noi!» mi gridavano molte voci, quando passavo per certe zone espugnate dai vivi e dai morti che contrattaccavano e respingevano gli immortali.
E intanto allungavano verso di me le loro nuove armi genetiche perché io le imbracciassi, e combattessi con loro, per la vita e per la morte e per la rivoluzione e per la resurrezione del mondo.
Ma io non mi fermavo, non mi arruolavo, continuavo ad andare, da solo, in un mondo dove ero già stato prima anche se adesso era prima, anche se non sapevo dove stavo andando, non lo saprò.
Ecco, io adesso sto entrando e mi sto addentrando in una zona senza ritorno della narrazione e del mondo, dove non sembra più possibile continuare a raccontare e a inventare e a increare. Eppure sto continuando a raccontare e a inventare e a increare, racconterò, inventerò, increerò.
“Dove sto andando?” mi chiedo spostandomi in piena notte dopo avere abbandonato le cantine di qualche palazzo abbattuto, o i corridoi bui dalle scansie rovesciate di qualche ipermercato sventrato, o le celle frigorifere di qualche mattatoio esploso. “Non riesco a capire dove sto andando. Forse a Milano... Ma per quali strade ci sto andando? Sto facendo un ampio giro, come se mi stessi spostando lungo una circonferenza inclinata, perché qui non si può avanzare per linee rette, per traiettorie di conoscenza definite e per orbite fisse, ma bisogna costeggiare le linee dei fronti di vita e morte che cambiano continuamente a seconda dell’avanzare dei vivi e dei morti e degli immortali. E, se è per quello, non capisco neppure chi sono, chi è che sta raccontando o che mi sta raccontando, mi racconterà, che continua a dire io e a raccontare quello che racconterà. Né perché. Chi sono io, chi sarò, per poter continuare a raccontare quando non si può più raccontare senza increare?”
E chi è quell’uomo che sta camminando nel buio davanti a me, e che lascia dietro di sé una scia di sangue tra le macerie e la polvere, da quando ho imboccato questa strada arata dai bombardamenti genetici degli immortali? E che sangue sarà? Sarà sangue di un vivo o di un tracimato o di un immortale? Ma come può sanguinare uno che è immortale?
Gli sono sempre più vicino, perché avanza piano, con enorme fatica, inclinato, come se stesse camminando su delle ossa spezzate, ma senza un gemito, un verso.
«E tu chi sei?» gli chiedo accostandomi alla sua testa nera, nel buio.
Mi giro a guardarlo: è una maschera di fango e di sangue, ha la faccia maciullata, i capelli incollati.
«Sono Pierpaolo Pasolini» mi risponde, muovendo con fatica la bocca dalle labbra sfondate.
Rimango attonito, muto.
Sto camminando al suo fianco, in questo infinito buio.
«Che cosa ti hanno fatto?» riesco soltanto a dire, a gridare.
«Mi hanno massacrato...» mi sussurra con un filo di voce.
Deve avere anche tutti i denti spezzati, perché la sua voce viene fuori dalla sua testa come da un frantoio di sassi.
«Mi hanno pestato a sangue con i bastoni, le spranghe...» sta continuando a sussurrare senza girare la testa verso di me, muovendo appena le sue mascelle scardinate e spaccate. «Mi colpivano da tutte le parti... cercavo di proteggermi la faccia e la testa con le mani, le braccia... sentivo le ossa del cranio che si sfondavano, le sue schegge che mi penetravano nel cervello...»
Sto camminando piano, perché lui sta camminando piano, sulla carcassa del suo corpo dalle ossa spaccate.
Non vedo niente, non si vede niente.
«Mi sono passati sopra con la macchina...» riprende a sussurrare, continuando a fissare il buio che c’è davanti, tra queste macerie di strade e di mondo. «Ho sentito le mie gambe e le mie costole e la mia faccia che si sbriciolavano sotto i copertoni...»
Poi non dice più niente. Si sente solo il rumore di lontane pale che stanno vorticando nella notte nera, nel cielo nero.
«Tu sei passato come un turbine nella vita che viene dopo credendo che fosse quella che viene prima» sento che la mia voce gli sta incontrollabilmente dicendo, nel buio. «In quegli anni di assassinii, di bombe, di tentativi di colpi di Stato, di terremoti, di stragi. Strage di Brescia, strage sul treno Italicus, Giangiacomo Feltrinelli saltato in aria ai piedi di un traliccio della luce alle porte di Milano, tu massacrato sul litorale di Ostia, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, e poi, subito dopo, abbattimento di un aereo pieno di passeggeri a Ustica, per quei giochi di guerra tra i vivi e i morti e tra gli aerei dei vivi e quelli dei morti, strage alla stazione di Bologna... La terra non faceva che tremare per quelle continue tracimazioni. E poi, nel mondo dei vivi dopo, sciopero dei cantieri navali di Danzica e inizio del crollo degli assetti geopolitici nati dopo la Seconda Tracimazione Mondiale, attentato al papa polacco nella piazza di San Pietro, Israele in Libano, guerra delle Malvinas, fuga radioattiva nella centrale nucleare di Černobyl’, crollo del muro di Berlino, massacro nella piazza Tienanmen, sotto gli occhi dell’idolo obeso che guardava i ragazzi e le ragazze stritolati dai cingoli dei carri armati da un immenso ritratto appeso davanti al Palazzo della Suprema Armonia...»
«Mi hanno sfondato le mani, le braccia con cui cercavo di proteggermi, le ossa delle spalle, il naso, la fronte...» sento che sta continuando a sussurrare nel buio, come se non mi avesse sentito, mentre cammina vicino a me lasciandosi alle spalle una scia di sangue come un animale scannato.
«Io ho visto, il giorno dopo, quella sconvolgente fotografia sui giornali...» gli dico ancora, incontrollabilmente, girando la testa verso la maschera del suo volto che sta guardando fisso nel buio. «Il tuo corpo stritolato, coricato per terra in un lago di sangue, la tua faccia schiacciata e priva di lineamenti, i tuoi capelli tinti insanguinati e incollati... “Ma che cosa sta succedendo nel mondo dei vivi dopo?” mi dicevo. “Che guerra è in atto? È solo la solita guerra e la solita tracimazione di morte e vita e di vita e morte o sta invece succedendo qualcosa d’altro?” Stava succedendo quello che tu avevi profetato o stava invece succedendo tutt’altro? Io leggevo le tue poesie, i tuoi romanzi, leggevo quello che gridavi sui giornali, quando, in mezzo ai servizi su re e regine e principi e principesse ripudiate apparivi anche tu, il nuovo poeta maledetto e portatore di scandalo a bordo della sua spider, oppure in smoking e farfallino al Festival di Venezia, oppure a New York, in mezzo ai grattacieli dei vivi dopo, con la tua faccia ottusa e fremente di nevrastenica scimmia ispirata. Io andavo a vedere i tuoi primi film, in certe giornate in cui mi pareva di non scorgere più niente della vita, del mondo, al primo spettacolo del pomeriggio, subito dopo avere mangiato qualcosa da solo nella grande casa dove allora vivevo, quando non c’era nessuno, c’era solo la mia testa in quella sala sprofondata nel buio, che stava guardando con i suoi occhi invasi dai batteri della visione le lotte musicali di due uomini che si divincolavano avvinghiati per terra, nella polvere, mentre arrivavano alle mie orecchie le note scritte tre secoli prima da un organista tedesco con pappagorgia e parrucca, oppure un Gesù strabico e magro che tu hai fatto risorgere dalla morte e che invece non è voluto risorgere, non risorgerà, perché ha voluto tenere in bilico sulla sua morte la bilancia della vita e della morte e dell’immortalità della vita e della morte che vengono prima e che vengono dopo, verranno...»
«Mi hanno spaccato i denti, le labbra, gli zigomi, il mento, le guance, sentivo le mie gengive cedere sotto i colpi...»
«La tua intelligenza nevralgica, così libera e scatenata, si muoveva pur sempre dentro un circuito culturale professato e guidato. Tu eri un intellettuale chierico che aveva bisogno di una chiesa, e che ne ha avute a disposizione addirittura due, quella cattolica e quella comunista che stava ormai declinando, per forzarle, per metterle in cortocircuito tra loro, per giocarle una contro l’altra e una dentro l’altra, per tirare fuori tutto quello che si poteva tirare fuori da questo cortocircuito e da questo piccolo e disperato gioco...»
«Mi hanno sfondato lo sterno, i polmoni, il fegato, le reni, le ossa del bacino, le pelvi, mi hanno stritolato la spina dorsale, le vertebre...»
«Tu credevi che stesse finendo un mondo e invece stava succedendo tutt’altro. Tu soffrivi per la fine estetica e culturale e religiosa di un mondo e non vedevi che stava intanto succedendo tutt’altro. Non vedevi che stava tracimando l’intera specie. Non vedevi cosa stava succedendo tra la fine del mondo e quella di specie, quello che stava succedendo tra la vita e la morte e la morte e la vita. Tu leggevi il mondo attraverso parvenze culturali e sociali che non c’erano più, che non c’erano mai state, che non ci saranno, ma che tu vedevi balenare ancora nel mondo come la luce di lontane stelle estinte. Tu ti disperavi dentro un cerchio piccolo e un cortocircuito stretto che cercavi di allargare e di dilatare a colpi di mitologia e di cultura, tu eri dentro lo stesso cerchio piccolo in cui erano chiusi quelli che ti amavano e anche quelli che ti odiavano e ti disprezzavano, tu parlavi la loro stessa lingua, tu credevi che con la fine del mondo agricolo ancestrale e con lo sradicamento violento dell’industrializzazione e della spettacolarizzazione e della finanziarizzazione del mondo si stesse andando verso una generale e universale omologazione e verso l’esplosione di un’unica classe media piccolo-borghese e della sua dimensione pervasiva, e che questa sarebbe stata, era già, la nuova tirannide nella vita che tu credevi venisse prima, come pensavano e teorizzavano anche quei professori tedeschi che vedevano solo la piccola catastrofe delle classi e delle culture, non la tracimazione di vita e morte, di quelle che vengono prima e di quelle che vengono dopo, verranno, non la catastrofe dell’immortalità...»
«Mi hanno sfondato la lingua, mi hanno schiacciato gli occhi, sentivo che si stritolavano a uno a uno tutti i batteri della visione...»
«E invece, persino dentro il cortocircuito stretto di quel piccolo cerchio, stava succedendo tutt’altro, la forbice non si stava richiudendo, si stava di nuovo allargando. Polarizzazione economica, aumento della ricchezza da una parte e della miseria dall’altra, all’interno dei singoli Paesi, dei continenti, tra i continenti dei vivi dopo e dei vivi prima, crolli di muri, di imperi, masse di poveri irregimentati che irrompevano nelle nuove giungle economiche e nelle loro cittadelle assediate, crac economici e finanziari di interi Paesi gettati da un giorno all’altro nella miseria dalle ondate speculative che passavano come nuvole di cavallette affamate sul mondo... Le ho viste anch’io, con i miei occhi, non so quando, non so dove, non so dentro dove, ma le ho viste anch’io, le vedrò, quelle grandi città piene di grattacieli fatiscenti da cui sgocciolava l’acqua dei condizionatori, di giocolieri bambini e di mendicanti a ogni angolo di strada, di barriere di taxi in cerca di qualcuno da caricare e da rapinare, di banche sigillate come fortezze dietro barriere di lamiera con i segni dei colpi di bastone e di pietra sferrati da donne e uomini inferociti che cercavano di espugnarle per ritirare il loro danaro e i loro risparmi, che erano invece già stati spesi e inflazionati dai morti. Guerre, tracimazioni, ripresa dei flussi migratori e genetici, barconi pieni di miserabili venuti dall’Africa dopo lunghi e disperati viaggi attraverso il deserto, corpi buttati a mare, le linee di confine tra le nazioni e gli Stati continuamente forzate e sfondate da orde di poveri con la pelle scura e con gli occhi allungati, dell’Europa, degli Stati Uniti, provenienti dalle metropoli messicane e sudamericane che coprono altipiani e vulcani con le loro baraccopoli e le loro favelas che ho visto con i miei occhi mentre mi spostavo come dentro un cratere e una tracimazione universale di morte e vita e di vita e morte, le frontiere esplose delle città e delle regioni più ricche dell’Asia, dell’Africa, con le orde di donne e uomini dagli occhi accesi nel buio e di giovani e disperati soldati del narcotraffico... Io una notte, in una città messicana, sono passato davanti a un locale dove alcuni ragazzi dei narcos avevano tagliato le teste ad altri ragazzi a uno dei piani più alti e poi le avevano fatte volare giù a pianterreno tra gli altri ragazzi e ragazze che stavano ballando avvinghiati in preda alla giovinezza... Le tue borgate e le tue baracche, quelle di cui tu piangevi la scomparsa, non solo ci sono ancora ma sono esplose. Economia dei vivi dopo e dei vivi prima indistinguibile dall’economia criminale dei vivi e dei morti, onde genetiche venute dall’ex impero sovietico deflagrato e delle virulente mitologie religiose arcaiche e nuove, le strade piene di puttane bambine africane, slave e orientali e di principesse nere impalate e altere con i loro giovani corpi possenti, tutta una folla di disperati in cerca di salvezza, di mendicanti, di schiavisti, di schiavi, che hanno cambiato in pochi decenni i volti delle città e delle nazioni umane. Altro che il soffocante giardinetto piccolo borghese protetto e curato, omologato dalla nuova tirannide televisiva e da una piccola, ottundente ricchezza, ma città piene di poveri venuti da ogni parte del mondo, di mendicanti, di zingari venuti dalle antiche migrazioni di popoli dell’Indo e che ho visto anch’io, con i miei occhi invasi dai batteri della visione, scaturire vestiti di stracci da buche scavate sotto terra in una località della Romania al confine con la Bulgaria. Altro che la classe media piccolo borghese che si mangiava tutte le altre classi nella vita che viene dopo, che si mangiava il mondo contadino e poi il proletariato agricolo e industriale, portatrice di un nuovo, pervasivo fascismo e di una nuova e piccola catastrofe soffice, ma la classe media che veniva erosa sempre più nelle continue crisi economiche, che si spaccava in due, la ricomparsa dei miserabili, proprio dei miserabili, quelli che i teorici sociali sia positivi che negativi non avevano contemplato e previsto, che avevano espunto dalle loro analisi del futuro, dalle loro magnifiche sorti progressive e poi regressive, quelli che al massimo avevano qualificato come residui marginali sopravvissuti alle nuove e inevitabili e necessarie mutazioni produttive e sociali, come sottoproletari, come lumpen, e che avevano tagliato fuori da tutte le analisi e palingenesi storiche, radiose oppure rovesciate di segno e rese catastrofiche dentro lo stesso piccolo cerchio, dalla storia dei vivi dopo e delle loro profezie e dalle loro dottrinarie utopie, e che invece sono tornati e hanno fatto irruzione con le loro solite eterne facce e il loro antico e disperato fetore, tagliati fuori da tutte le previsioni, da tutte le ingegnerie e le dottrine e dalle loro rivoluzioni e dalle loro resurrezioni dentro la vita che viene dopo e che viene prima, verrà, proprio loro, i miserabili intravisti e colti nel loro limite planetario e nel loro sfondamento di specie e nella loro tracimazione, che si fanno avanti nelle narrazioni di scrittori ottocenteschi come Hugo e Dickens, ritenute ingenue e sentimentali dagli agrimensori dei tempi nuovi, tutti quei miserabili e quei dannati che pullulano e premono nelle espansioni sceniche e romanzesche di Dante, Shakespeare, Cervantes, Melville, dei grandi romanzieri russi, Dostoevskij, Tolstoj, non nelle ponderose trattazioni economiche e sociali di chi vedeva tutto il modo attraverso la piccola lente dell’economia e della storia e della sociologia e del progresso e non con gli occhi invasi dai batteri della visione, e non la morte dentro la vita e la vita dentro la morte, e non l’immortalità della vita e della morte dentro la vita e dentro la morte, con le sue nuove plebi genetiche e le sue nuove guerre tra le nuove miserabili plebi dei vivi e dei morti, quelle che ci sono già state e quelle che ci sono adesso e che ci saranno, e non questa universale tracimazione e questa Terza e ultima guerra mondiale tra vita e morte e tra vita e morte e immortalità, con le sue visioni batteriche e le sue proiezioni che nessuno ha mai visto prima e che io adesso non so perché sto vedendo e sto raccontando e increando, che vedrò, racconterò, increerò... Ma allora io chi sono? Chi sono stato? Chi sarò?»
«Mi hanno sfondato il collo, il palato, la gola, la laringe, le corde vocali, la glottide, l’esofago, sentivo le poltiglie della fonazione stritolarsi sotto il peso di quella enorme massa di metallo che mi passava sopra...»
Adesso siamo fermi.
Mi giro un’ultima volta verso di lui, per guardarlo da vicino, in tutto questo buio.
Anche lui si è girato all’improvviso verso di me.
Mi sta guardando.
Anch’io lo guardo, lo guardo.
Non si vede niente, ma mi pare che stia piangendo, mi pare di scorgere in questo infinito buio che ci circonda delle linee nere che scendono dai suoi occhi schiacciati attraverso la maschera del suo volto di fango, e non si capisce se sono lacrime nere o se sono sangue.
«Eppure io ti cerco ancora!» gli dico irresistibilmente. «Vado a cercare i tuoi libri e li leggo e li rileggo con emozione quando ho bisogno di sentire ancora la tua insopportabile e inarrestabile voce, la tua vocina, quando non riesco più a tollerare le altre voci impostate, anche se hai sbagliato tutto, anche se hai imboccato delle scorciatoie, anche se hai avuto fretta e hai rovinato tutto, anche se hai avuto fretta perché eri dentro una fede piccola e un cerchio piccolo dove le cose girano velocemente perché sono ferme, anche se hai visto tutto e non hai visto niente, anche se hai capito tutto e non hai capito niente, anche se sei stato espunto dal novero dei poeti, perché i poeti sono altri, sono sempre altri, saranno, anche se neanch’io so che poeta sono, chi sono, chi sono stato, sarò...»
Mi è venuto ancora più vicino, con la maschera della testa fracassata e rigata, col corpo.
E allora, all’improvviso, lo abbraccio forte.
E allora anche lui, all’improvviso, mi abbraccia forte, mi stringe, con le sue ossa spezzate, con il suo corpo e il suo sangue, nella notte nera, nel buio.