“Ecco, adesso è iniziata la decomposizione del mio corpo...” mi dico senza vedere niente, nel buio, mentre sono ancora incernierato a me stesso attraverso le dita artigliate della mia mano “le cellule non controllano più gli enzimi, si stanno autodivorando, il liquido comincia a uscire dalla struttura delle cellule divorate, i batteri si stanno cominciando a ingozzare delle scolature che escono dalle cellule massacrate... Adesso è questo che starà avvenendo dentro la stessa visione consustanziata dei nostri corpi che si stanno disattivando e stanno tracimando. Questo sono io vivo da morto, sarò, non sarò...”
Mi stacco dalla cerniera della mia mano.
Mi alzo dalla sedia.
Rimango per qualche istante a guardarmi, senza vedermi, nel buio.
Allungo le braccia verso il mio corpo tracimato.
Me le passo sotto la mia schiena e sotto le mie gambe stecchite.
Mi comincio a sollevare dal materasso.
Sono leggero, sono pelle e ossa, eppure come peso!
Mi sollevo ancora di più, metto il mio corpo di traverso su una sola spalla, poi me lo metto sopra tutte e due le spalle, con la testa da una parte e le gambe dall’altra, tenendolo fermo con le mie braccia.
Mi giro verso la porta.
Faccio qualche passo verso la cucina, barcollando un po’ sotto il peso del mio stesso corpo.
Lo bilancio meglio sopra il collo e le spalle.
Attraverso la cucina buia, arrivo in fondo al corridoio, fino alla porta.
Non è chiusa del tutto, è rimasta accostata, tanto in questa casa non c’è più nessuno, non ci sarà.
La spalanco con un calcio.
Mi affaccio al pianerottolo buio.
Non si vede niente, si scorge solo la linea della ringhiera di ferro contro la voragine delle scale.
Attraverso il pianerottolo, imbocco la rampa nera, tastando con i piedi a ogni passo per non rotolare giù con il peso del mio corpo sopra le spalle.
I gradini sono disarticolati per lo spostamento d’aria e di spazio dell’ultima esplosione che ha demolito l’altra ala della casa.
Si sente il rimbombo dei miei passi nella tromba delle scale dissestate e deserte.
Imbocco il secondo pianerottolo e la seconda rampa.
Bilancio meglio il mio corpo sulle mie spalle, perché tende a cadere da una parte, dove c’è il peso della testa disattivata.
Ricomincio a scendere lungo l’ultima rampa.
Arrivo in fondo alle scale.
Faccio anche gli ultimi gradini che mi dividono dal cortile, inclinando tutto il corpo da una sola parte per bilanciare il peso e impedire al mio corpo di cadermi giù dalle spalle.
Il cortile non c’è più, è un cumulo di macerie fumanti, di vetri rotti, di spuntoni, di travi.
L’aiuola che c’era al centro non c’è più, è un cratere.
La magnolia non c’è più, c’è solo un pezzo di tronco carbonizzato e spezzato.
Arrivo fino ai bordi del cratere.
Mi piego su me stesso, per far scivolare il mio corpo giù dalle mie spalle.
Mi butto dentro.
Vedo il mio corpo stecchito rotolare su se stesso lungo i bordi inclinati del cratere, del mondo.
Ci butto sopra delle macerie, di mattoni sbriciolati, di intonaci polverizzati, aiutandomi con i piedi, le mani, le braccia, nel buio, per non venire dilaniato e divorato da morto dai cani degli immortali.
Adesso il mio corpo non si vede più.
Mi sono sepolto.
Rimango ancora per un po’ ai bordi del cratere, fermo, immobile, a capo chino, senza vedere niente, nel buio.
Non lo so se ho le lacrime agli occhi, se le avrò.
Sto bisbigliando qualcosa a fior di labbra, mi pare, qualcosa che adesso non dico, che non dirò.
È notte fonda, nella vita, nel mondo.
Mi giro verso il portone, che non c’è più. C’è solo un pezzo di soffitto che esce ad angolo e che si spenzola verso il vuoto dell’altra ala della casa crollata.
Muovo alcuni passi verso l’uscita, passo sotto il pezzo di corridoio che arriva fino al portone esterno, a fianco della gabbiola schiantata della custode, della rientranza franata tutta piena di schegge di cassette postali macinate.
Arrivo fino all’uscita.
Guardo fuori, nella notte, nel buio.
C’è un silenzio profondo, nella strada invasa da macerie ancora fumanti, delimitata qua e là da scheletri di facciate di case abbattute.
Non più schianti di bombe, crepitare di mitragliatrici, canti muti e lontani peana che si levano nella notte del mondo investito da questa prima e ultima guerra.
Resto immobile, in piedi, non so per quanto, continuando a guardare con gli occhi ancora bagnati di lacrime tutto questo mondo infinitamente buio, senza più il peso del mio corpo sopra le spalle.
Si sentono delle esplosioni, molto lontane, nel cielo nero.
Anche le esplosioni adesso devono essere nere, perché tutto il cielo è nero, sarà.
Provo a muovere qualche passo verso la voragine di piazzale Libia.
Attraverso il varco di via Sigieri, costeggio un angolo di casa dalla facciata rimasta in piedi, con le grandi cassette della posta ancora attaccate al muro, nere, bruciate.
Dietro le sue finestre dagli infissi esplosi si vedono degli abiti da sposa completamente neri ancora issati su manichini carbonizzati.
Ci sono anche due motociclette bruciate, con i sedili sbudellati, i copertoni liquefatti, legate al palo dello stesso lampione con una lunga catena annerita.
Alcuni alberi stanno ancora finendo di bruciare e di scricchiolare, avvolti nella loro luce nera. Quelli al centro della piazza, a corolla, sono tutti carbonizzati.
Gli scheletri di ferro delle panchine sono volati a grande distanza, i listelli di legno scardinati e bruciati.
Attraverso la piazza, costeggiando il suo enorme cratere, continuo a camminare lungo ciò che resta di via Cadore con le sue case qua e là ancora in piedi da cui escono di tanto in tanto dei gemiti percussivi, delle grida, e le sue due file di alberi sradicati e spezzati, con il mio corpo sollevato dal peso del mio stesso corpo creato.
“La mia morte, la mia vita...” mi comincio a dire, spostandomi tra le macerie di queste strade dove sono vissuto e morto e di questo mondo, dove vivrò, morirò. “Ma allora, se sono morto, come faccio a raccontare ancora, come sto facendo, come farò? E, se invece sto nascendo, da cosa sto nascendo, da cosa nascerò? Come si può nascere senza nascere dentro il cerchio della vita e della morte create? Da cosa mi sarei separato, se non esiste niente da cui separarsi, se non esiste la separazione e la lacerazione? Perché, se non esiste la separazione, mi sono separato da chi stava raccontando quello che io stavo vivendo? Perché mi sono separato da chi stava vivendo quello che io stavo raccontando? Perché mi sembra sempre di venire ogni volta rigettato all’indietro mentre vado vertiginosamente in avanti? Perché, se non ci sono un indietro e un avanti? Perché mi sembra di dover passare ogni volta attraverso le crune di sempre nuove nascite e nuove morti e nuove tracimazioni mentre sono fuori da questo cerchio di vita e morte e di immortalità della vitamorte? E come si può nascere, se non esiste la separazione e la lacerazione? Perché, da un certo punto in poi, per raccontare devo increare, posso solo raccontare e increare? Perché, se non esiste né un prima né un dopo? Perché proprio adesso che ci stiamo avviando verso la fine si aprono di fronte a me possibilità mai viste prima in questo movimento magnetizzato e increato? Dov’è nascosto il magnete dell’increazione? E io dove sono? Chi sono? Dove sto portando questo racconto e il racconto del mondo?”
Sta venendo un fragore ovattato e lontano, come di moltitudini che stanno rovinando in avanti a valanga sulle strade inclinate.
Ma lontano, molto lontano.
Lo sento per un istante, poi più niente.
Mi fermo all’improvviso, contro il muro di una casa che pulsa per le ultime contrazioni sismiche, per le onde percussive dei suoi ultimi respiri vivi e respiri morti.
Riprendo a camminare, fino all’incrocio arato dalle bombe, dal sisma.
Sono in largo Marinai d’Italia.
Non c’è più quella palazzina bianca che c’era in mezzo, non c’è più niente.
Arrivo in corso XXII Marzo.
Lo imbocco.
Cumuli di travi spezzate, schegge di serramenti che ancora ardono, macerie. Ma ci sono anche molte case e palazzi ancora in piedi. Nei varchi delle finestre donne e uomini che sventolano con esaltazione bandiere e vessilli in questa luce nera che ci sarà.
La terra sotto di me ha ripreso a tremare forte.
Quel terribile fragore ovattato sta crescendo alle mie spalle.
Ma non è un fragore, è come una valanga di fragori muti che non riescono a diventare suoni, oppure talmente forti che non si riescono a percepire.
Mi arresto ancora, contro un muro.
La valanga si sta avvicinando.
Giro la testa.
Un fronte brulicante di cani sta venendo avanti correndo all’impazzata e abbaiando con furia, anche se dai loro corpi non escono suoni.
Si scorge solo la selva delle loro bocche digrignate e delle loro rosse lingue bagnate al termine dei loro lunghi colli lanciati.
“Che cani saranno?”
Si sente il vertiginoso ticchettare di migliaia e migliaia di unghie e di zampe che battono il fondo della strada divelto in questa luce nera che sta ardendo il mondo.
La muraglia dei cani è sempre più vicina, più travolgente, più grande, si è allargata a ventaglio, sta facendo tremare tutto il varco del corso e del mondo.
Devo mettermi a correre, per non venire colpito da qualcuno di quei musi lanciati e pieni di denti e non venire travolto.
Adesso sto correndo anch’io in mezzo a loro, che non mi sbranano, non possono sbranarmi.
Scorgo appena il fiume delle loro teste puntate e dei loro lunghi denti insanguinati e bagnati che stanno rovinando intorno a me, la sagoma nera di qualche cane fermo ai bordi della corrente muta, che sta morsicando e che sta dilaniando e che sta trascinando un corpo di tracimato lungo un marciapiede esploso.
«Che cosa state facendo?» sento che la mia voce sta gridando, in mezzo a questo fiume nero di cani che sta dragando il corso e sta travolgendo il mondo.
«Stiamo morsicando i corpi dei tracimati per estendere il contagio dell’immortalità!» mi gridano in risposta i loro versi e le loro voci che non si sentono.
«Ma perché i vostri versi e le vostre voci non si sentono?»
«Non si sentono perché siamo i cani degli immortali e perché siamo immortali!» si accavallano gli uni agli altri per rispondermi senza interrompere la loro corsa sfrenata. «Noi abbaiamo, noi gridiamo, cantiamo, perché siamo infuriati e perché siamo ebbri di immortalità, ma i nostri versi non si sentono, non si possono sentire perché se no non saremmo immortali e non staremmo abbaiando nell’immortalità!»
«E allora perché a me adesso sembra di sentirti?»
«Perché sei immortale, sarai!»
«No, io non sono immortale, non lo sarò!» grido ancora verso di loro.
Non mi rispondono, non mi possono rispondere, non mi risponderanno.
Continuano a correre, a correre, e anch’io continuo a correre, a correre, a correre, in questa valanga muscolare immortale, in questa luce nera che sta divorando il mondo.
Dappertutto urla di tracimati sorpresi sui marciapiedi o nelle piccole vie che danno su ciò che resta del corso o snidati dentro le case, azzannati, sbranati, suoni di bandiere e vessilli lacerati dai denti dei cani inferociti, immortali.
Si sente un grandinare spaventoso di unghie in corsa lungo le scale dei palazzi, sui pavimenti delle case invase da queste orde di corpi orizzontali e di teste dentate che penetrano attraverso il movimento trainante della masticazione nel cratere dei corpi tracimati.
«Legati alla catena, torturati, sferzati, pestati, con i calci, i pugni, i bastoni, massacrati, imprigionati con delle cinghie ai vostri corpi umani vivi dentro la morte...» sta gridando un enorme cane nero lucido di sudore e di schiuma che corre all’impazzata vicino a me. «E adesso che cosa succederà, che siamo stati colpiti dal contagio dell’immortalità? Dove è andato a finire tutto il dolore accumulato dai cani e da tutti gli altri animali da quando gli umani hanno fatto irruzione nella vita dentro la morte? È andato a finire nell’immortalità? Ma allora che cos’è per noi l’immortalità? È l’immortalità del nostro dolore che vi sta aspettando nell’immortalità? È l’immortalità del vostro dolore che ci sta aspettando nell’immortalità? È questo il luogo dove tutto il nostro dolore vi aspetterà? Dove anche tutto il vostro dolore immortale ci aspetterà e si aspetterà?»
«Io non vi aspetterò, io non mi aspetterò!» grido anch’io, con il corpo tutto sbilanciato in avanti e sempre sul punto di cadere per la velocità della corsa. «Io non aspetterò il mio dolore dentro l’immortalità!»
Grida di corpi trascinati, sbudellati, immortalati, smembrati.
Scorgo, ai bordi di questa valanga di muscoli lanciati, di occhi iniettati di sangue e di bocche digrignanti e di lingue, mentre siamo già di fronte a piazza 5 Giornate, con al centro il suo obelisco abbattuto, la sagoma di due cani, un cane e una cagna, uno sopra l’altra, uno dentro l’altra, che stanno nello stesso tempo contagiando a morsi il corpo urlante di un tracimato che si dibatte sul marciapiede. Lo mordono forte, sul collo, sul volto, con i loro lunghi denti bagnati, e intanto il cane che sta sopra sta montando da dietro una cagna più bassa, flettendo le zampe posteriori per arrivare all’altezza della sua vagina esposta sotto il troncone della coda rialzata, e intanto anche la cagna montata continua a mordere e a dilaniare il corpo del tracimato, mentre l’altro cane sta scagliando i suoi gameti immortali nello scrigno del suo corpo immortale.
C’è un muro luccicante di corpi e di teste, dall’altra parte della piazza.
Hanno tutti le bocche spalancate. Gridano, cantano, ma non si sente niente.
Sventolano dei vessilli, in questa luce nera.
“Sono gli immortali!” mi dico. “Stanno aspettando all’imbocco di corso di Porta Vittoria i loro cani lanciati nelle viscere della città bombardata, che hanno rastrellato le strade seminando il contagio dell’immortalità!”
Provo a gettarmi di lato, in questo fiume di muscolature e di teste che mi serra da ogni parte e che mi trascina.
Mi scaraventano a terra.
Mi rialzo.
Continuo a correre, per uscire da questo fiume che sta travolgendo ogni cosa.
Cado ancora, sento sulla testa e sul volto gli spuntoni delle loro unghie e delle loro zampe che mi stanno passando sopra.
Mi rialzo di nuovo, continuo a correre tutto piegato in due, aiutandomi con le mani.
Sono vicino ai bordi della valanga, sento ancora qualche dura testa lanciata che mi colpisce i fianchi, la schiena, mi sposta, mentre il resto dell’orda furiosa e muta dei cani sta già attraversando la piazza per ricongiungersi agli immortali umani che li stanno aspettando alle soglie del penultimo anello del centro.
Colpisco un ultimo cane, che sta correndo un po’ staccato dagli altri, con il muso girato verso di me, insanguinato.
Lo faccio volare di lato, continuando a correre.
Adesso sono fuori.
Sono uscito dal fiume genetico dell’immortalità. Sono in piedi, incollato al muro di una casa. Sento il vento spostato dall’orda muta dei cani che stanno continuando a irrompere nella piazza.
Mi stacco dal muro, riprendo a camminare, a increare.
“Corso di Porta Vittoria è in mano agli immortali. Proverò a spostarmi lungo viale Monte Nero, e poi lungo viale Premuda, oppure, se anche questa via è bloccata, proverò a prendere viale Regina Margherita, viale Bianca Maria, con quei palazzi tutti ricoperti di rampicanti, cercherò di arrivare fino a Porta Venezia, e poi ai giardini di Porta Venezia, lungo i bastioni, se sono ancora invasi dai bivacchi dei tracimati...”
Scorgo un pullulare di miriadi e miriadi di minuscoli bagliori, nell’aria nera.
Si sentono degli stridori, percepisco tutt’intorno alla mia testa che sta fendendo questi spazi abbagliati e neri un fragore come di minuscole grida miniaturizzate sentite da infinitamente lontano.
“Sono i gameti che stanno bruciando e gridando!” capisco all’improvviso, continuando a spostarmi in questa disperata poltiglia seminale in fiamme.
Stridono, nella combustione del cielo.
«Perché piangete?» provo a domandare con la testa dentro questo bombardamento di luce.
«Perché stiamo bruciando!» mi rispondono con le loro vocine indistinguibili dal silenzio e dal fuoco. «Perché tutta l’atmosfera di questa città in fiamme pullula di gameti iniettati da queste nuove armi dei tracimati e degli immortali, che vengono divorati dal fuoco prima di riuscire a incontrarsi con altri gameti in fiamme!»
«Noi ci siamo già incontrati!» provo a dire ancora, a gridare, in questa matassa seminale attraversata dal fuoco. «Ci siamo già parlati, in quella casa buia tutta piena di percosse e di grida dove sono nato, nascerò, se non sono nato adesso separandomi dalla mia morte, se non sono morto adesso separandomi dalla mia vita, se non sto increando adesso la mia nascita e la mia morte, mentre da fuori veniva quel rumore martellante di spari dei vivi prima e dei vivi dopo e voi rotolavate come biglie su quei pavimenti neri che si inclinavano da una parte e dall’altra per le oscillazioni provocate dal sisma di vita e morte e dalle esplosioni.»
Non si sente più niente, tanto stridono forte nella fornace seminale di questo cielo divorato dal vento della combustione.
Stridono, piangono, esultano.
«Perché tutto questo?» grido ancora, con la testa in queste scariche seminali che stanno crepitando nell’increato in fiamme. «Perché bisogna increare tutto per poter continuare a raccontare tutto? Perché la vita è un ripensamento, come dicono gli scienziati vivi dentro la morte e l’immortalità della vita e della morte? Perché la vita fa parte di un’ipotesi precedente a cui si è sovrapposto un altro ripensamento? Ma allora, se la vita è un ripensamento, l’immortalità è l’immortalità di questo ripensamento.»
«Noi siamo bruciati prima! Noi siamo bruciati dopo!» sento le scariche delle loro vocine esultare sempre di più, accavallate in questo cielo irrespirato e bruciato. «Noi siamo il tessuto di fuoco dell’increazione. Noi siamo i gameti dell’increazione. Stanno ardendo elettricamente e si stanno magnetizzando dentro di noi le ipotesi anticipate del tempo umano e della sua orbita nella nascita e nella morte e nell’immortalità della nascita e della morte.»
«Che ci siano due mondi?» provo improvvisamente a dire, con la testa tutta fasciata da questa matassa palpitante e increata. «E che mentre là si increa qui si crea, e che mentre là si crea qui si increa?»
«Non ci sono due mondi, non ci sono i mondi, non ci sono i gameti dei mondi, non ci saranno!» sento le scariche delle loro vocine pullulare e gridare.
«E allora, se non ci sono più lo spazio e il tempo per il giro a vuoto della creazione e della distruzione e per l’immortalità della creazione e della distruzione, che cosa c’è, che cosa resta?
«L’increazione!»
«Ma dov’è questa increazione?»
«Tu ci sei dentro, ci sarai!»
«Ma come farò a esserci dentro dopo, se l’increazione è prima, sarà?»
«Perché ci sei dentro prima! Perché ci sei dentro adesso!»
Continuo a camminare e a increare, in mezzo a questo mondo seminale increato.
«Ma allora tutta la vita umana, ciò che viene percepito come la sua storia, i suoi passaggi, le ere...» provo ancora a dire, girando qua e là la testa in questa guaina seminale crepitante di luce. «Io non lo so adesso dove sono, io non lo so da cosa mi sono separato...»
«Non ti sei separato da nulla, non ti separerai!» stridono, esultano, gridano, in questo tessuto di luce che palpita elettricamente attorno alla mia testa e al mio volto e al mio corpo che si stanno spostando verso l’increato.
Sollevo le mani, le braccia.
«Ma allora c’eravate già, ci sarete! Ma allora era questo che stava già succedendo fin dal tempo dei Canti, succederà, quando quell’uomo che camminava per la città non ancora sconvolta da questa prima e ultima guerra incendiava con il suo accendino quelle spore vegetali vaganti nell’aria nelle notti di primavera, e le spore in fiamme si connettevano le une alle altre scatenando le metastasi della luce, si espandeva quel tessuto seminale di luce che faceva palpitare la città e il mondo radiografati dalla sua luce, e quella bambina si affacciava alla piccola finestra della casa dove viveva imprigionata e violata, e vedeva di fronte a sé nella notte buia, oltre lo strapiombo nero della sua finestra e della sua vita e del mondo, tutta quell’aureola amniotica della luce che si stava inventando la luce... Ma allora non si stava affacciando solo a quella finestra, si stava affacciando all’increato! Ma allora quelle non erano spore vegetali, erano i gameti dell’increazione che stavano già ardendo e increando il mondo!»
Adesso non stridono più, non piangono più, non strideranno, non piangeranno.
«Siamo noi! Siamo noi!» stanno gridando da tutte le parti, con esultanza. «Siamo noi che stavamo già bruciando e increando, era già questa matassa palpitante di luce dell’increato in cui ti stai spostando e increando, sarà!»
Ci vado dentro senza vedere, sposto con il mio corpo o con il residuo o con il ripensamento del mio corpo tutta questa massa magnetica crepitante in cui si sta forgiando la luce dell’increato.
“Che sia questo il primo accecante apparire del magnete dell’increazione indovinato da infinitamente lontano nelle sue estreme avvisaglie percepite come luce che si sta inventando la luce?” mi dico continuando ad andare dentro questo bagliore increato. “E allora cosa mi sta succedendo adesso, cosa mi succederà? Io non lo so che cosa mi succedeva allora, quando ero dentro la vita che era dentro la morte, sarò, io non lo so che cos’erano quei batteri della visione che invadevano all’improvviso i miei occhi mentre mi spostavo in questa città e in questo mondo non ancora increati, mi sposterò. Che fossero già questi i batteri della visione? Che fossero già i gameti dei batteri increati della visione? Quando camminavo attraverso le città dei vivi dentro la morte e tutto diventava improvvisamente nero, diventerà, e mi sembrava che intorno a me fossero tutti morti e fosse tutto morto, balzava all’improvviso con spaventosa evidenza nelle gelatine increate della mia mente che gli uomini erano tutti morti dentro la morte, tutte quelle teste che scorrevano come un fiume seminale morto intorno a me, che il mondo non c’era più, non c’era mai stato, non ci sarà, che la specie umana non c’era più, che era morta dentro la vita che è dentro la morte e dentro l’immortalità della vita e della morte create prima e create dopo, che era tutto dentro una dimensione oltrepassata e mai più ripensata, come un file cancellato in qualche hard disk che non c’era mai stato, non ci sarà. E allora, non so perché, mi dicevo: ‘Ecco, io sono qui! Vieni! Vieni!’. Anche se non lo so a chi lo dicevo, perché era dentro di me quel venire, perché ero io quel venire, sarò...”
Un improvviso boato.
Spalanco gli occhi, perché si vede che li avevo chiusi.
Sta crollando un palazzo, davanti a me, si sta accasciando contro il palazzo di fianco prima di crollare del tutto sollevando una nuvola di polvere e fuoco.
La strada è bloccata.
L’attraverso, scavalcando i binari del tram sollevati e divelti dall’esplosione.
Corro ancora per un po’, con la testa e il volto nella carezza seminale del fuoco.
Imbocco una piccola strada a sinistra, mi lancio lungo l’ultimo tratto di via Bianca Maria, con i suoi palazzi ricoperti di rampicanti in fiamme.
È tutto buio, perché la luce è nera, perché il fuoco è nero.
Continuo a correre.
Arrivano alle mie orecchie gli echi di grida lontane, di ordini scanditi con impressionante lentezza in qualche parte di questa città che crolla, un fragore di scarponi e di zampe in corsa, di cingoli lanciati e di carri che stanno facendo tremare questa strada invasa da tegole e infissi e muraglie orizzontali di rampicanti carbonizzati.
C’è un lontano bagliore, là in fondo, mi pare.
È come se qualcosa o qualcuno stesse correndo e ardendo.
Continuo a correre, a correre.
Il bagliore si sta avvicinando sempre di più.
“Che cosa sarà quel bagliore?” mi dico continuando a correre sbilanciato, con mani e braccia allargate per non perdere l’equilibrio. “Che cosa starà dando origine a quella luce che non sta ferma, si sposta come se anche lei stesse correndo all’impazzata davanti a me in questo mondo nero, rischiara come una torcia questa infinita luce buia che ci circonda?”
La vedo sempre più da vicino.
Sì, è proprio qualcuno che sta correndo in mezzo alla strada e che sta bruciando.
Sono quasi dietro di lui.
Sto già correndo nella sua scia di combustione e di luce.
I suoi contorni si sfrangiano, lanciano tutt’intorno getti tormentati di fuoco, nella velocità della corsa.
Lo raggiungo.
Gli sto già correndo a fianco, un po’ staccato per non venire investito dalle lingue di fuoco che si stanno allungando verso di me in cerca di sempre nuovo alimento.
Lo guardo, continuando a correre, con la testa girata, con gli occhi sbarrati verso la sua luce, nel buio.