VICENZA, IL TRIONFO DELL’ARCHITETTURA

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Un viaggio tra le ville palladiane fino alla Rotonda, capolavoro di eleganza e simmetria.

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Siamo sempre nel XVI secolo, quando un’altra Repubblica marinara, situata stavolta sulle sponde dell’Adriatico, sta affrontando una fase difficile della sua storia.

All’inizio del Cinquecento alcune delle maggiori potenze europee, Sacro Romano Impero, Francia e Spagna, hanno deciso di riunirsi in una lega, la Lega di Cambrai, con il preciso scopo di limitare la potenza della Serenissima (come viene chiamata Venezia). Così si legge nel preambolo del trattato: “Si costituisce questa Lega per far cessare le perdite, le ingiurie, le rapine, i danni che i Veneziani hanno arrecato non solo alla santa sede apostolica, ma al santo romano imperio, alla casa d’Austria, ai duchi di Milano, ai re di Napoli e a molti altri principi”.

La minaccia che incombe desta preoccupazione. Si decide quindi di diversificare gli interessi della Serenissima provando a investire non solo nelle attività legate al mare ma anche nell’entroterra, dove le famiglie facoltose della zona cominciano a fare a gara per acquistare terreni su cui impiantare vigneti, riso, gelsi per il baco da seta. Ville di rappresentanza la cui funzione è fin dalle origini duplice: base di appoggio per la gestione delle attività produttive e rifugio per la villeggiatura estiva dei siori, i signori, come vengono chiamati da queste parti. Che vogliono fare sfoggio non solo di ricchezza ma anche di cultura e, a questo scopo, incaricano architetti importanti di realizzare, nel costruire le nuove abitazioni, vere e proprie opere d’arte. Ed ecco spiegata la ragione per cui nella regione veneta, che detiene assieme alla Sicilia il primato per la quantità di riconoscimenti Unesco, le ville eleganti e sontuose sembrano essere in numero superiore rispetto ad altre regioni.

I nomi degli artisti coinvolti sono tutti di primo piano ma fra essi spicca quello dell’architetto rinascimentale Andrea Palladio: uno dei più straordinari geni del Cinquecento, un grande artista che lascerà un segno profondo nella stessa concezione di dimora elegante, e verrà imitato in tutta Europa. Palladio inventa quella che da questo momento in avanti si chiamerà, per l’appunto, “villa palladiana”.

Immagine del Teatro Olimpico a Vicenza

L’archistar del Cinquecento

Sono ventiquattro le ville palladiane dichiarate Patrimonio dell’Umanità e visitarle costituisce un’esperienza unica, un viaggio emozionante che attraversa splendide campagne, supera fiumi e valica colline.

Tra queste ricordiamo Villa Angarano, con i suoi capitelli e le sue statue; Villa Chiericati, a pochi chilometri da Vicenza, che segna una tappa fondamentale nell’opera del Palladio perché, per la prima volta, al corpo della villa viene applicato un vero proprio pronao come se fosse un tempio antico.

E poi, non distante, Villa La Rotonda che è una delle tante meraviglie “vicentine” create da Andrea Palladio. È grazie alle sue opere se tutta la città di Vicenza è un sito Unesco, uno dei siti con il maggior numero di monumenti protetti: molti portano la sua firma. Il Teatro Olimpico, primo teatro stabile coperto; il Palazzo della Ragione noto come Basilica, simbolo della città e al centro della vita pubblica; diversi altri edifici pubblici e palazzi privati. E, soprattutto, le ville in città e nel suo circondario, come la Rotonda che, diversamente dalle altre dimore patrizie, non si trova al centro di una proprietà agricola ma direttamente in cima a una collinetta, nei pressi di Vicenza. Una posizione che, se per certi versi la isola, per altri la esalta, rendendola unica e affascinante.

Vedendola, osservando la sua forma, le colonne davanti all’ingresso, la cupola, le sue quattro facciate, non possono sfuggire le analogie con il Pantheon a Roma. Strano? No, in realtà non c’è nulla di strano: perché Palladio è un architetto del suo tempo, il Rinascimento, un periodo in cui tutti gli artisti guardano all’eredità greca e romana, per trarne ispirazione ma anche mettendosi in competizione con essa. L’architetto non fa nulla per nascondere la sua aspirazione all’armonia dello stile classico, ma la Rotonda, questo unicum nell’architettura di ogni tempo con i suoi quattro enigmatici ingressi identici, ha anche un’altra particolarità, meno visibile: è stata costruita senza le fondamenta, direttamente sulla roccia viva. Per questo, le mura sono spesse e possenti e con una particolare curvatura, ed è per scaricare meglio il peso che la sua struttura è così compatta, con il cubo centrale sovrastato da una cupola. Nel suo gioco di simmetrie, vista da una certa distanza, la Rotonda sembra quasi un grande vascello poggiato sulla roccia, sugli scogli.

Di Palladio si conoscono le opere più che la vita. Si è detto spesso del suo essere architetto globale eppure, a eccezione di qualche rapida puntata a Roma, pare non sia mai uscito dal Veneto. Figlio di un mugnaio padovano, a tredici anni il giovane Andrea comincia l’apprendistato, presso Bartolomeo Cavazza, come scalpellino. Il nome d’arte Palladio lo deve al nobile vicentino Gian Giorgio Trissino, umanista, specialista di ortografia e grammatica, che così lo battezza sia per via di Pallade, la dea della conoscenza, sia perché intravede nel giovane Andrea un grande talento ed è convinto che quella parola, Palladio, evocativa e facile da ricordare, lo aiuterà a fare fortuna.

Curiosità. Titolo: Dal Pantheon alla Casa Bianca. La Rotonda è stata molto imitata e ha ispirato edifici famosissimi a noi vicini. Primo fra tutti, uno che conosciamo benissimo per averlo visto nei telegiornali e in molti film e serie televisive, un luogo da cui si decide quotidianamente parte dei destini del mondo: la Casa Bianca, a Washington, commissionata da colui che materialmente scrisse la Costituzione americana, il grande Thomas Jefferson. Pare addirittura che Jefferson volesse una copia esatta della Rotonda, sia perché la riteneva di una bellezza straordinaria, sia perché era convinto che quella architettura dalle perfette proporzioni matematiche e dagli impeccabili equilibri rappresentasse gli ideali della Repubblica di Venezia. E da una simile esperienza repubblicana gli Stati Uniti, nati da un popolo in fuga dalla monarchia, potevano trarre ispirazione.  Ma c’è anche un altro esempio di costruzione palladiana altrettanto famoso ed è in un film celeberrimo: la villa di Rossella O’Hara, in Via col vento, non vi ricorda forse qualcosa? Sono due esempi distanti ma per nulla casuali: Palladio sarà infatti molto studiato e imitato nel Settecento prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti e non può quindi destare alcuno stupore il fatto che molte grandi ville coloniali e molti edifici pubblici prendano ispirazione dai suoi lavori.

Fra moltissime opere conosciute, altrettanti sono i suoi progetti non realizzati, alcuni davvero assurdi. Come quello per il Ponte di Rialto, per il quale Palladio pensa a una struttura a cinque arcate prima di rendersi conto che il suo progetto impedirebbe il passaggio delle barche. Oppure, l’idea, anche questa accantonata, di radere al suolo parte della Venezia gotica per realizzare due grandi piazze alle sue estremità.

Di un uomo così importante anche ai suoi tempi, e così copiato nei secoli, che lavorò per molto tempo dato che morì all’età di settantadue anni, viene spontaneo chiedersi: era ricco? Ebbene no: Palladio era un architetto “di pensiero”, che vendeva le sue eccelse idee ma non la più remunerativa realizzazione. E in più aveva cinque figli: nonostante l’abilità della moglie nell’economia domestica, quello che entrava in cassa ne usciva rapidamente.

Immagine di Vicenza, veduta notturna della basilica palladiana

La magia della Rotonda

La Rotonda, in totale armonia con il paesaggio, è, come dicevamo, una villa-tempio in cima a una collina isolata, visibile da tutte le parti, nella quale ogni dettaglio, ogni particolare, rimanda al concetto di grandiosità e di simmetria: quattro facciate con quattro colonnati, con le scale che si ripetono identiche sui diversi lati.

Come nella migliore lezione palladiana, gli spazi sono disposti in modo che le stanze sfruttino al meglio l’esposizione alla luce e ai panorami circostanti, con gli spigoli della villa rivolti ciascuno a un punto cardinale, affinché la luce solare sia frontale alle facciate solo in un momento preciso.

Il risultato è un perfetto ingranaggio di luci forti o attenuate, a seconda delle diverse ore del giorno, che si riflettono direttamente sulle superfici. In questo dialogo fra l’interno e l’esterno, la luce crea continui giochi di ombre nitide o sfumate, si insinua tra le colonne, nei tagli delle finestre e delle porte e nella profondità delle logge.

Una sorta di luogo magico che solo un committente dalla fortissima personalità poteva desiderare. Quest’uomo si chiama Paolo Almerico ed è un personaggio fuori dal comune, almeno quanto il progetto che chiede venga realizzato. Ecclesiastico, di raffinata cultura, Almerico domanda a Palladio di costruirgli una dimora alle porte di Vicenza dove ritirarsi a conclusione di una carriera presso la corte papale a Roma. I lavori iniziano nel 1567 e procedono velocissimi se pensiamo che già nel 1571 Paolo Almerico prende possesso della Rotonda; d’altra parte Almerico ha fretta, per l’epoca è già anziano, va verso i sessanta. Alla sua morte, la villa passa al figlio Virginio che la venderà a Odorico Capra nel 1591. Per questo, talvolta, la Rotonda è anche detta Villa Capra.

Dopo averla osservata dall’esterno, dopo aver ammirato sulla soglia i giochi di luce, entriamo nella Rotonda. La pianta è a croce con al centro la sala maggiore, di forma rotonda, inserita dentro un cubo e coronata da una cupola: sembra un rompicapo, ma in realtà è un’esaltazione delle forme geometriche tipiche di questo genere di architetture. Sul piano concettuale, si avverte l’influenza del pensiero di Platone, la sua visione secondo la quale la geometria è armonia, unita a quella rinascimentale che considera l’armonia di forme diverse come frutto del Creato: nella visione classica, la sfera rappresenta infatti l’universo, mentre il cubo la terra su cui viviamo, in un gioco di rimandi e di collegamenti.

Se questo è il cuore della villa, in alto Palladio costruisce una balconata sulla quale si sistemavano i musici che cantavano e suonavano per gli ospiti durante feste che, dicono le malelingue, il molto egocentrico padrone di casa organizzava per emergere sugli altri, esattamente come la sua magione svettava in cima alla collina. Palladio nei suoi scritti ne racconta gli scatti d’ira e il terribile carattere. Non è un caso che la tradizione popolare abbia ambientato in questa villa storie truci e sanguinarie forse ispirate alla leggenda che Paolo Almerico, prima di prendere i voti, fosse stato accusato di omicidio e avesse trascorso due anni in prigione a Venezia.

Tornando agli interni, Palladio desidera pareti che abbiano lo stesso colore chiaro dell’esterno, per esaltare la maestosità dell’architettura. A suo modo di vedere, l’importante è la struttura e tutto il resto deve essere quasi invisibile, come le scale a chiocciola che portano al piano superiore e sulle quali si affolla la servitù.

Immagine di Villa Almerico Capra di Andrea Palladio, detta “La Rotonda”, 1567-1605, Vicenza

Palladio però muore prima di concludere la sua opera e l’architetto che gli subentra devia in un certo qual modo dal dogma palladiano e commissiona invece la realizzazione degli affreschi colorati, delle statue, degli stucchi e dei decori. In particolare sulla cupola e sul salone centrale conviene spendere qualche parola, perché sono davvero splendidi.

La cupola viene dipinta prima da Alessandro Maganza nel 1599, con quattro spicchi maggiori che rappresentano figure allegoriche piene di colore, mentre nel Settecento Louis Dorigny dipingerà le pareti dello splendido salone centrale con immagini di divinità olimpiche. Ci sono Bacco, Venere, Apollo, Diana, Marte e Mercurio: tutte le divinità del Pantheon greco, e, ancora una volta, non stupisce visto il continuo rimando ai classici.

La cupola non era chiusa, ma aperta attraverso un foro circolare, l’oculus. Quando pioveva l’acqua entrava, andando a finire all’interno di una maschera di pietra che rappresentava un satiro, posta appositamente in corrispondenza e con la precisa funzione di raccoglierla. Il foro rendeva più gradevole la temperatura e questo spazio centrale, con le quattro porte aperte, consentiva alla natura di entrare direttamente all’interno della villa.

Villa Caldogno: bella e anche utile

Rimaniamo a Vicenza e spostiamoci ora a Villa Caldogno che, pur se non citata nei Quattro libri dell’architettura che Andrea Palladio ci ha lasciato, è unanimemente considerata opera autografa dell’architetto. Se la mano è riconoscibile, Villa Caldogno differisce parecchio dalla Rotonda perché oltre a essere residenza di campagna è anche centro di produzione agricola. Qui dunque il bello si unisce, genialmente, all’utile.

Quando viene costruita la villa, a metà del Cinquecento, Caldogno è un piccolo centro rurale alle porte di Vicenza, che prende il nome dai Caldogno, una famiglia aristocratica proprietaria di quasi tutto nella zona, case e terreni. Quando Angelo Caldogno decide di stabilirsi in campagna per gestire meglio i suoi affari, commissiona la costruzione di una villa al grande Palladio: così ritengono gli storici, anche se mancano documenti a comprovarne la paternità.

Alla base della bellissima facciata, si apre una grande scala ottagonale con ai lati, come oggi in alcuni luoghi pubblici, delle piccole rampe che dovevano servire al carico e scarico delle merci. Un particolare che ci conferma la doppia funzione della villa: a entrarvi erano infatti familiari, visitatori ma anche merci e prodotti dei campi.

Citazione di Hugo Von Hofmannsthal. Ciò che incorona la collina di Vicenza non è più  un tempio, non più una casa, è più dell’uno e dell’altra. Un sogno immortale, una meta di meravigliosa forma, verso cui sembra tendersi l’anelito delle lontane montagne, l’anelito delle acque possenti, e che esso raggiunge, il cui cerchio circonda,  alle cui quattro scale si stringe, placato, redento da un simbolo.

Ci sono molte curiosità legate alla realizzazione di questa villa come il fatto che, alla luce degli alti costi dei materiali di costruzione alla metà del Cinquecento, dovuti anche alle difficoltà del trasporto, ci si ingegna e, in qualche modo, si “travestono” o “truccano” malta e mattoni di cui è costituita la struttura, in modo che sembrino pietra.

C’è poi un altro dettaglio singolare costituito, nell’atrio, dagli affreschi del pittore Giovanni Antonio Fasolo e dei suoi allievi, quasi un programma completo della vita in villa, una promessa dei piaceri della vita in campagna. Raffigurano una mensa e tutto attorno fanti e donzelle pronti a servirci e musicisti che allietano le ore trascorse a tavola. Nel soffitto a botte c’è poi un Concilio degli dei, quasi a esaltare chi ha deciso di vivere in questo luogo. Il messaggio sembra essere che vivere in campagna vuol dire coltivare anche la cultura, il piacere della cultura classica.

L’illustrazione dei piaceri della vita campestre continua nel grande salone nobile. Qui le pareti, grazie agli affreschi di Giovanni Antonio Fasolo e dei suoi allievi, sembrano squarciarsi per aprirsi in logge e terrazze oltre le quali si intravedono piccoli colli, paesaggi, rovine archeologiche, case di campagna. Infine, racchiuse dalle cornici formate da archi a tutto sesto, con la chiave di volta chiusa da mascheroni, si possono ammirare quattro scene che raffigurano i divertimenti in villa.

La Villa Caldogno è del tutto particolare anche per un altro motivo: qui l’acqua è protagonista. All’ingresso scopriamo infatti un canale e i resti di un ponte che portava dal cancello d’ingresso all’edificio, passando sopra una sorta di “ruscello”. Un ponte che aveva una doppia funzione: da una parte serviva a offrire un punto di vista in più sulla villa, dall’altra ad attenuare la calura nelle afose giornate estive.

L’acqua era importante dunque, ma ancora prima della costruzione della villa, un architetto doveva accertarsi della sua qualità, cercare di capire se era potabile oppure no. Come si faceva? Il sistema era molto primitivo ma efficace: se ne raccoglieva un campione in un pentolino di rame e la si lasciava lì per qualche giorno. Se l’acqua diventava limacciosa voleva dire che non era salubre ed era quindi meglio costruire altrove, se invece rimaneva limpida, quello era il luogo giusto.

Palladio aveva ideato un moderno impianto “idraulico” per irrigare i campi e per dotare la villa di servizi igienici (che, si dice, lui chiamava semplicemente “cessi”). Nei bagni, divisi tra quelli per gli uomini e quelli per le donne, un sistema di pendenze e di strettoie consentiva all’acqua di scorrere costantemente tenendoli il più possibile puliti.

Immagine di Alberto Angela a Villa Almerico Capra

Ma c’è una struttura di Villa Caldogno che il Palladio non avrebbe potuto immaginare, un’aggiunta che ci porta a un tempo molto successivo al suo, la Seconda guerra mondiale. È allora infatti che l’esercito tedesco requisisce la villa e costruisce un bunker in cemento armato con locali attrezzati per ospitare malati e feriti, nonché sale operatorie. Una sorta di ospedale da campo superprotetto e nascosto da quella che dall’esterno appare come una collina artificiale ricoperta dalla vegetazione. La struttura è stata di recente completamente ristrutturata e ha ospitato per qualche anno un museo di arte contemporanea; oggi, gli spazi dell’ex bunker sono destinati a mettere in mostra o illustrare progetti di arte e cultura promossi da giovani. Un ulteriore motivo per andare a dare un’occhiata a questo ennesimo sorprendente capolavoro dell’architetto padovano.

Immagine di scene di vita in villa di Giovanni Antonio Fasolo e collaboratori, 1570, Vicenza, Villa Caldogno
Box Un oggetto una storia. Titolo: Le antiche piante di Padova. La splendente Padova del XVI secolo non ci ha regalato solo capolavori architettonici. In questa città c’è un luogo in cui l’amore per la natura e la scienza ha fatto scuola in tutto il mondo. Si tratta dell’orto botanico che l’Unesco ha riconosciuto Patrimonio dell’Umanità in quanto “all’origine di tutti gli orti botanici del mondo”.  L’orto botanico di Padova viene istituito nel 1545 con un’importantissima funzione medica. Il professor Francesco Bonafede, che ricopre la cattedra di Lettura dei semplici (ossia l’uso delle piante a scopo medicamentoso) nel prestigioso ateneo veronese, sollecita l’istituzione dell’orto per una precisa ragione: nell’identificazione delle piante medicinali regna una confusione assoluta che porta a gravi rischi per la salute dei pazienti. Urge un luogo in cui gli studiosi possano classificare le erbe secondo le loro qualità e i loro benefici effetti.  Le piante medicinali coltivate nell’orto sono preziose e spesso rare, tanto da diventare oggetto di ricorrenti furti notturni. Per questo si decide di edificare la recinzione circolare visibile tutt’oggi.  Tra gli esemplari ospitati dall’orto, alcuni sono antichissimi, come la Pianta di Goethe, così chiamata perché suscitò al poeta che la stava ammirando (nel suo viaggio in Italia del 1786) l’intuizione alla base del Saggio sulla metamorfosi delle piante. Nel box è contenuta l'immagine dell'Orto botanico di Padova.
Immagine della casa di Giulietta a Verona con il celebre balcone