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La torcia

«E tu chi sei?» grido verso il punto dove mi sembra di scorgere una testa che continua ad ardere nella sua fornace di fuoco.

«Sono Jan Palach» mi risponde una voce indistinguibile dal fragore del fuoco.

Lo guardo, lo guardo, continuando a correre all’impazzata, con la testa girata, mani e braccia sollevate per cercare di ripararmi dagli oggetti che scendono nell’aria trasfigurati dal fuoco, dalle schegge delle case scagliate tutt’intorno dalle esplosioni.

«Iscritto alla facoltà di filosofia dell’Università Carlo di Praga» la voce sta continuando a gridare e a bruciare, «immolato il 19 gennaio 1969 in piazza San Venceslao, ai piedi della scalinata del Museo nazionale. Membro di un gruppo di volontari che hanno deciso di immolarsi per scuotere la coscienza del popolo dei tracimati all’arrivo dei carri armati degli immortali. Abbiamo estratto a sorte chi doveva essere il primo. Io ho avuto l’onore di scegliere il numero uno, di accendere la prima torcia nel buio. Mi sono cosparso il corpo di benzina e mi sono appiccato il fuoco con un accendino.»

«Sì, sì!» grido verso la sua testa e il suo fuoco. «Io mi ricordo quella torcia che si era accesa improvvisamente nel buio, quando mi percepivo in preda alla giovinezza. E poi gli altri ragazzi che dopo di te hanno acceso le loro torce nel buio, il tuo amico Jan Zajíc, tutti gli altri immolati. Un’agonia di tre giorni. Hai continuato a bruciare per tre giorni e tre notti prima di spegnerti e di tracimare. E poi il tuo funerale! 600.000 donne e uomini con le lacrime agli occhi, in quella giornata fredda, nella città espugnata dagli immortali... Tu sei il più grande filosofo del Novecento!»

La torcia non mi risponde, non mi risponderà, continua a correre, nel fragore del fuoco alimentato sempre più dalla velocità della corsa.

Non so se piange, se i suoi occhi possono piangere dentro quella fornace, se le lacrime possono fare in tempo a formarsi per una frazione d’istante sgorgando dai suoi occhi in fiamme, però mi pare di sentire improvvisamente un piccolo disperato fragore come di qualcosa che frigge e vaporizza all’istante per il calore dell’inestinguibile fuoco che continua a bruciarlo.

Ci stiamo avvicinando sempre di più a Porta Venezia, scorgo già da dove sono il suo slargo arato dalle bombe e dal fuoco, le sue due grandi porte che ardono, mentre continuo a correre così forte che inciampo sul fondo sconnesso, devo avanzare a capofitto e sempre tutto sbilanciato in avanti vicino a questa torcia da cui partono fragori di combustione e sibili e getti di fuoco.

“Che cosa sta succedendo lungo i Bastioni...” mi dico sollevando la testa mentre continuo a correre sbilanciato. “Che cos’è quel bagliore?”

Un enorme fragore sta venendo da quella parte.

“Io arrivavo là camminando attraverso la città, e non la vedevo...” mi continuo a dire “quando mi percepivo dentro la vita che è dentro la morte, quando ero così disperato di essere dentro la vita e la morte, e salivo e scendevo sulle scale mobili dei grandi magazzini in mezzo a quei fiumi di teste morte che non si riflettevano dentro le pareti a specchio abbagliate. Entravo nei giardini di Porta Venezia, andavo a sedermi lungo un fiumiciattolo, su un tronco tagliato e freddo, mentre di fronte a me delle anitre scivolavano silenziose e mute sul filo dell’acqua, e c’erano anche dei topi che andavano a divorare le loro uova su una piccola lingua di terra, li scorgevo per un istante mentre mi fissavano con i loro occhi scintillanti e rotondi, fuggendo con i baffi induriti sporchi di tuorlo...”

Sollevo la testa, guardo sbalordito, con i miei occhi in preda ai batteri della visione e dell’increazione, questa parte della città completamente invasa da una sterminata distesa di fuochi.

«Che cosa sono quei fuochi?»

Tutto il largo di Porta Venezia sta ardendo. I Bastioni, il ventre dei giardini, l’imbocco di corso Buenos Aires e quello di corso Venezia sono un unico anfiteatro di fuoco.

«Che cosa sta succedendo?» grido ancora, girando la testa verso la torcia che sta rallentando sempre più la sua corsa. «Che cosa fanno qui tutti questi fuochi?»

«Ci stanno aspettando! Si sono accesi anche loro come torce nella città invasa dagli immortali!»

Mi guardo attorno, perché adesso siamo fermi, nell’anello di corpi in increazione e in fiamme che si espande a perdita d’occhio nella città investita da questa prima e ultima guerra.

Non si riesce più a muovere un passo, tanta è la ressa di torce accese in questo infinito buio che ci circonda.

“Come quando partivano da qui i cortei dei vivi dentro la morte...” mi dico guardandomi attorno in questa fornace di corpi in fiamme. “Da qui, proprio da qui, proprio da questo punto, ed era tale la ressa dei corpi che si ammassavano prima della partenza del corteo che non si riusciva a muovere un passo, c’erano dappertutto quelle bandiere muscolari e quei vessilli in fiamme e quei tamburi che facevano vibrare e tracimare lo spazio e quelle voci e quei peana e quei canti che uscivano da tutti quei corpi vivi dentro la morte. E io scorgevo tutte quelle teste e quelle bocche che si aprivano alla sommità delle voragini buie e fradice dei loro corpi e non sapevo dov’ero, chi ero, non lo saprò, era come se fossi sempre da un’altra parte... Ma allora dov’ero, dove sarò?”

Si sta aprendo un corridoio di fiamme, per farci passare.

Stiamo camminando, prima piano, poi sempre più forte, più forte, stiamo riprendendo a correre verso l’imbocco di corso Venezia, e intanto anche tutto il mare di torce sta cominciando a spostarsi alle nostre spalle, a camminare, prima piano, poi sempre più forte, e poi a correre, a correre, lo capisco da tutto questo enorme crepitare e scricchiolare di vita e morte che sta ingigantendo dietro di noi, dal fragore che fa un così enorme fronte di fiamme che ardono svellendosi dai corpi e congiungendosi alle altre fiamme in corsa in questa notte bombardata e increata.

«Ma voi chi siete?» provo a domandare, a gridare, senza girarmi, perché si vede che questa fornace continuamente alimentata da nuovi fuochi è come un unico conduttore di voci e di suoni.

«Noi siamo gli uomini, le donne, i bambini bruciati dal fuoco nucleare di Čhernobyl’...»

«Oh, sì, mi ricordo, mi ricorderò!» grido a mia volta, correndo vicino a Jan Palach alla testa di questo mare di torce in fiamme e di voci. «L’esplosione in un reattore della centrale termonucleare Lenin in una remota località dell’Ucraina mai sentita nominare prima, il nocciolo nucleare uscito dai suoi argini, uomini, donne, bambini divorati da questo nuovo fuoco immortale, esposti a iodio radioattivo, mangiati fibra dopo fibra, dal di dentro, da prima, tutta la zona contaminata fatta evacuare, l’immensa nuvola genetica radioattiva che si spostava attraverso il mondo trasportata dai venti, passata anche sopra Milano, e io in quei giorni non me ne stavo serrato in casa con le finestre chiuse, come raccomandavano radio e giornali, non sigillavo le fessure con nastro adesivo, non lavavo e rilavavo le verdure comperate ai supermercati dai banconi presi d’assalto e svuotati, continuavo a camminare di notte per strada in preda ai batteri della visione, e intanto sentivo che qualcosa di impalpabile, di impercettibile mi stava accarezzando e bruciando le mucose della bocca, della gola, degli occhi. E anche allora non sapevo dov’ero, dove sarò, che cosa mi stava bruciando, mi brucerà...»

«Noi siamo i ragazzi massacrati in piazza Tienanmen dai carri armati degli immortali sotto gli occhi dell’idolo obeso che credeva di portare la rivoluzione nella vita che è dentro la morte che viene dopo e invece l’ha portata dentro quella che è dentro la morte che viene prima...» mi rispondono molte voci indistinguibili dal fragore e dal fuoco.

«Noi siamo quelli abbattuti mentre volavano sopra l’isola di Ustica, colpiti da missili lanciati dagli aerei da caccia degli immortali intenti ai loro giochi di guerra nella vita che è dentro la morte che viene prima, verrà...»

«Noi siamo quelli massacrati da una bomba nella sala d’aspetto della stazione di Bologna...»

«Noi siamo quelli divorati da armi genetiche e fuoco nelle guerre per il petrolio di Iraq, Kuwait, nelle pulizie etniche dell’ex Jugoslavia, della Cecenia, noi siamo i ragazzi massacrati a Genova dalla furia sanguinaria degli immortali.»

«Noi siamo quelli divorati a brani dal cannibale immortale di Milwaukee...»

«Noi siamo i giudici Falcone e Borsellino, assassinati con cinque quintali di tritolo dalla mafia degli uomini vivi dentro la morte che viene prima ma che credono di essere la mafia degli uomini vivi dentro la morte che viene dopo e dentro l’immortalità della vita e della morte che vengono dopo, verranno...»

«Io sono Cecilia Sophia Anna Maria Kalogeropoulos!» sta gridando una voce più alta delle altre. «Meglio conosciuta come Maria Callas. Che ha bruciato come una torcia in tutti i più grandi teatri del mondo, donna sola e in fiamme, di cui gli uomini vivi dentro la morte credevano di ascoltare la voce e invece stavano ascoltando il fuoco...»

«Oh, sì, sì!» mi metto a gridare anch’io, per farmi sentire in mezzo a questo fragore di fuoco e di voci. «Anch’io l’ho ascoltata la tua voce, la tua voce e il tuo fuoco, l’ascolterò, mentre scaturiva magicamente dai primi pesanti dischi di gommalacca a 78 giri che c’erano prima ancora di quelli di vinile e che giravano sul piatto di un giradischi nella grande casa buia dove allora vivevo dentro la morte, vivrò, nella mia stanza buia, da solo, in preda alla giovinezza, e c’era quella disperata voce sdoppiata da bambina violentata e sgozzata piena di strappi forsennati e di abbandoni e di tremenda dolcezza e di improvvisi suoni gutturali terribili scaturiti chissà da dove, da qualche punto infinitamente profondo del tuo corpo avvolto dal fuoco che mi facevano tremare e piangere, mentre dal resto buio e lontano della casa continuavano a venire quegli urli spaventosi e quei rumori di percosse e di corpi gettati a terra e massacrati con le mani, coi piedi, che facevano tremare la casa e il mondo. E la tua voce continuava inarrestabilmente a cantare in mezzo a tutto quell’orrore della vita e della morte del mondo, a cantare e a bruciare, e io piangevo, piangerò. Io non ho mai sentito una voce così ispirata, io non ho mai amato così tanto una voce, io non mi sono mai fatto sbudellare così da una voce...»

«Noi siamo quelli che si sono lanciati in fiamme dalle torri gemelle di New York che crollavano» cominciano irresistibilmente a gridare dietro di me molte altre voci, «attraversate da parte a parte da due aerei che ci sono entrati dentro come nel burro, che si sono gettati in quel cielo seminale in fiamme che fasciava i nostri corpi che venivano giù dai piani più alti dei grattacieli come stelle cadenti, in mezzo a quella matassa palpitante e increata di microscopici gameti che ardevano stridendo contro i nostri volti dagli occhi chiusi, quelli che a voi sembrava fossero i pixel delle riprese digitali improvvisate che scorrevano senza soluzione di continuità di fronte ai vostri occhi sui video di tutto il mondo ma che invece erano i gameti che stavano già ardendo nella massa magnetica crepitante dell’increato...»

Continuano a passare sopra di noi degli aerei radenti, dei droni.

Però non aprono il fuoco, non sganciano bombe, perché cosa potrebbero bombardare e incendiare se il mondo sotto di loro è già tutto in fiamme?

«Noi siamo le due novizie!» stanno gridando improvvisamente due voci sottili e alte, due vocine, in questa massa ignea che incendia anche i suoni e le voci.

Mi giro a guardare, continuando a correre, perché le due voci sono vicine, molto vicine, stanno scaturendo da due torce che corrono quasi alle mie spalle, mi pare.

«Siete quelle due novizie che sono fuggite insieme a me e a tutti gli altri quando il seminario è stato espugnato dai vivi prima, dai vivi che credevano di essere prima ma che invece erano dopo?» provo a gridare anch’io, continuando a correre alla testa di questa valanga di corpi in fiamme e di fuoco. «Quelle due che piangevano durante la messa dei vivi e quella dei tracimati, mentre nella chiesina oscurata si levavano le incontrollabili voci del Gatto e di quell’uomo con gli occhiali che mi guardava come se stesse guardando se stesso, e poi del giovane profeta Michea, dell’angelo, del Dio dei tracimati, di Jurij Gagarin... e io sentivo alle mie spalle, mentre stavo con la mia veste rossa squillante e con la mia cotta ai piedi dell’altare, le vostre voci che piangevano e si disperavano, vedevo sbalzare nel buio, quando dovevo girarmi per tentare di compiere i miei gesti in quella liturgia esplosa, i vostri due giovani volti infantili fradici di lacrime che luccicavano sotto il velo...»

«Sì, sì, siamo noi, lo saremo!» mi stanno gridando le loro voci, le loro vocine di bambine in fiamme.

«Ma perché siete anche voi delle torce?» provo a chiedere ancora, correndo davanti a questo mare di fuoco e gridando.

«Perché ci siamo incendiate! Perché anche noi ci siamo cosparse l’un l’altra di benzina e ci siamo accese!»

«Ma perché?» grido ancora.

«Perché siamo state stuprate a sangue dagli immortali! Ci siamo bruciate per bruciare dentro di noi anche il seme che avevano scagliato a forza nei nostri corpi con le loro bandiere muscolari, con i suoi gameti immortali che stavano già cercando i nostri ovuli per renderli immortali e per generare dei nuovi immortali! Ce ne sono tante come noi, in questo mare di fuoco che corre a valanga verso il primo anello di questa città contesa palmo a palmo agli eserciti degli immortali, che si sono bruciate dopo essere state stuprate dalle loro schiere esaltate dall’immortalità, sorprese nelle loro case durante i rastrellamenti, nei loro letti caldi, mentre erano nascoste dietro i portoni dei palazzi dalle sole facciate ancora in piedi, trascinate lungo le vie piene di crateri, buttate sui cumuli di macerie ancora fumanti e violate dai loro rostri immortali in cerca dell’apertura dei nostri corpi, mentre ci tenevano ferme gambe e braccia, ci morsicavano le labbra e il volto con le loro dentature immortali, e intanto le loro armi genetiche laceravano le nostre vite e le nostre morti, sentivamo irrompere nelle nostre pance i loro liquidi seminali immortali roventi che sembravano scagliati dentro di noi da un idrante...»

Il fragore del fuoco è assordante. Sempre nuove torce stanno correndo dietro di noi e intorno a noi, escono in fiamme dai palazzi, dai cancelli abbattuti del Planetario, dalle strade, dagli archi, si uniscono a questo fiume di fuoco che mi sta trascinando non so verso dove.

«Dove mi state portando?» provo a domandare e a gridare in questo oceano di fuoco.

Non mi rispondono.

Ardono, ardono, arderanno.

«Noi siamo quelli che sfondavano gli altri corpi nelle regge tumorali di luce» stanno gridando incontrollabilmente altre voci in fiamme. «Noi siamo quelli che irrompevano con le loro bandiere muscolari in fiamme nelle matrici della vita e della morte del mondo. Noi siamo quelli che si gettavano con i loro corpi rostrati dentro il tuorlo di altri corpi incendiati, noi siamo quelli che sventolavano i loro vessilli termici nel fulgore segreto degli altri corpi, noi siamo quelli che scagliavano nelle crune delle altre vite e del mondo la loro filigrana di gameti crepitanti di luce, lungo i canali uterini dove stavano già correndo altri gameti e altri pixel e lunghi corpi di serpi magnetizzate e in fiamme, dove correranno. Noi abbiamo incendiato le torce dei nostri corpi per correre insieme a te verso l’increato, noi stiamo illuminando e increando la tua strada dentro questa città bombardata, oltrepassata e increata...»

«Noi siamo quelle che spalancavano le loro matrici nell’increato» si levano ancora più forte altre voci, di donne in fiamme. «Noi siamo uscite dalle zone sotterranee e segrete del caos della vita e della morte del mondo, dove venivamo incernierate, bombardate, iniettate, attraversate da parte a parte da quelle sbarre di luce che fracassavano a calci dentro i nostri corpi facendo balenare i loro involucri trasparenti come quelle stelle che esplodono nella fornace della vita e della morte e dell’immortalità della vita e della morte del cosmo, mentre arcuavamo tutte insieme i nostri lunghi colli semistrangolati dalle mani di chi ci stava coprendo e montando e ce li stringeva forte per fare presa e spingersi ancora più profondamente nelle nostre crune, dentro il mare crepitante di pixel della nostra segreta luce increata, e giravamo tutte insieme le teste verso l’alto quando la Musa batteva il tacco su quel piccolo lucernario a borchie che noi vedevamo dal basso come la bocca lontana di un pozzo. Siamo uscite dalle viscere di questa città e di questo mondo in preda alla tracimazione universale di vita e morte e alla loro prima e ultima guerra. Noi abbiamo fatto balenare le nostre luci increate nelle zone più profonde e più nere della vita e della morte del mondo, fin dall’inizio, da prima, da prima ancora, da dopo, dentro quello che poteva sembrare solo uno scatenamento di corpi che si incernieravano per continuare a stare dentro la stessa specie nella vita e nella morte del mondo ma che era invece già allora il balenare segreto dell’increazione, sarà. Che poi non erano luci, non erano proprio luci, anche se ai vivi dentro la morte apparivano come luci, perché anche le luci sono una combustione e sono una radiazione di particelle create che tormentano e mangiano i contorni delle cose e del mondo. Noi abbiamo incendiato le nostre torce nuziali per venire ad accoglierti e per scortarti e per proiettarti con i nostri corpi in fiamme dentro questo mare di corpi in fiamme...»

Abbiamo imboccato via Palestro, mi pare.

Il fondo stradale sotto di noi sta tremando forte.

Anche i palazzi che danno sulla via sono in fiamme, appaiono dietro le loro finestre sfigurate dal fuoco i bagliori di grandi torce in fiamme.

Tutta la città brucia, tutto il mondo brucia. Sento venire da questo sterminato anello di fuoco il crepitare dei corpi e del mondo in fiamme.

«Dove stiamo andando?» mi giro a domandare alla torcia di Jan Palach che mi sta ancora correndo a fianco.

Non mi risponde.

«Dove mi state portando?» gli domando ancora, gli grido.

Non mi risponde. Brucia. Corre. Correrà.

«Dove mi state scortando?»

«Ti stiamo scortando alla reggia!» mi risponde finalmente, mi grida.

«Quale reggia?»

«Lo vedrai.»

«E cosa farò nella reggia?»

«Dovrai sostenere una prova» mi risponde continuando ad ardere e a crepitare.

Alzo la testa, verso l’anfiteatro delle immobili forme in fiamme che si stagliano dietro i varchi delle finestre divorate dal fuoco.

Si sente solo il suono della combustione e della tracimazione di questo mondo e di questo universo in fiamme.

Si vede solo venire avanti verso di noi la sagoma di Villa Reale illuminata e intatta in mezzo a tutta questa devastazione.

«Ma perché voi siete in fiamme e io invece non sono in fiamme?» mi giro a domandare verso questo mare di fuoco.