«Accidenti, ce ne hai messo ad aprire!» gli dico.
Non mi risponde, mi continua a guardare, in questa luce buia, impietrito.
«E tu chi sei?» mi domanda ancora.
Non gli rispondo, gli sorrido, mi pare.
È ancora immobile nel vano della porta, mi sta guardando con gli occhi sbarrati.
«Posso entrare?» gli chiedo, con gentilezza.
Mi guarda, mi guarda.
«Che cosa sta succedendo?» mi dice ancora, immobile dall’altra parte della porta, senza staccare gli occhi dal mio volto e dalla mia testa. «Dove sono? Da che parte sono? Sto entrando o sto uscendo? Sono io che sto entrando nella mia casa credendo di uscire o sei tu che stai uscendo dalla mia casa credendo di entrare?»
Non gli rispondo.
Come si fa a rispondere?
Faccio un passo in avanti.
Si sposta.
Adesso sono dentro la casa, la mia casa.
«Da dove vieni?» mi domanda ancora, fermo nel corridoio, impietrito.
«Sono tracimato dalla morte che viene prima e sono entrato nella vita che è dentro la morte che viene prima e che viene dopo, verrà, mi sono sottratto alla vita e alla morte e all’immortalità della vita e della morte che vengono prima e che vengono dopo e sto sfuggendo ai rastrellamenti degli immortali.»
«E io?» domanda ancora, in un soffio.
Le ante sono chiuse, la casa è buia.
«E adesso che cosa succede, succederà?» sento che sta dicendo ancora. «Sono io che ti sto vedendo da dentro di te che mi stai guardando o sei tu che mi stai vedendo da dentro di me che ti sto guardando, ti guarderò?»
Faccio ancora un passo in avanti.
Entro nella cucina.
Mi fermo, mi guardo attorno, nel buio.
Lo sento vicino a me, che respira.
Devono avere ripreso a bombardare perché un fulmineo bagliore, filtrato tra i listelli delle ante chiuse, ha rischiarato per un istante i nostri due volti fermi uno di fronte all’altro nello spazio buio della cucina.
«Sei il mio biografo?» sento che si sta animando all’improvviso, vicino a me. «Sei quel biografo che mi aveva mandato il Gatto fin dal tempo degli Esordi, all’inizio, che mi manderà? Che è arrivato inaspettatamente mentre stavo mangiando con gli schettini ai piedi, ha suonato alla mia porta, in quel monolocale all’ultimo piano, in quella torre dove allora vivevo, che mi ha chiesto con gentilezza se poteva entrare, che andava in giro con tutti quegli appunti e quei fogli che tirava fuori continuamente dalla valigia, mentre il suo corpo invecchiava, moriva, si sentiva il tonfo che faceva ogni suo capello appesantito dalla brillantina quando piombava sul pavimento... Però adesso sono io quello che sta scrivendo!»
Si interrompe un istante.
Mi viene ancora più vicino, mi pare.
«Sei tu il mio biografo o sono io il tuo biografo?» mi chiede all’improvviso, con un filo di voce.
Lo sento ansimare forte, nel buio.
Come si fa a rispondergli?
Ci guardiamo ancora, nel bagliore rosso di una nuova esplosione, nel buio.
«Vieni!» mi dice d’un tratto.
Mi prende la mano.
Adesso mi sta portando nell’altra camera, stiamo costeggiando un letto disfatto, ci stiamo dirigendo verso un piccolo tavolo tutto ingombro di fogli che emanano un bagliore fosforescente nel buio.
«Guarda...» mi dice venendomi molto vicino con la testa, mi sussurra, e poi si ferma di colpo, come se non riuscisse più a continuare per l’emozione.
E io guardo, guardo, ma non vedo niente, perché c’è buio, perché qui anche la luce è buia.
«Lo vedi?» mi sta dicendo ancora, ansimando.
«No, io non vedo niente» gli rispondo.
Sento che mi sta stringendo più forte la mano.
«Perché io adesso mi sto vedendo come da dentro un altro corpo?» sento che mi sta domandando con la voce che trema, nel buio.
«Perché tu sei dentro la vita che è dentro la morte che viene prima, verrà.»
«È perché tutto è spaccato in due?»
Non gli rispondo.
Mi guarda, da infinitamente vicino, senza respirare, nel buio.
«Ma allora chi dei due sta raccontando?» mi domanda ancora, in un soffio.
Non gli rispondo, non gli risponderò.
«Sono io che sto scrivendo quello che tu stai vivendo!» mi dice all’improvviso, alzando la voce, nel buio.
«No, sono io che sto vivendo quello che tu stai scrivendo!» gli sussurro, da vicino, con dolcezza, nel buio.
Resta immobile, muto.
Mi sta stringendo convulsamente la mano.
«È perché anche la letteratura è spaccata in due?» sento che mi sussurra con un filo di voce, dopo un po’.
Non gli rispondo, gli sorrido, nel buio.
Non diciamo più niente.
Si sentono solo i boati delle esplosioni, ma lontani, adesso, molto lontani.
«Vieni...» mi sussurra ancora, d’un tratto.
Mi continua a stringere forte la mano.
Stiamo tornando incernierati verso la cucina.
All’improvviso si stacca.
Va verso lo scolapiatti che si indovina nel buio, tira fuori due piatti, delle posate da un cassetto che c’è sotto il piano del fornello, mi pare, incrostato e spento.
Li va a posare sulla tavola coperta da una cerata.
Si gira.
Adesso sento che sta frugando in una borsa a ruote che si indovina in un angolo della stanza, sta rimestando e facendo risonare forte delle scatolette che ci sono dentro.
«Ho solo queste cose trovate tra le macerie del supermercato...» si scusa, tornando verso il tavolo.
Si siede.
Mi siedo.
Sento che sta strappando via il tappo di una delle scatolette.
Rovescia nel mio piatto il suo contenuto.
Ne apre un’altra, infilando il dito in quell’anello e strappando.
Se la rovescia nel suo.
Sento salire dal basso un profumo intenso di peperonata.
Prendo la forchetta, mi metto famelicamente a mangiare.
«Sei affamato!» mi dice, con enorme stupore.
E intanto mi guarda, mi sta guardando, nel buio, mi guarderà.
Adesso è lui che mi sta sorridendo, mi pare.
«Anche a te piace la peperonata!» esclama ancora d’un tratto.
«Per forza!» gli rispondo sorridendo a mia volta, nel buio.
Ci guardiamo, in un bagliore improvviso che illumina per un istante la stanza buia, sprigionato da qualche esplosione più vicina, da qualche palazzo che starà crollando e bruciando qui intorno, in ciò che resta di via Sigieri, di via Pierlombardo, di piazzale Libia.
«Io invece non riesco più a mangiare quasi niente» mi dice, dopo un po’, nella stanza di nuovo buia. «Tutta questa roba fredda, non cucinata... Il cibo mi ritorna indietro, il mio esofago lo respinge, di notte ho conati di vomito, mi sveglio di colpo, quelle poche volte che riesco a dormire un po’, tossisco convulsamente, sento il sapore acido di quel po’ di cibo semidigerito che riesco a mangiare ritornarmi in gola... Non lo so se ce la farò ad arrivare al traguardo.»
«Non ti preoccupare» gli rispondo nel buio, «non c’è il traguardo.»
«Non lo so se ce la farò a finire quello che ho cominciato...»
«Non ti preoccupare» gli rispondo con dolcezza. «Adesso sono arrivato io, lo finirò io, non lo finirò, lo increerò.»
«Certe volte non ci vedo più, perdo conoscenza, sono tormentato da continue emicranie, sto diventando sordo, le guarnizioni non tengono perfettamente, mi bagno una gamba, quando mi alzo di notte per pisciare in una bottiglia di acqua minerale vuota a cui ho allargato l’imboccatura con un coltello...» sta continuando a dire nella cucina di nuovo buia. «Non lo so perché sono stato scelto io, proprio io, se poi sono stato scelto, perché devo portare io, in queste condizioni, un simile peso...»
«No, no, non è un peso» gli dico ancora, con dolcezza, nel buio. «E poi non lo stai portando da solo...»
«Io non lo so di cosa sono il tramite, di cosa sono il magnete, io non capisco niente...»
«Non ti preoccupare, anch’io non capisco niente. Anch’io fino a poco fa, quando sono stato intersecato a mia volta in quel seminario da qualcuno che mi guardava come se stesse guardando da un’altra parte se stesso come tu adesso mi stai guardando come se stessi guardando da un’altra parte te stesso, non capivo niente. Ma anche adesso che capisco molte cose che allora non riuscivo a capire, non capisco ancora niente, non capirò.»
Continuiamo a mangiare uno di fronte all’altro, nella cucina buia rischiarata di tanto in tanto dai bagliori delle esplosioni.
«È perché anche la letteratura è spaccata in due?» mi domanda all’improvviso, per la seconda volta, protendendo in avanti la testa, nel buio.
Chiudo gli occhi per un istante, anche se non si vede niente, non si vedrà.
«Non lo so se anche la letteratura è spaccata in due, non lo so se c’è davvero qualcosa che è spaccato in due...» sento che la mia voce gli sta improvvisamente dicendo, nel buio, senza capire quello che sta dicendo, perché mi capita a volte di pronunciare irresistibilmente delle frasi che non capisco, non capirò. «Io non lo so se ci può essere qualcosa che è spaccato in due, man mano che ci si allontana dalla vita e dalla morte create e dall’immortalità della vita e della morte create e si va verso il magnete dell’increazione.»
Mi fissa nel buio, sbalordito, mi pare.
«Ma allora che cosa ho scritto finora? Che ogni cosa è spaccata in due, lo sarà, per questo sisma di vita e morte e per questa tracimazione universale e per questa guerra di vita e morte da una parte e di immortalità di vita e morte dall’altra e adesso di immortalità di vitamorte da una parte e di increazione dall’altra...»
«Niente è spaccato in due.»
«Ma allora perché è stato scritto?»
«Perché non eravamo ancora abbastanza vicini al magnete dell’increazione, perché si vede che allora non c’era altro modo per avvicinarsi poco per volta attraverso il movimento tellurico delle figurazioni e delle significazioni al magnete dell’increazione, perché in questo movimento è stato magnetizzato anche il residuo del linguaggio creato e le sue strutture concettuali che facevano ancora diaframma al magnete dell’increazione.»
«Però stai mangiando come un lupo!» esclama, non so perché, all’improvviso, ridendo.
Rido anch’io.
«È perché non mangio da molto, è perché sono in fuga da molto attraverso le linee di questa prima e ultima guerra e di questa immane tracimazione, è perché mi hai messo davanti tu questa peperonata, è perché hai scritto tu, stai scrivendo tu che io sono affamato e che la sto mangiando e la sto divorando come un lupo affamato, la mangerò, la divorerò!»
«Ma se sono io che sto scrivendo quello che tu stai vivendo!»
Lo sento respirare e ansimare forte, nel buio.
«Tu chi sei?» mi domanda improvvisamente.
Gli sorrido soltanto, senza vederlo, nel buio, perché non lo so, non lo saprò.
Mi continua a fissare in silenzio, impietrito.
«Ma allora, se la letteratura non è spaccata in due, se le parole dei vivi non sono già state pronunciate dai morti e quelle dei morti non sono già state pronunciate dai vivi nella morte che viene prima e che viene dopo, verrà, se il racconto dei vivi non è tutto dentro la morte e quello dei morti non è tutto dentro la vita che viene dopo e che viene prima, come faccio a spiegarmi quello che sta succedendo, quello che mi è successo e che mi sta succedendo anche come scrittore?» mi dice d’un tratto, e mi sembra che sia venuto più avanti con la testa, nel buio, e che adesso mi stia parlando con le lacrime agli occhi. «Io non lo so da dove venivano certe irruzioni in forma di frasi configurate che continuavano ad apparire nei Canti: “Il mondo dove siamo già stati è tutto dentro un altro mondo dove ancora non siamo”. “Solo nel punto massimo dell’indistinzione avviene la separazione e l’increazione...” Io cercavo di spiegarmi con questa lacerazione il fatto che non vedevo quello che gli altri vedono ma che non c’è e che vedevo invece quello che non si vede perché c’è, ci sarà. E allora mi sembrava di non fare parte dello stesso mondo creato e che per questo gli altri non solo non volessero ma non potessero vedermi e dare accoglienza alla mia voce nel mondo. In fondo non ne hanno colpa, mi dicevo...»
«Non ne hanno colpa...» sento che la mia voce sta ripetendo, nel buio.
«E mi dicevo che forse era proprio questa cosa spaccata in due la letteratura, mi dicevo che proprio per questo poteva esserci al suo interno uno spazio segreto, un’intercapedine, una cruna, potrà. Proprio perché era spaccata in due. E cercavo di spiegarmi così anche la sua terribile ineffettualità, quella che può apparire come la sua ineffettualità in questa spaccatura di piani e di spazi e di dimensioni e in questa immane tracimazione, quando mi disperavo perché nessuno aveva dato retta a Omero, a Dante, a Shakespeare, a Cervantes, a Melville, a Dostoevskij, a Kafka, darà. “Per quale ragione?” mi domandavo. Per questa spaccatura di faglia tra vita e morte da una parte e immortalità della vitamorte dall’altra?»
«E immortalità della vitamorte da una parte e increazione dall’altra...?» sento che la mia voce sta continuando la sua frase, nel buio.
«E capivo che questa spaccatura si ripeteva e si riproduceva continuamente anche all’interno stesso delle strutture linguistiche e concettuali dei vivi e dei morti nella vita e nella morte e nell’immortalità della vitamorte del mondo e nelle sue rappresentazioni e figurazioni, che all’interno di questa percezione tutto il mondo e il suo sogno mentale si potevano ridurre alla produzione continua di antinomie e al movimento tellurico che riproduceva all’infinito questa spaccatura di faglia. Da migliaia di anni poeti, scrittori, cantori girano imprigionati all’interno di questo cerchio della vita e della morte create e dell’immortalità della vitamorte del mondo, mentre i filosofi, con la loro invenzione concettuale separata della verità di cui si sono proclamati automaticamente sacerdoti e custodi, hanno fissato i confini, hanno perpetuato questa scissione e questa separazione: Socrate, Platone, Aristotele... fino a Kant, Hegel... Ma dove vanno a finire le categorie filosofiche, l’essere e il nulla, l’essere e il divenire, l’essere è e il non essere non è, viene prima l’esistenza o prima l’essenza... se anche la creazione e anche la distruzione e l’immortalità della creazione e della distruzione sono tutte dentro l’increazione? Leopardi stesso, quando si è mosso nel cerchio chiuso della filosofia e con i suoi strumenti si è incartato, non poteva non incartarsi, e allora anche lo strumento linguistico ha cominciato a girare su se stesso, sono arrivati i giochi di parole, il tutto è nulla, eccetera... Perché il limite è anche nello strumento stesso e nella struttura stessa, nella separazione e nella stilizzazione che comportano. Gli scrittori, i poeti, i musicisti, i pittori hanno fatto qualcosa di grande solo quando si sono insubordinati, hanno rotto gli argini, hanno sfondato questa gabbia e hanno sconfinato, hanno varcato una soglia, sono andati da un’altra parte: nelle grandi espansioni romanzesche ed esplosioni di pensiero, figura e suono del Cinquecento, del Seicento, dell’Ottocento... E allora mi dicevo: “Ecco, forse è dentro questa cruna segreta che può muoversi qualcosa di alieno anche dentro quella cosa che hanno chiamato stupidamente letteratura, forse al suo interno ci sono delle soglie segrete che si aprono non sul cerchio della vita e della morte create ma sull’increazione, anche se è così difficile e quasi impossibile significarlo con il residuo di queste parole, di queste descrizioni figurali e concettuali di un mondo che non c’è, che non c’è mai stato, che non ci sarà, anche se è così terribile farlo stando dentro la disperazione di questo e di qualsiasi altro linguaggio, della nascita e della cruna dei linguaggi simbolici e concettuali configurati... Mentre qui tutto è ormai irresistibilmente attratto dal magnete segreto dell’increazione, tutto si sta increando, gli stessi personaggi già apparsi nella vita e nella morte e nell’immortalità di quest’opera che non è un’opera e di questo mondo si stanno increando, stanno sprigionando una forza di increazione inconciliabile con la creazione e la distruzione creativa anche di se stessi, si stanno sprigionando possibilità narrative mai viste prima e mai viste dopo in questo movimento increato che attrae a sé ogni cosa e ogni forma, fino all’istante increato che precede la creazione, fino all’istante creato che precede l’increazione, quello di cui la fisica non riesce a venire a capo...»
Mi sto spostando irresistibilmente in avanti anch’io, sulla sedia, nel buio.
«Quando gli scrittori, i poeti non si porranno più al cospetto della vita e della morte e dell’immortalità della vita e della morte create ma dell’increato...» comincio a dire.
Mi interrompe.
«Tu chi sei? Da dove ti viene tutto questo?»
«Non credere, lo sto capendo anch’io adesso mentre lo dico...»
Non mi lascia finire.
«La vita, la morte, l’immortalità della vita e della morte create, la spaccatura che attraversa ogni cosa, la faglia... E allora la mia, la nostra impresa, la nostra indovinazione, la nostra invenzione e la nostra fondazione sono di oltrepassarle e di anticiparle nel movimento inconcepibile dell’increato...»
«No, non è indovinazione, non è invenzione, non è fondazione, non è inconcepizione, non lo sarà» gli rispondo con dolcezza, nel buio. «Perché l’indovinazione, perché l’invenzione, perché la fondazione, perché l’inconcepizione e l’anticipazione sono ancora dentro l’invenzione e l’anticipazione del mondo creato e della vita e della morte e dell’immortalità della vita e del mondo creati, mentre l’increazione...»
Non faccio in tempo a finire la frase.
Tutta la casa trema.
Deve essere caduta una bomba, vicino, molto vicino.
Vedo la sua testa sbalzare per un istante di fronte a me, illuminata dal bagliore giallo dell’esplosione.
Mi alzo, vado irresistibilmente a guardare attraverso le fessure tra i listelli dissestati delle ante.
Dall’altra parte del cortile la casa non c’è più, è sbriciolata.
C’è solo un enorme cratere che sta bruciando e fumando.
C’è solo una nuvola di fumo e fuoco.
L’enorme magnolia che c’era in mezzo sta ardendo.
«Hanno colpito la casa!» gli dico, coprendomi la bocca con la mano per poter respirare.
Anche lui si copre la bocca, perché il fumo rovente sta entrando attraverso le fessure tra i listelli.
Tossisce convulsamente.
Il mangiare gli esce di bocca.
«Ecco, lo vedi, non riesco più a trattenere il cibo!»
Si dirige verso il gabinetto.
Sento che sta vomitando dentro la tazza.
Quando ritorna è bianco come un lenzuolo, gli tremano le gambe, mi pare.
«Sto molto male» mi dice. «Sto morendo.»
Va verso la camera da letto.
Mi metto al suo fianco, lo sorreggo perché sbanda forte, prendendolo per un braccio.
Si butta di traverso sul letto.
«Stammi vicino» mi dice.
Vado a prendere una sedia in cucina, mi siedo a fianco del letto.
Allungo una mano verso la sua testa, verso la sua fronte che si indovina nel bagliore che viene da fuori, dal mondo.
«Stai bruciando di febbre!» gli dico.
La sua fronte è imperlata di sudore.
Mi alzo, raggiungo il piccolo gabinetto che c’è subito dopo la cucina, senza sbagliarmi, perché conosco la strada, perché il pavimento è ancora rischiarato dalla luce della grande magnolia che sta continuando ad ardere al centro di ciò che resta del cortile interno di questa casa.
Mi tappo istintivamente naso e bocca con una mano, per il fetore, perché lo scarico del water è ingorgato di vomito e feci e la poca acqua che ancora scaturisce dai rubinetti e dallo sciacquone non è sufficiente a pulirlo.
Cerco un asciugamano vicino al lavandino. Lo trovo.
Apro il rubinetto, lo bagno con un filo d’acqua che sgorga ancora per un po’, poi si ferma.
«Deve essere quel po’ d’acqua che c’era ancora dentro le tubature tranciate da queste ultime bombe cadute sul cortile, sul mondo...» mi dico inzuppando l’asciugamano con le estreme gocce che cadono sempre più distanziate dal rubinetto.
Torno nella camera da letto.
«Mettiti meglio» gli dico raddrizzando il suo corpo sul materasso.
Gli passo sulla fronte l’asciugamano bagnato.
Sta sussurrando qualcosa, a fior di labbra.
Mi avvicino con la testa alla sua testa e alla sua bocca che sta bisbigliando, nel buio rischiarato dai bagliori e dalle fiamme del mondo che sta ardendo e si sta consumando.
«Non mi faccio illusioni su quello che sto scrivendo...» sento la sua voce bisbigliare nel buio. «Non ci capiranno niente, lo scambieranno per un monolite senza contorni...»
Non parla più, per un po’.
Ha gli occhi chiusi.
Trema.
Io continuo a passargli l’asciugamano sulla fronte sudata.
«Lo scambieranno al massimo per un romanzo di fantascienza, per un paradosso, per il più incredibile, il più inconcepibile rompicapo di tutta la storia della letteratura mondiale...»
Continua a tremare, per la febbre, perché tutto il mondo trema.
«Io vorrei solo ritornare là da dove sono venuto, invisibile, inavvistato, increato...» sento che sta bisbigliando ancora, dopo un po’.
Continuo ad accarezzargli con l’asciugamano la fronte sudata.
Credo che si sia addormentato, che abbia perso conoscenza, perché adesso non dice più niente, trema soltanto, mentre io continuo ad accarezzarlo con la scusa di asciugargli il sudore che gli imperla la fronte.
Si sveglia di soprassalto.
Adesso mi guarda, mi sta guardando, mi pare, con gli occhi aperti, sbarrati.
«Tu chi sei? Che cosa fai vicino al mio letto?» mi chiede improvvisamente, come se mi stesse vedendo per la prima volta.
Non gli rispondo, gli continuo ad accarezzare il volto, gli occhi, la fronte.
«Povero stupido, povero stupido...» sento che sta dicendo, e non si riesce a capire di chi dei due sta parlando.
Poi più niente.
Il bagliore della magnolia che continua a crepitare e a bruciare rischiara la fornace di questa piccola stanza dove io sto morendo e sto tracimando di fronte a me stesso.
«L’illusione del primo uomo, l’illusione dell’ultimo uomo...» sento che sta ricominciando a dire.
Si interrompe, comincia a tremare ancora più forte, a tossire forte.
Io gli tengo la testa, perché trema e sussulta così forte che sembra sempre sul punto di staccarsi dal resto del suo corpo.
Mi sporgo ancora di più sul letto, gliela abbraccio, gliela stringo forte, per tenerla ferma.
A poco a poco si calma.
Adesso non tossisce più, non trema più. Sta disteso sul letto dal solo materasso e mi guarda, mi guarda, mi guarderà.
«E allora, dentro questo cerchio di vita e morte create, il tutto è già stato detto e tutto è già stato pensato e tutto è già stato scritto conteneva una sua intuizione e una sua ragione...» riprende a dire, più distesamente, dopo un po’ «a cui si può sempre contrapporre il niente è già stato detto e niente è già stato pensato e niente è già stato scritto dell’increazione...»
Lo accarezzo, gli continuo a passare la mano sulla fronte bagnata.
«Ma è proprio questo l’unico spazio che finalmente si offre, l’unica dimensione...» riprende a dire, con la testa tra le mie mani e tra le mie braccia «che c’è, che c’è sempre stata, mentre è l’altra che non c’è, che non c’è mai stata, non ci sarà, dove siamo già tutti senza saperlo... Si sta aprendo di fronte a noi l’oceano senza confini dell’increato...»
Chiude gli occhi. Si addormenta di schianto, esausto.
Io continuo ad accarezzarlo anche nel sonno, sulla fronte, con una mano leggera, per non svegliarlo.
Mi fermo, perché adesso sta dormendo profondamente, mi pare.
Rimango a guardarlo, seduto sulla sedia, nella fornace di questa stanza dove il bagliore si sta spegnendo.
Mi addormento anch’io, forse per pochi istanti, forse per molto, perché anch’io sono esausto.
Mi sveglio di soprassalto. Adesso anche lui è sveglio. È girato su un fianco, verso di me, con la testa sollevata dal cuscino e metà del corpo inarcato su un gomito. Mi sta guardando, mi sta fissando, a occhi spalancati, nel residuo di questa luce che a poco a poco scompare, come se mi stesse vedendo per la prima volta adesso.
«Tu chi sei?» mi domanda ancora.
Non rispondo, non risponderò.
Come si fa a rispondere?
Si lascia ricadere sul letto, la testa sul cuscino, fradicia di sudore, che luccica nella penombra.
«Tutta la mia vita, tutta la mia morte...» comincia a dire.
Poi si ferma.
Ricomincia a tremare.
Gli tocco la fronte con una mano.
Brucia. La febbre gli sta ancora salendo.
«Tutto il mio mondo, tutta la mia vita, tutta la mia morte...» riprende a dire, così piano che devo sporgermi molto in avanti, e accostare l’orecchio alla sua bocca per poter sentire. «Tutto questo mondo creato... Io ho vissuto dentro questa prigione nera, vivrò, ma intanto ero da un’altra parte, sarò...»
Si interrompe.
Annaspa con la mano, in cerca della mia mano.
Gliela prendo, gliela stringo.
«Io non lo so dov’ero...» riprende a bisbigliare. «Ero in quella grande casa nera tutta piena di percosse e di grida... era notte fonda, la porta della mia stanza rimbombava per i colpi, i suoi cardini uscivano dal muro, si allungavano come se fossero di gomma... Ero in quel seminario, ero là, ma non so dov’ero, se c’ero... Il Gatto stava suonando l’armonio nella chiesina nuova, io allora ho cominciato a scrivere qualcosa su un foglio, scriverò... In quell’istante si è aperta una cruna, ho capito che ero un po’ di qua e un po’ di là, che stavo entrando dentro qualcosa che non era da questa parte e che si espandeva...»
“Sta delirando” mi dico continuando a tenergli stretta la mano.
Gli tocco la bocca, con l’altra mano.
Le labbra sono secche, screpolate, disidratate.
Non gli posso neanche dare da bere perché non arriva più acqua nella casa.
«Giravo per la mia città in preda alla giovinezza...» sta continuando a bisbigliare, con la bocca contro il mio orecchio «tutte quelle strade antiche e buie, nella solitudine disperata della giovinezza nella vita e nella morte del mondo... “Dove sono?” mi domandavo. “Dove sarò? Perché sta scorrendo intorno a me questo fiume seminale di corpi in preda alla giovinezza?” E poi la Pesca ha cominciato a scendere per quella scaletta, ma non si capiva se saliva o scendeva...»
Sento la carta vetrata della sua bocca che continua a muoversi contro il mio orecchio.
«La vita, la morte, tutta la vita, tutta la morte... Mi sono gettato nella rivoluzione dentro la vita che pensavo venisse prima, perché credevo che si potesse inventare la vita dentro la morte che viene prima... mi sono gettato nella cruna della letteratura che credevo venisse prima, solo nella mia piccola stanza che stava facendo cruna dentro la prigione buia del mondo e della vita e della morte del mondo... Giravo di notte, da solo, con una lattina di birra in mano, in quelle periferie buie e piene di fuochi...»
Adesso il suo respiro è più forte, parla in modo più disteso, inarrestabilmente, come se un segreto vigore lo stesse all’improvviso attraversando e animando.
«Venivo calpestato, umiliato, messo alla porta, perché ero già fuori dalla porta, non solo della mia epoca ma anche di questo mondo e della sua vita e della sua morte e dell’immortalità della sua vita e della sua morte create e della sua significazione e figurazione, adesso lo capisco, lo riconosco... Lottavo per nascere, per tracimare, come se la vita venisse prima, come se la nascita venisse prima, come se la creazione venisse prima. Il mondo diventava buio di colpo, la luce diventava nera, si scatenavano nella poltiglia dei miei occhi i batteri della visione...»
Si interrompe improvvisamente.
Mi stringe più forte la mano, me la scuote, come se mi volesse dire qualcosa ma non ci riuscisse.
«Cosa c’è? Cosa c’è?» provo a domandare, con la testa contro la sua testa.
Sento, che ha le guance rigate di lacrime.
«Perché piangi?» gli chiedo.
Non mi risponde, non riesce a rispondermi.
«Dovrei alzarmi...» mi dice in un soffio, dopo un po’.
«Non ti preoccupare... Ci sono io.»
Lo aiuto a sollevarsi dal letto. Lo metto in piedi, tenendogli un braccio attorno al corpo perché non cada.
Sta puntando i piedi sul pavimento, cerca di fare un passo.
Trema, trema forte, in questo mondo che trema.
«Forza!» gli dico. «Io ti aiuto.»
Comincia a muovere un passo, poi un altro.
Sbanda, trema forte, contro il mio braccio che lo sorregge.
Ci stiamo muovendo verso la cucina, la stiamo già attraversando.
Il gabinetto è buio, sarà.
C’è un enorme fetore.
Ci fermiamo vicino alla tazza del water. Lo aiuto a slacciarsi la cintura, i bottoni, ad abbassarsi i calzoni, a sedersi.
Sento che sta già cominciando a evacuare, il fragore improvviso delle scariche liquide che stanno colpendo lo scarico del water completamente ingorgato.
Tutto il suo corpo trema.
Piange forte, per l’umiliazione.
«No, no...» gli dico per consolarlo, e intanto, con la mano che non lo sorregge, gli accarezzo le guance bagnate, la fronte.
Aspetto ancora.
«Hai finito?» gli dico dopo un po’, con dolcezza.
Fa di sì con la testa, più volte, come un bambino, si asciuga le lacrime col dorso di una mano, tira su con il naso.
Lo aiuto ad alzarsi, cerco la carta igienica, ma non c’è.
Trovo per terra un paio di mutande sporche, vicino alla lavatrice dalla portella staccata. Lo pulisco con quelle, per non lordare il letto.
Butto le mutande dentro il water.
Gli tiro su i calzoni, lo afferro di nuovo forte, col braccio, riprendiamo a camminare a piccoli passi verso la camera da letto.
Riattraversiamo la cucina sempre più buia.
Adesso siamo vicino al letto.
Lo faccio coricare piano, poco per volta, perché ha ripreso a piangere forte, a tremare.
Non dice niente.
Piange, continua a piangere.
Da fuori non stanno più venendo rumori improvvisi di bombe, di schianti, si avvertono solo gli ultimi scricchiolii dell’incendio che sta finendo di consumare ciò che resta dell’ala di fronte di questa casa abbattuta.
Dopo un po’, a poco a poco, si riaddormenta, ma sento che continua a piangere anche durante il sonno.
Non lo so se mi addormento di nuovo anch’io o se sono sveglio, se gli continuo ad asciugare e ad accarezzare la fronte da sveglio oppure nel sonno.
Il suo respiro è sempre più profondo, più rauco.
Gli sto tenendo ancora la mano, lo continuo a vegliare, da sveglio o nel sonno, nel buio.
D’un tratto mi sveglio di soprassalto, se stavo dormendo.
Sento che mi sta scuotendo forte la mano.
È girato verso di me, con metà del corpo staccata dal materasso, la testa sollevata e puntata.
Mi sta guardando con gli occhi sbarrati.
«Cosa stai facendo? Ti eri addormentato?» mi dice continuando a fissarmi.
«Non lo so...» provo a dire. «Non lo so dov’ero. Non lo so se ero sveglio o se stavo dormendo.»
Adesso mi sta sorridendo, mi pare, con gli occhi ancora sbarrati, nel buio.
È sempre girato verso di me, mi fissa ancora per un istante prima di lasciarsi cadere di nuovo sul letto.
Sta respirando forte, sta facendo riserva d’aria, sta strappando l’aria a brani dall’atmosfera buia di questa stanza e del mondo.
«Io ho portato al culmine...» comincia a dire d’un tratto, con un filo di voce indistinguibile dalla macchina della respirazione.
Abbasso la testa, appoggio l’orecchio alla sua bocca screpolata che ha ripreso a bisbigliare inarrestabilmente nel buio.
«Io, il più stupido degli uomini, ho portato al culmine e alle sue estreme conseguenze la visione di questa epoca della vita e della morte e dell’immortalità della vita e della morte del mondo, dei mondi, passando attraverso il più stupido e il meno presidiato degli spazi che sono riuscito a intercettare nella mia stupida e disperata vita dentro la morte, attraverso la cruna della letteratura... Io ho svelato che non si trattava soltanto di un passaggio d’epoca, di un passaggio d’era e persino di un passaggio di specie, ma dell’inconcepibile e dell’indicibile manifestarsi del magnete che sta magnetizzando ogni cosa e che ci sta portando alle soglie dell’increato... Tutte le descrizioni, le agnizioni e le antinomiche conoscenze dei vivi dentro la morte, mitologiche, religiose, scientifiche, tecnologiche, stanno solo facendo disperatamente diaframma al magnete dell’increazione, hanno sempre fatto, faranno... Quella che sembra in atto non è solo una di quelle catastrofiche lotte tra strutture biologiche, genetiche e sapienziali emerse, quando due epoche o addirittura due ere collassano l’una sull’altra, quelle che vedono i vivi e i morti e anche gli immortali... Vedono solo queste piccole strutture che si sfracellano, i loro raffiguratori, i loro pensatori e i loro narratori si affrettano a darne una piccola descrizione antinomica dentro la vita e dentro la morte create... il tempo della parola che sta per essere inghiottito da quello dell’impulso elettronico e dell’immagine pervasiva, l’avvento dell’era digitale dentro la morte che viene prima, le cose che non viaggiano più dentro le strutture irradianti delle parole tatuate e di quelle concettuali e figurali che si formano nella mente e nei sogni che fa la mente ma dentro questo nuovo mare amniotico resettato della dimensione digitale del mondo che sta avvolgendo la vita dentro la morte, l’ibridazione uomo-macchina, il postumano, lo sdoppiamento di specie, una specie umana dentro la vita che è dentro la morte che viene prima, l’altra che è dentro la morte che è dentro la vita che è dentro la morte che viene prima e che viene dopo, verrà, per dare vita a una nuova specie che è dentro l’immortalità della vita e della morte che sono dentro la vita e la morte che vengono prima e che vengono dopo, verranno... E io, qui, proprio adesso, con la mia sola parola magnetizzata, che viene prima e che viene dopo, dentro questo culmine...»
Smette di parlare, esausto.
Respira affannosamente.
Ha la fronte fradicia di sudore.
Glielo detergo con un angolo dell’asciugamano un po’ meno inzuppato.
Respira forte, per carpire ancora un po’ d’aria dall’atmosfera che circonda questo piccolo mondo creato.
Forte, così forte che il suo respiro sembra un rantolo, un verso.
«Io non so niente...» riprende a dire tutto d’un fiato, dopo un po’. «Io sto soffocando, io sto morendo, io non so verso cosa sto tracimando... Però, da qualche parte, io sto arrivando. Io mi sto aspettando...»
Poi non dice più niente.
La sua bocca adesso è sigillata.
La stanza è buia. La magnolia ha finito di bruciare, si è spenta.
Si sente il rantolo della sua agonia in questa stanza buia.
Gli continuo a tenere la mano, me la stringe.
Si sente solo il rantolo della mia agonia in questa stanza buia, nel mondo.
“Ma allora non sono morto investito da una macchina mentre succhiavo un tronchetto di liquirizia e fantasticavo...” mi dico improvvisamente “non sono morto lungo quel sentiero dove i cinghiali mi toccavano il volto con il loro muso freddo e bagnato prima di lacerarmi con le loro zanne, non sono morto mentre scendevo lungo quella interminabile scala dopo avere parlato col tracimatore nel quartier generale dei morti, non sono morto quando diventava tutto buio nel mondo, non sono morto sfracellato contro quel muro improvviso mentre volavo con la bicicletta giù dai tornanti di quella stradina, non sono morto annegato in quel fiume pieno di gorghi neri, a Ducale, non sono morto quando mi hanno fermato di notte su quei tornanti, non sono morto quando sono arrivato in quella sede deserta... Sto morendo adesso!»
Il corpo si solleva sempre più dal materasso nello sforzo della respirazione, il torace si alza, si inarca.
La testa è arrovesciata sul cuscino fradicio di sudore, la bocca è un imbuto.
“Sto soffocando!” mi dico.
La magnolia non arde più. È tutto buio.
Continuo ad ascoltare il rantolo della mia agonia in questa stanza infinitamente buia.
Il verso cresce, il corpo scatta sempre più verso l’alto come una molla, a ogni colpo di mantice della respirazione.
Poi, a poco a poco, si affievolisce sempre più, sembra cessare del tutto.
Riprende.
Io continuo a stringere la mia mano con la mia mano.
Non vedo niente, sono incernierato al mio corpo che sta morendo e che sta tracimando.
Qualche grido lontano, qualche crepitare lontano, di mitragliatrice, da fuori.
Poi di nuovo silenzio.
Solo questo rantolo che esce dall’imbuto della mia bocca spalancata nel buio.
Lo ascolto per molto, lo ascolterò.
Si ferma per qualche istante, riprende.
Si ferma di nuovo.
Abbasso l’orecchio sull’imbuto della sua bocca.
Più niente.
Solo buio, silenzio.
«Sono morto!»