L’affresco del Correggio nella cattedrale di Parma cambiò le regole della pittura.
Il potere della famiglia Farnese a Parma inizia anni prima della nomina di Pier Luigi Farnese a duca di Parma (1545) e ruota intorno a una figura chiave: il padre di Pier Luigi, Alessandro, lo stesso papa Paolo III che abbiamo conosciuto per il suo munifico mecenatismo romano.
Alessandro Farnese, anima del Concilio di Trento e della Controriforma, viene nominato vescovo di Parma nel 1509 e muove qui i primi passi della sua carriera ecclesiastica. È negli anni del suo vescovado che la città conquista il più grande tra i suoi capolavori, la cupola del Correggio che adorna la sua Cattedrale.
Spettatori dell’Ascensione
I lavori per la costruzione della cattedrale di Parma cominciano, in realtà molti secoli prima, nel 1074, e si concludono circa trent’anni dopo, nel 1106, quando la Chiesa viene consacrata per intercessione di Matilde di Canossa. Come spesso accade, nello stesso luogo in cui viene costruita la cattedrale, sorgeva un tempo una prima basilica paleocristiana, o chiesa madre, del IV-V secolo, sulle macerie della quale erano state edificate almeno altre due chiese, del IX e XI secolo, tutte e due distrutte dal fuoco, durante razzie di orde straniere.
La storia della cattedrale, anche successivamente al 1106, sembra comunque essere all’insegna della contaminazione degli stili e della sovrapposizione di elementi in apparenza lontani fra loro. I capitelli delle colonne sono, per esempio, romanici e risalgono al XII secolo. Così come romanica è la pianta ma non i dipinti sulle pareti che, via via, sono stati aggiunti nel corso dei secoli.
A rendere celebre la cattedrale di Parma in tutto il mondo è, però, il grandissimo affresco della cupola, una meraviglia della pittura rinascimentale nella quale convivono armonicamente due modi diversissimi di pensare all’arte sacra.
Il capolavoro del Correggio
Sono molte le cose che sappiamo dell’affresco che Antonio Allegri detto Correggio ha realizzato per la cupola, nel quale viene rappresentata l’Assunzione in cielo di Maria. Conosciamo, per esempio, la data in cui viene firmato il contratto con la Congregazione della Fabbrica del duomo, il 3 novembre del 1522. Sappiamo anche quanto è stata pagata l’opera, mille ducati d’oro, che è una cifra ragguardevole, se la confrontiamo coi compensi dei pittori più amati di quel periodo: Leonardo a Milano guadagna duemila ducati l’anno, Michelangelo ne incassa tremila per la Cappella Sistina. Prima di cominciare, Correggio pretende un contratto molto preciso, dove vuole che sia indicato tutto nei dettagli: il numero di fogli d’oro da usare per le decorazioni, la qualità della calce. È preciso, meticoloso, forse pignolo; chiede garanzie sui ponteggi, esige una stanza dove poter disegnare: conosce il valore della sua opera. Finché, risolte le questioni pratiche, si mette finalmente al lavoro e non delude: perché quello che realizza è davvero un capolavoro.
Correggio sceglie un punto di vista a dir poco sconcertante, strabiliante, dal quale guardare l’assunzione di Maria. La vediamo da sotto, dal basso, ed è come se sopra le nostre teste si aprisse un tunnel in mezzo alle nuvole, una spirale che accompagna la Madonna verso il cielo, una sorta di movimento a vite, che ci porta su, verso l’Empireo, dove Maria si sta recando. È un modo teatrale, reso possibile da una tecnica sopraffina, di raccontare un fatto incredibile. E di aggiungere stupore allo stupore. Perché, davvero, sembra che la cupola si sfondi e si apra verso il cielo.
L’affresco è un vero racconto in movimento, un film: ci sentiamo come spettatori a cui è toccato in sorte di assistere di persona al preciso momento in cui la Madonna viene trasportata verso l’alto. Siamo lì anche noi, accanto agli Apostoli, ritratti a loro volta coi piedi a terra e il naso in su, sul volto la nostra stessa espressione strabiliata. La Madonna sembra librarsi in cielo esattamente dall’altare maggiore e mentre sale, gli angeli e i santi rivolgono lo sguardo verso di lei. È un’illusione ottica: non è un caso se Correggio viene considerato, fra le altre cose, uno dei precursori anche di un genere di pittura capace di ingannare l’occhio che diventerà molto popolare nel Barocco.
Una visita mancata e un capolavoro salvato
Dalla Cattedrale e dai suoi affreschi rinascimentali, facciamo un salto di cento anni circa, nel cuore del Seicento, e andiamo a visitare il Palazzo della Pilotta, residenza di Ranuccio I Farnese, duca di Parma e Piacenza.
È il 1618, quando il duca convoca Giovan Battista Aleotti, detto l’Argenta, un famoso architetto dell’epoca che ha già lavorato molto a Ferrara, alla corte degli Estensi. Il motivo di questa chiamata urgente è presto detto: a Ranuccio è appena giunta notizia che Cosimo II de’ Medici, nel corso del suo pellegrinaggio a Milano per recarsi sulla tomba di Carlo Borromeo, intende fare tappa a Parma. Ricordiamolo, siamo nel XVII secolo, un periodo movimentato, fatto di cambi di alleanze, di scontri violentissimi e di appassionate rappacificazioni, e Ranuccio ci tiene a fare bella figura su Cosimo II. Anzi, di più: desidera letteralmente “sbattere in faccia” la sua ricchezza al potente vicino. E chiede all’Argenta, che è anche scenografo, di progettare nella sala d’Armi un teatro splendido. Che lasci a bocca aperta e che forse si faccia un po’ invidiare.
Il destino ha però in serbo altro per i protagonisti di questa piccola storia: Argenta realizza in effetti un luogo incredibile, sul modello del Teatro Olimpico palladiano di Vicenza, dedicato a Bellona, la dea della guerra, e alle Muse. Usa l’abete rosso del Friuli, stuccato per simulare il marmo, e realizza una platea ampia abbastanza da ospitare un pubblico davvero importante, fino a tremila persone. Ma Cosimo II de’ Medici non lo vedrà mai perché, colpito da una malattia, è costretto ad annullare il suo viaggio.
Quello che nasce come opera temporanea per impressionare un potente, un vero e proprio “allestimento effimero”, come venivano definiti nel periodo delle Signorie i luoghi costruiti per ospitare eventi sfarzosi ma poi destinati a essere distrutti, cinque secoli dopo è ancora in piedi. E ci sembra quasi di poter sentire le note della musica di Claudio Monteverdi, il grande compositore vissuto tra Cinquecento e Seicento: furono le prime che risuonarono su questo palcoscenico.