1
Ispeziona l’appartamento una seconda volta. Si aggiusta gli occhiali sul naso, il ponte punge tra gli occhi.
L’arredamento è scarno ma dignitoso. La geometria del piccolo angolo cottura è rotta da una stria di acqua e di schiuma. Scivola a terra, allargandosi. Le pareti sono dipinte di un rosa saturo, fastidioso. Stampe di fiori esotici appese di fianco alla finestra. Le tende turchesi vengono mosse appena dall’aria.
Ristagna una vaga puzza di ferro e di corpi; l’odore della morte gli è familiare.
Lo sguardo si blocca. Non se n’era accorto. Strano: un essere umano secco, buttato sul divanetto, come un sacco vuoto. È lei? Lo fissa schiudendo l’occhio. La pupilla le luccica come se piangesse. Allontana una mosca con la mano, le dita come stecchi. È una cavalletta con le zampe spezzate.
Valigetta, guanti sterili. Flacone uno.
Poche ore e sarà in volo per l’Italia. E se la morte cercasse lui? Potrebbe trattarsi di una trappola. Esca, topo, molla: sua zia ne costruiva di simili. Luigino sottoterra, tienimi un posto a sedere. La civiltà, fuori da quella casa, gli sembra lontana: potrebbero tritarlo, infarinarlo, farne polpette tonde al curry e venderle al mercato. Beato il leone che sarà mangiato da un uomo, perché il leone diventerà uomo. Si immagina su una zattera, affacciato a una cascata. Lo sciabordio dell’acqua, la vertigine.
Si inginocchia accanto a lei.
Ago, stantuffo. Tiopental sodico. Molto, la farà sognare. Si volta verso la finestra. Teme di individuare una sagoma spiarlo da dietro la tenda. Non c’è nessuno. Gli arriva solo il rumore delle bancarelle. Sconosciuti accalcati sulla merce. I respiri, il parlottare sommesso, cicalano come insetti. Potrebbero entrare a frotte e seppellirlo, come le cimici lo scorso inverno.
Alcol, cotone. Le tende il braccio; uno schiocco d’ossa e poi la molle resistenza della carne. La ragazza non emette alcun suono, forse non ha neanche un odore. Il lombrico della vena risplende sottopelle.
«Your name?»
La voce di lei è uno schiaffo. Ora lo fissa, in attesa. Non lo ha riconosciuto, sarà la stanchezza, forse la mascherina.
Finalmente ritrova in Ninì qualcosa di familiare: la totale rassegnazione nello sguardo. Ha un sorriso sfinito, sulle labbra l’alone rattrappito della saliva.
«Glauco. I’m the doctor.»
Ora zitta, pensa. Spinge con il pollice. Per non guardarla in viso, fissa la valigetta. Le fauci metalliche sorridono come una tagliola.
Pancuronio. Lo sguardo gli sfugge di nuovo su di lei. Ha la testa reclinata sulla destra, le ciocche umide, nere, le coprono le guance e il naso. Dissolto ogni indizio di bellezza. Una goccia luccica, impigliata alle ciglia scure. Punta l’indice sulla carotide, risponde una pulsazione vigorosa. È una ragazza forte.
È la prima volta, che lo fa, ma la mano non gli trema. Ogni nervo è al suo posto. La cascata ferma il flusso, la zattera risale lenta la corrente. Respira il proprio alito caldo, irrancidito.
Con la prossima iniezione le paralizzerà il diaframma. I suoi polmoni diventeranno spugne tossiche di anidride carbonica. Palloncini pronti a esplodere. Cosa si prova nel trapasso? Tenacia, rabbia e poi abbandono. Forse un secondo di serenità.
Prepara già anche l’iniezione successiva perché la cosa sia rapida. Il cloruro di potassio la condurrà all’arresto cardiaco. «Il tempismo è tutto» così gli hanno detto. «Non essere avaro con il tiopental.»
Il giusto, anche se muore prematuramente, si troverà in un luogo di riposo.
Ha letto che in Cina, nei furgoni della morte, le esecuzioni avvengono in tempo reale, fuori dai tribunali. Possono essere seguite in diretta tv dai membri del Congresso, grazie a un sistema video a circuito chiuso. Ci stanno provando anche in Italia, un po’ alla volta. Canali tematici. Ancora un poco e il malvagio scompare: cerchi il suo posto, ma lui non c’è più. Ecco, si immagina la sua Delegazione riunita intorno a un tablet sul volo di ritorno. I loro occhi tondi, avidi, a nutrirsi della sua incertezza mentre infila l’ago in vena.
Non sa cosa ne sia lì, in Thailandia, di chi aiuta a morire. Nel suo caso, comunque, vigono altre leggi.
Sente le galline lottare in cortile. Emettono suoni simili a starnuti, grida. La ragazza sobbalza, come le udisse. Il suo corpo si tende per intero, poi crolla, rilassandosi.
Glauco si alza spazzolandosi con il palmo i pantaloni. Un’ultima occhiata per accertarsi di non aver lasciato nulla dietro di sé. Gli scivola lo sguardo sulla morta sudata, composta. Sotto l’indice ha il fastidio dell’ultimo battito prima del silenzio. È solo un corpo.
Deve permettere alla luce di entrare, apre la tenda di colpo. Glielo raccontava Ploy, che i defunti devono incrociare la luce appena trapassati. Avverte il bisbiglio dei phi, i fantasmi della terra.
La ragazza ora è un grumo di energia inespressa, potrebbe sfiorarla nell’aria, inspirarla e poi soffiarla fuori. Lo fa: leva la maschera e respira profondamente, lo spettro cristallino gli inumidisce i polmoni. Ora lo emette e lo libera, una volta per tutte.
Si accorge dell’altro quando ormai è alla porta. Prima ne avverte la voce, un miagolio sommesso. Per vederlo deve abbassare lo sguardo.
Il bambino cammina dandogli le spalle: una testa scura, due gambe da nano. Marcia verso il corpo sul divanetto, deciso, prima di arrestarsi. Resta in osservazione, non osa toccarla. Riprende a miagolare. Quando si volta verso di lui, punta dritto ai suoi occhi, cercando una risposta. Glauco apre la porta, la corrente d’aria agita le tende azzurre. Sembrano ricamate a mano.
Il sole lo abbaglia, gli impedisce di distinguere subito i contorni del cortile. Ciondola. È completamente pacificato ma non riesce a mantenere l’equilibrio. Danzatore di un film muto. Investe una delle galline, che apre le ali e rotola via.
Il rumore del fiume, un odore di fango, inizia a riprendere possesso di sé. Si fa spazio tra la calca del mercato. Inciampa in un vecchio, pelle tesa sulle narici, sembra già morto: un teschio con orbite piene, denti e fiato. Cerca di parlargli ma Glauco passa oltre, gli avambracci alzati per impedire a chiunque di bloccarlo. È un volatile, è la gallina. Li sente mugugnare, dietro. Accelera.
Nel van l’autista sorride, beffardo, con la sua faccia da ragazzino. Occhiali da sole e i capelli fissati dal gel. Accende il motore e solleva il vetro. L’aria condizionata è al massimo, Glauco si copre la gola con i palmi, come se si volesse strangolare.
Mentre schizzano verso l’aeroporto, non resiste alla tentazione di voltarsi. Di fronte all’ingresso dell’appartamento, ora, c’è una piccola folla. Un ragazzo corre veloce dietro il loro mezzo agitando le braccia, la fossa della bocca spalancata in un grido. Ora la moglie di Lot si guardò indietro e divenne una statua di sale.
2
Ritornare in Thailandia dopo così tanto tempo è stato come rincorrere l’ombra del ragazzo che cinque anni prima aveva attraversato Bangkok col suo trolley traballante.
Ora lo specchio dell’aeroporto gli restituisce un riflesso sciupato: si è appesantito ma ha gli stessi occhiali tondi alla Pu Yi, l’attaccatura stentata, la voglia stinta in fronte. Il sé di un tempo preme un’ultima volta da sotto il viso prima di ritirarsi per sempre.
Era ancora uno studente, allora. Il suo relatore gli aveva prospettato il gemellaggio con il Thai Genetics Institute come l’occasione per completare i suoi studi e dare una svolta alla sua esistenza.
Glauco, certo di essere destinato a qualcosa di più grande, che l’avrebbe trasceso, aveva colto al volo quell’opportunità. Da due anni era incagliato in una tesi impossibile da portare a termine e ora la matassa sembrava sbrogliarsi: «L’Incaricato è interessato al tuo lavoro e vorrebbe che approfondissi le ricerche in Asia».
A Bangkok aveva sentito pompare una strana eccitazione: l’olezzo del cibo da strada e il sudore delle donne in vendita gli promettevano un futuro eroico e selvaggio.
D.G., italiano, cadavere decomposto nel quartiere a luci rosse Soi Cowboy, biasimo della famiglia, plauso degli amici, funerale di Stato. Sognava un finale di cui poter andare fiero.
Pochi giorni dopo, però, l’avevano dirottato a Lopburi, la città delle scimmie. Il suo responsabile, il dottor Sirisorn, l’aveva accolto con un ghigno nello scalcinato edificio in cui avrebbe lavorato. Fine dell’incanto.
Ora, in aereo, è certo di individuare in un bollo verdastro la forma delle rovine khmer infestate dai macachi, la strada che attraversava di notte, in cerca di un volto europeo. Sono passati anni ma è sicuro che incontrerebbe di nuovo la vecchia Ploy, al lavoro su una zuppa di serpente – riesce ancora ad assaporare il fumo salmastro del suo bugigattolo.
Gli avevano assegnato una stanzetta dai muri color lime in un ostello cintato di aralie e impatiens fiammeggianti. Trascorreva gran parte del tempo in laboratorio. Concentrarsi sul suo studio lo aiutava a tenere a bada l’angoscia.
Si sentiva perso in una città di fantasmi. Fuori dal gelido cubicolo in cui campionava provette, branchi di scimmie umane succhiavano tè freddo con la cannuccia, giocavano con i cellulari. Non si limitavano a colonizzare l’area del tempio, le scimmie governavano tutta Lopburi.
La sera, a gruppi, quegli omiciattoli pelosi si arrampicavano fino al suo davanzale e lo ascoltavano leggere Nietzsche con la luce accesa: «E ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia».
Allora la bestia meno pavida azzardava un avvicinamento al cesto della frutta, si agganciava al tavolo della cucina. Le altre osservavano le sue imprese, mute, con gli occhi luccicanti.
Ricorda ancora Ploy intenta a mostrargli come cacciarle via con un manico di scopa, senza farsi mordere.
Tra un cucchiaio di zuppa di tartaruga e una forchettata di cobra arrostito, la vecchia Ploy lo aveva iniziato alla conoscenza dei phi, gli spiriti della terra che riposavano nelle casupole agli angoli della città. Statue dorate che sembravano sorridergli, impertinenti.
Nel suo inglese stentato lo incoraggiava a lasciare un braccialetto di fiori o uno snack zuccherato al phi della guesthouse. Esigeva rispetto per le forze segrete del mondo; poi apriva la cassettiera in legno per far scegliere il serpente più gustoso ai turisti. Trichinosi, sparganosi, a essere fortunati mangiandoli ci si sarebbe beccati la salmonella. Il rettile si accartocciava al suo polso e soffiava gli ultimi sibili, credendo di essersi guadagnato la libertà.
Glauco restava a fissare la scena chiedendosi come fosse potuto atterrare tanto lontano dalla propria esistenza.
Di lì a qualche settimana l’Incaricato l’avrebbe trascinato fuori dalla dolce bava della giovinezza. Ripensa al suo spaesamento come la farfalla in volo si ricorda pupa. La dolorosa transizione da bruco a crisalide; il presentimento che la sua vita si esaurirà nell’arco di un giorno.
3
Oggi, al suo arrivo in Italia, non c’è nessuno ad attenderlo in aeroporto e prova un’improvvisa pena per se stesso.
Morena gli ha scritto: Mi manchi, vengo presto, perfino lei gli sarebbe bastata. Ritiro bagagli, il nastro si aziona. Lo infastidisce capire la lingua di chi lo circonda.
Gli balena davanti la pupilla umida di Ninì. La sagoma traballante del piccolo. Pensa alla parola «assassino». La ripete a mezza voce, sibilando. Punge sotto la sua fronte, come una spina.
Non è riuscito a non guardarla: l’occhio tondo, spalancato, fissava un punto indicibile. E poi l’impressione che l’ombra della stanza diventasse sabbia, depositandosi nelle pieghe del suo viso abbandonato. Il bambino l’ha visto. Sguardo che si somma a sguardo, lo stava osservando. Lo ricorderà.
Preme gli occhiali sul naso fino a sentire dolore, lo aiuta a tornare in sé. Una signora grassa acciuffa la sua valigia per controllare il cartellino.
«Credo sia mia.»
Morena ora lo sta chiamando. Non le risponde per punirla. Si sente misero e solo. Le porte scorrevoli frantumano il suo riflesso. Se ora si potesse lacerare il petto con le mani, proprio in mezzo, che cosa ne uscirebbe? Biglietti aerei, pagine accartocciate, fumo passivo, una profonda malinconia. Volerebbe fuori anche lo spirito di lei, che ha inspirato nella casa sul fiume. La sente agganciata alle ciglia, alle unghie, aggrappata alla voglia viola sul suo sopracciglio.
Era una poveraccia, si dice, la sua vita valeva come la polvere sui pantaloni, come la gallina che saltellava in cortile.
Forse meno: una gallina è uova e carne da arrostire mentre l’uomo, da morto, è carne per i vermi. Vergognati, sorride.
Un clacson lo fa voltare. C’è un’auto argentata che lo abbaglia. Dentro, una chioma rossa e nervosa, mani che si agitano: Morena. Cammina verso di lei trascinando il trolley. Torna a sentirsi forte, la stanchezza amplifica l’entusiasmo.
La signora grassa che aveva confuso la sua valigia lo batte sul tempo. È all’auto e sta aprendo il baule per caricare i bagagli con le sue braccione da uomo. Sua figlia, alla guida, si sistema una ciocca mogano e guarda Glauco interrogativa.
Potrebbe somigliare a Morena, se solo fosse bella.
4
Lo scorrere degli anni macchia di nostalgia anche lo squallore. Come gli sembra dolce ricordare la consegna della valigetta che aveva dato inizio alla sua seconda vita.
Lopburi si era appena ripresa da un acquazzone, l’aria umida sapeva di terra. La grondaia del ristorante di Ploy vomitava acqua, schizzando gocce fino ai suoi piedi.
L’ometto che li aveva raggiunti aveva depositato la valigia metallica di fianco alle carcasse di cobra. Ploy l’aveva pulita alla meglio dal sangue rappreso con il suo straccio per poi porgerla a Glauco: «For you».
Una busta conteneva istruzioni semplici, in un inglese cordiale. Gli si chiedeva la gentilezza di recapitare la valigetta a Bangkok, dall’Incaricato, la mattina seguente. Column Hotel. Sarebbe arrivata un’auto a prenderlo alle 5.30. I ringraziamenti e la firma erano del suo responsabile, dottor Somchai Sirisorn.
Un viaggio di quasi tre ore oltre gli sterminati campi di girasole e i villaggi delle periferie. Si era svegliato mentre l’autista parcheggiava, un cerchio scuro intorno alla testa.
L’avevano fatto accomodare nello sky bar al venticinquesimo piano. Ricorda ancora la disgustosa bevanda al crisantemo che gli era stata offerta e il culo di una bella rossa che aveva ammirato nell’attesa. La forma delle gambe definiva due leggeri archi scuri che trasparivano dalla stoffa. Era europea, un’altra pasta. Con i tacchi gli sembrava più alta di lui. Era trasalito vedendola puntare nella sua direzione.
La donna, sui trentacinque, camminava stringendo tra l’indice e il medio la sigaretta slim ancora accesa e strizzava gli occhi, come per un tic nervoso.
«Glauco, giusto? Morena Castaldi. È tanto che la voglio conoscere, l’Incaricato mi ha parlato molto di lei. Ma no, Glauco, il piacere è tutto mio, davvero, siamo così contenti del suo lavoro. Ma è così giovane, quanti anni ha? Se ti do del tu, non ti offendi, Glauco, vero? Meno male, diamoci del tu.»
Gli aveva chiesto di seguirla perché l’Incaricato voleva conoscerlo di persona. Grigi e aguzzi: i suoi denti avevano bisogno di una bella strigliata con perossido di idrogeno. Un brivido, l’ossigeno che attacca le macchie con ossidoriduzione. Scambio di elettroni tra specie chimiche diverse.
Morena non aveva taciuto fino a quando non si erano ritrovati di fronte alla stanza. Ripeteva che l’Incaricato aveva molto di cui discutere con lui, dando per scontato che si conoscessero.
«Nelle ultime settimane l’Incaricato ha avuto brutte emicranie. Ti avrebbe voluto incontrare prima ma, sai, con tutto il lavoro che c’è da fare per la nuova Via della Seta, è impegnatissimo. E poi la sua malattia… Ma sono normali questi mal di testa. Con tutto quello che deve seguire. Ma oggi sta meglio, ti ha voluto ricevere perché si sente bene, è un toro.»
La stanza, al quarantunesimo piano, dominava Bangkok come il loft di Bruce Wayne. Entrando, però, Glauco non se n’era accorto perché i tendaggi erano tirati. L’odore di un uomo gli dice, a volte, più del suo aspetto. Aleggiava un puzzo di fumo misto a dopobarba. Da qualche parte ristagnava un retrogusto ferroso e sanguigno.
L’Incaricato era seduto sul letto. Risplendeva nel buio, fasciato in un pigiama di seta candida. Sul viso, una salviettina bianca lo copriva dalla fronte al mento. I capelli, radi, strisciavano dalle tempie alla nuca, dove si arricciavano e infoltivano solo un po’ di più.
«Mi perdonerà se la ricevo in simili condizioni. Ma questo mal di testa… Gliel’hai detto, Morena?»
Lui aveva risposto di sì.
«Certe volte mi sembra di morire.» La voce dell’Incaricato era grave ma non profonda. «Mi fa piacere che lei sia qui. Ancora un poco e ci vedremo.»
Gli aveva chiesto di depositare la valigetta sul letto, per poi domandargli del suo soggiorno a Lopburi. Doveva smetterla di nutrirsi di rettili. Per gli europei quella carne è veleno, non poteva diventare mangime per i parassiti. Non ora, che si erano conosciuti, aveva concluso con un risolino.
«Ecco, Morena. Ora puoi togliermi queste bendacce dalla testa.»
Lei si era avvicinata, timorosa, e aveva staccato lentamente la salvietta dalle sue guance, dalla fronte.
L’Incaricato aveva subito ficcato il suo sguardo negli occhiali di Glauco. Lo osservava in modo strano, stupito e insieme compiaciuto. Lui è un serpente, si era detto Glauco.
«Ecco la faccia dell’Incaricato. Sante dell’Oro, piacere di conoscerla. Di persona, perché di nome, be’… Ora apra la valigia, Glauco. Cinque, uno, cinque, uno.»
Morena aveva scostato le tende lasciando filtrare la luce.
Uno scatto secco. L’interno della valigetta era diviso in due compartimenti. In quello di destra c’erano delle cartellette piene di fogli, su alcuni dei quali riconobbe la propria grafia. A sinistra, invece, una sacca bruna tra due mattonelle refrigeranti blu. Morena l’aveva estratta, alla luce pareva brillassero vasi sanguigni su una poltiglia scura. Sul viso dell’Incaricato era lampeggiato qualcosa che sembrava fame.
«Non ci badi. Omaggio del dottor Sirisorn. È placenta, per il mio disturbo. Due sacche a settimana, frullate o stufate. Miracolosa, dice un medico di Xi’an. Chissà. Le donne, qui, sanno di selvatico ma un po’ di prezzemolo e tutto si sistema. Vediamo» e si era portato davanti agli occhi il primo foglio, stringendolo tra i polpastrelli. Aveva mani piccolissime.
Scorgendo la propria grafia, Glauco si era sentito in dovere di intervenire: «Signor Incaricato, quello che ci avete chiesto non si trova. Ho fatto il possibile, in Italia e anche qui. No, non si trova. Non credo sia scientificamente provabile che… Nessun gene della razza, nessuna differenza nei parametri. Impossibile imbastire una teoria razziale…».
La frase era rimasta in sospeso perché l’Incaricato, ora, aveva unito i pollici e agitava le altre dita di fronte a uno spiraglio di luce. Sul muro sbatteva le ali una colomba scura.
«Cosa vede, Glauco?»
L’ombra delle sue mani, vedeva, il suo riflesso.
«Lei vede la luce e l’assenza di luce. La chiama ombra, ma non esiste. È un vuoto, Glauco, quello che le ho chiesto di dimostrare.»
In India, gli aveva spiegato, gli ultrainduisti stavano lavorando a una nuova generazione di bambini. Una razza purissima, concepita attraverso l’Ayurveda, la promessa di uomini più alti, più forti, più chiari che avrebbero preso in mano il Paese instaurando una dittatura basata su un preciso carattere: la superiorità genetica. L’esperimento indiano aveva generato ciò di cui gli uomini e le donne di ogni tempo e luogo hanno bisogno: la fede.
Lo avrebbero fatto anche loro. Insieme, avrebbero creato una nuova fede in grado di riportare la cara, vecchia, Italia al suo splendore imperiale. Fori romani di vetro e di acciaio, un umanesimo tecnologico e, infine, un’eroica riscoperta dell’italianità.
Modello indiano. La scienza al servizio del grande sogno.
Gli aveva chiesto di dormirci su, di rifletterci a fondo perché «una volta presa una simile via non si può più tornare indietro».
Questa strada, però, l’Incaricato l’avrebbe voluta percorrere con lui. Erano stati i suoi studi a fargli avere la grande intuizione.
«Si stanno muovendo molte cose, Glauco. Sono qui a costruire una nuova Via della Seta che colleghi il nostro piccolo stivale alla grande Cina. Sono anni miracolosi, questi. Abbiamo riportato l’ordine nelle nostre belle città. Ci siamo impegnati a ricostruire le famiglie. Stiamo tracciando un sentiero per un Paese che si è perduto. Quando ho letto il suo dossier, ho capito che lei deve fare parte della nostra squadra.»
Si era congedato con rammarico. Sarebbe stato ore, giorni, settimane a chiacchierare ma aveva delegazioni da incontrare, meeting: «È tutto un fermento, qui».
Quella notte, rientrato a Lopburi, Glauco aveva trovato la sua camera allagata, con le tende che sbattevano. Le scimmie avevano forzato la serranda. Avevano messo sottosopra la stanza ribaltando i quadri, lerciando il letto e divorando lo schienale della sedia in vimini.
Secondo Ploy significava che il phi si era arrabbiato. A detta sua, stava per accadere qualcosa, un evento grande e tremendo. Gli aveva raccomandato di omaggiare agli spiriti una bottiglia di Fanta ghiacciata. Bisbigliando, gli aveva chiuso tra le mani un amuleto con l’incisione di Buddha.
La sera successiva Glauco aveva ricevuto una chiamata da Morena. L’Incaricato voleva sapere se avesse valutato la sua proposta e se potesse considerarlo parte del team.
«Certamente» era stata la sua risposta.
5
Il Manifesto genetista è stato pubblicato a suo nome quattro anni prima. È un’accozzaglia di teorie razziste e antiscientifiche che cercano nella genetica una conferma della superiorità caucasica. Lo sa.
La notte, a volte, si sveglia con la convinzione che non sia mai successo: è nella sua stanza e ascolta russare suo padre, ha dodici anni e cerca risposte nella Bibbia. Poi, però, sente formicolare il suo corpo di trentacinquenne, lo sbuffo è il rollare dell’acqua nell’idromassaggio e i libri sono tutti dentro il suo lettore ebook.
Il Manifesto riposa immobile in migliaia di computer, risplende nelle timeline delle bacheche, è appeso alle porte delle scuole.
Alla sua pubblicazione ne aveva parlato chiunque, i link con la sua faccia condivisi a cascata. Glauco Donati e il gene della razza. Il più grande successo della sua esistenza, vissuto con il senso di colpa per i risultati manomessi.
Ci si abitua a tutto, avrebbe voluto saperlo prima. Si era assuefatto agli insulti sul Social, aveva resistito alla paura dopo aver letto Finirai a testa in giù sul muro della sua vecchia casa. I suoi studi thailandesi trasformati da Sante in quella porcheria: era ancora giovane, troppo, per capire che di occasioni del genere non ne sarebbero ricapitate.
Poco dopo la pubblicazione, ogni volta che si trovava l’Incaricato di fronte, si figurava nuovi modi per ucciderlo. Avrebbe potuto ficcargli la penna nella giugulare. Sante avvelenato con l’arsenico, Sante spinto giù dal terrazzo dell’attico.
Lentamente, mentre era concentrato sul suo odio, le polemiche si erano placate lasciando spazio a un’inattesa ondata di apprezzamenti. Aveva iniziato a ricevere chiamate dai quotidiani nazionali, c’erano intellettuali pronti a strapparsi le vesti pur di difendere un pensiero non allineato. La polemica sul Social si era trasformata in dibattito e poi in strenua protezione del Manifesto.
Lo osannavano come un eroe del pensiero libero, gruppi online in suo nome e Sante lo chiamava orgoglioso per segnalargli nuovi articoli in cui si parlava di lui. Glauco quasi si era convinto della bontà del suo lavoro. Ancora non sapeva quanto l’Incaricato fosse abile nel plasmare coscienze e opinioni, defocalizzando e ritarando il mirino delle diatribe sul web. Per un mese intero, ogni squillo del telefono preannunciava una richiesta d’intervista o l’invito a un talk show dove ripetere come un mantra le frasi del suo mentore.
«L’evidenza della molteplicità delle razze ci obbliga a nuovi studi e considerazioni.»
I pochi buonisti rimasti frequentavano i salotti della televisione con le loro camicie abbottonate alla gola. Si lagnavano mentre lui faceva incetta di consensi.
«Non sosteniamo che ci siano razze superiori, ma espressioni diverse di diverse conformazioni razziali.»
Ogni conduttrice, a questo punto, gli ricordava che era responsabile delle proprie affermazioni. Il buonista del giorno lo aggrediva con i capelli arruffati di rabbia. Glauco non perdeva il suo aplomb.
«Il concetto di razzismo è superato, appartiene a un periodo buio, da dimenticare. Noi proponiamo una riqualificazione dell’idea di razza ripulita da manipolazioni politiche.»
Non era un caso che da più di trent’anni nessun bianco vincesse i cento metri alle olimpiadi, né che nessun accademico di colore avesse mai conquistato un Nobel. Erano fatti, la natura, signori, lui come ricercatore aveva il dovere di indagare queste ricorrenze senza pregiudizi.
Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore.
Ora si chiede se il Manifesto non fosse che una delle sperimentazioni di Sante su azione e reazione dei cittadini, un sasso lanciato nel lago per sondarne gli abissi. Certo, il tiro è giunto molto più in là di quanto prevedessero.
A pochi mesi dall’uscita, Glauco aveva ricevuto in chat un video diventato ben presto virale. Demetrio, uno dei tre Ministri della Trinità, declamava il suo Manifesto punto per punto. Al termine puntava lo sguardo dentro quello dello spettatore.
«Al professor Donati che ha avuto il coraggio di pubblicare i risultati della sua ricerca, io dico: bravo. Ci vorrebbero più scienziati come te, dottor Donati, che non si fanno tappare la bocca dai buonisti. Che sanno che la verità viene prima di tutto. Se questo è razzismo, io sono razzista. Bravo, bravo, bravo. Alla fine dell’anno ti attende una medaglia all’onore. È una promessa.»
Il seme caduto nel terreno buono porta frutto. Il suo parto mostruoso era diventato ufficialmente un pezzetto della propaganda trinitaria.
6
La ragazza è in piedi, di fronte alla finestra. Il sole ne affila la sagoma, che ora si inclina verso la sua scrivania.
Riesce appena a intuirne i lineamenti, ma sa che è molto bella e soprattutto molto giovane, perché la spia da quando è arrivata.
Non le ha ancora rivolto la parola, si occupa Morena di gestire le inservienti. Tuttavia ha percepito su di sé la sua curiosità, uno sguardo impertinente che l’ha cercato spesso. I suoi silenzi gli parlano mentre spolvera le mensole o lucida le grandi vetrate del salotto.
Eccola sbirciare i documenti sullo scrittoio, non vista, la linea delle spalle si inclina, il braccio guizza. Uno spruzzo di detergente: si è accorta di lui e torna al lavoro.
«Buongiorno.»
«Buongiorno.»
«Laura, giusto?»
«Giusto. Laura.»
Sorride porgendogli la mano guantata. Se ne accorge, la ritrae, ora sta arrossendo. Glauco afferra uno dei fogli plastificati, traslucido, lo osserva in controluce.
«Questa ti piace? È la copertina del mio prossimo libro. La razza spiegata ai miei figli.»
Laura gli si avvicina, i suoi capelli castani profumano di pesca. Mentre piega la testa scintilla qualche stria bionda sul bruno.
«Non mi convince. Sono sincera.»
Glauco si stranisce, stringe lo sguardo sull’acetato. Risplendono tre emoticon: bianca, nera e gialla. Gli sembrava una buona proposta. Laura è tornata a lucidare, allontanandosi da lui.
«Non ti piace proprio?»
«La trovo sminuente. Il suo libro varrà più di tre faccine, no?»
La ragazza parla dandogli il profilo, senza guardarlo. Glauco resta in attesa, ma lei non aggiunge altro, impegnata a scrostare chissà che. Glauco prova a piegare il foglio, la plastica fa resistenza.
«Sono certa che valga di più, ho studiato il suo Manifesto al liceo» conclude lei, uscendo.
Il sorriso di Glauco si spegne subito scorgendosi riflesso nella vetrinetta che Laura ha appena pulito. La voglia cremisi gli oscura il sopracciglio, sotto si allungano due occhiaie da redivivo.
Questa ragazza è veramente giovane.
7
Dio ama Caino, l’ha capito da piccolo.
Lo chiamavano «Caino», i suoi compagni, per quella voglia accanto al sopracciglio. La cotta in pizzo sopra la veste rossa, le ampolline che tentennano, il terrore di addormentarsi: aveva deciso di fare il chierichetto perché sua mamma e la zia si proclamavano atee. Le due streghe del paese e lui a leggere la Bibbia la notte, con la torcia, sotto lo stesso tetto. Rubare il librone a scuola, dire «Farò il chierichetto» era il suo modo di emanciparsi.
La notte strizzava le palpebre ripassando i due sacrifici: quello gradito e quello rifiutato dal Signore. Strisciava il dito su ogni riga, l’inchiostro sbiancato dalla luce.
Poi, una domenica sera, mentre il prete leggeva la Genesi, la rivelazione: Dio amava Caino, non Abele. Aveva lasciato che Abele morisse e aveva protetto Caino con il suo sigillo. L’aveva provocato, spronato e infine difeso. Era fuggito dall’altare sentendo bruciare l’Occhio infuocato del Signore sopra la sua testa. Ramingo e fuggiasco sarai sulla terra.
Anche adesso ha la sensazione che lo sguardo di Dio sia schiuso su di lui. Sua madre porta in tavola la torta, sua zia si impossessa di una fetta prima che lei la serva. Inizia a smangiucchiarla, spazza il tavolo con la mano. Sua madre allunga l’indice per catturare qualche briciola e appoggiarla sulla lingua. Sa che lo disapprovano.
«Ci stanno mandando in malora, i tuoi amici» la zia smette di mangiare e attende che lui la guardi. Incrocerà due occhi da faina fiammeggianti. Suo padre biascica qualcosa dalla sedia a rotelle.
«Hanno aumentato la pensione di invalidità a papà ma io non sono mica contenta, sai perché? Questi soldi qui puzzano di sangue.»
Erano entrambe comuniste, se le ricorda in piazza a protestare con i sindacati. Zia Dina, da giovanissima, era scesa in città senza la gonna, né le mutandine, per difendere l’interruzione di gravidanza. Da qualche parte nascondono il ritaglio di giornale con il triangolo nero del suo pube in prima pagina.
Si sono battute nei circoli Arci per difendere i poveracci che galleggiavano nel Mediterraneo. Si battono ancora per la comunità cinese, costretta all’espatrio dopo i nuovi focolai. Si vergogna della loro ingenuità, non riescono a vincere quel candido senso di pietà verso degli sconosciuti. Al loro posto gli amati migranti, i cinesi appestati, le lascerebbero crepare.
I vecchi non sanno rassegnarsi al cambiamento. La Destra e la Sinistra, i princìpi e i valori, hanno battuto per l’ultima volta le ali prima della pandemia, per poi agonizzare.
Prima che partisse per la Thailandia, la Trinità aveva ottenuto più del settanta per cento dei voti promettendo un’Italia nuova e sovrana. L’uscita dall’Ue festeggiata come il Capodanno: caroselli in piazza Duomo a Milano, fuochi d’artificio al Colosseo. Gondole illuminate nei canali di Venezia. Li attendeva la Nuova Europa, un’alleanza con i Paesi liberi a Oriente, stretti all’ombra della grande Russia. La Cina allargava gli orizzonti commerciali, il sogno di una Via della Seta terrestre, marina, spaziale: il futuro che tende la mano.
L’emergenza sanitaria aveva consentito ai tre leader di sospendere la democrazia parlamentare a data da destinarsi. Le polemiche erano ammutolite di fronte alla grandiosa campagna vaccinale nuoveuropea. Milioni di dosi sovvenzionate da russi e cinesi, i malandati Stati dell’Unione erano impalliditi.
Mentre la nazione festeggiava, sua madre e sua zia se ne restavano in un angolo, con il grugno. Al termine dello stato di emergenza la misera opposizione era ormai ridotta a uno scarno gruppo di parlamentari con i sondaggi al ribasso. Le due lo avevano sommerso di discorsi allarmati, rimproverato come un bambino: «Adesso ridi, tra qualche anno ne riparliamo».
Ora, a distanza, deve ammettere che non ci avessero visto completamente sbagliato. Da quando i rapporti con la Cina si sono sgretolati, i membri della Nuova Europa non sono più alleati su cui contare. Ognuno si concentra sul proprio orticello, perfino la Russia si è ritratta dopo aver sfaldato l’Unione europea.
È stato un lancio senza paracadute, ebbrezza e rovina, ma non lo ammetterà mai. Sta male alla sola idea di dare loro ragione.
Di quella famiglia sopporta soltanto suo padre, in preda alla demenza. Nei suoi silenzi un’inattesa saggezza. A volte si chiede se quella malattia non sia l’estremo tentativo di sfuggire alle due arpie, come tentava di fare lui, da ragazzino, quando pretendevano di aiutarlo a sciacquarsi sotto la doccia.
La pubblicazione del Manifesto è stato il suo definitivo atto di ribellione. Il loro controllo, la loro morale, il loro biasimo l’hanno portato a firmarlo. Niente spinge un uomo più in là della paura di perdere la sua libertà.
8
Sante, una volta, gli aveva detto che ognuno è la casa che abita.
Glauco l’aveva invitato nella sua stanzuccia a Lopburi e si era improvvisamente vergognato di sé. Nonostante l’avesse intuito, Sante non era stato indulgente. Aveva aperto gli armadi, i cassetti del bagno, dandogli sui nervi. Gli aveva detto: «Verrà un giorno, amico mio, in cui vivrai in un palazzo».
Sono anni che Glauco vola da una città all’altra. Ha raccolto la sua esistenza in una valigia, come una chiocciola, per seguire l’Incaricato nei suoi viaggi diplomatici all’estero, poi a Roma, Milano, Napoli, Torino.
Sante lo presenta a tutti come l’uomo-manifesto. Si vanta della popolarità che Glauco sta ottenendo anche fuori confine. Il Manifesto genetista è diventato un best seller in otto Paesi, un team è in continuo lavoro per ampliare le ricerche sul tema. Ci sono dei Nobel per la scienza che vorrebbero incontrarlo. Negli ultimi tre anni ha dormito più in aereo che a letto. Se un uomo è la sua casa, lui non può dirsi uomo.
Da sei mesi, però, le cose sono cambiate. Abita a Como, in una palazzina liberty appena restaurata. Sante ha detto «Svizzera» e loro si sono allineati come un cancro in prossimità del confine. Ci sono pressioni internazionali contro la Trinità. Se chiuderanno gli spazi aerei, se bloccheranno gli espatri, dovranno essere pronti a varcare la frontiera. Piccoli messicani nel tunnel.
Vivere lì gli piace, è cresciuto in quella zona e tutto gli è familiare. A Roma si sentiva braccato dai clacson, il centro un immenso parco divertimenti sgretolato. Torino lo incupiva con le sue seduzioni massoniche. Qui ritrova quell’ordine che sente abitare in lui.
«Abitare», stare dentro a qualcosa, portarselo sempre addosso, un «abito» di geometrie impersonali, il dentro e il fuori coincidono miracolosamente. Abita ed è abitato.
Morena gli ha regalato un grande quadro rosso, che campeggia in salotto. Una specie di Rothko. Contaminare la sua casa con oggetti, ninnoli, souvenir, le fa credere di dominarlo. La lascia fare e il più delle volte la prende proprio sotto quel quadro. Ha un corpo flessibile, gli piace ancora entrare dentro di lei testando la sua resistenza. Niente la spezza. Sente, a volte, che quella fame è la stessa che lei sfoga nelle torture. Così confonde l’essere soggetto e oggetto del suo piacere.
In casa Morena marchia continuamente il territorio e diventa furiosa quando qualcuno scompone il suo ordine. Laura, la cameriera, lo fa regolarmente. È certo che la cosa la diverta.
È una a posto, non sarebbe servito il passaggio dai Servizi di Sicurezza, ma Morena ha insistito per assicurarsi che fosse tutto in regola. Lo è.
Negli occhi, la ragazzina ha un riflesso viola che cambia con la luce. Nei giorni di sole, il lilla copre l’azzurro, quando è nuvoloso s’incupiscono di indaco.
Dopo il loro scambio nel suo ufficio, ha fatto delle fantasie su di lei. Le fa su tutte, ma per la giovane colf ha una predilezione. Gli piace osservarla di nascosto mentre sposta gli oggetti, passa lo straccio e li riappoggia nell’ordine sbagliato. È impossibile che non se ne accorga. Provoca, indomita.
Nelle occhiate che gli lancia c’è una morbosa curiosità. Lo spia di sottecchi, arrossisce, torna a guardarlo quando crede che non la veda. Veste quasi sempre uguale. I pantaloni scuri spuntano da sotto il grembiule che le balla addosso, drappeggiante.
La artiglia per la stoffa e la tira a sé. Lei sussulta ma non scappa. Ora le acciuffa i capelli, tende la sua nuca verso il proprio petto. La ragazzina geme di una paura umida, mentre lui le stringe il palmo sulla bocca. Non riesce a morderlo, la sua saliva gli cola tra le dita. Può cacciarle finalmente la mano sotto il grembiule. I suoi piccoli seni, i capezzoli aguzzi, strizza fin dove può, fin quando la carne resiste.
Lo farebbe, se ne avesse il coraggio. Ma non riuscirebbe ad andare fino in fondo. Se te lo ordinasse Sante, forse.
Si sente una sua appendice ultimamente, un dito di Sante, un suo foruncolo, una verruca. Ne è infastidito, ma poi entra nell’idromassaggio in veranda: vasca tracimante, filtraggio a sabbia di quarzo, chaise longue riscaldata. Tutto passa, tutto si accetta, a ogni cosa ci si abitua. Senso pratico e un pizzico di orgoglio, quanti hanno una spa in veranda? Vale bene una teoria razzista ogni tanto, l’obbedienza a un padrone, la cieca sudditanza. La paura di finire nelle fondamenta di un palazzo dorato ad Abu Dhabi come Luigino.
Si spoglia completamente e si cala nell’acqua, potenza due: il bocchettone sbrodola vibrazioni, la superficie ribolle.
Lei dovrà pulire anche quella stanza. Si prepara: occhi chiusi e pancia in fuori, pregusta la sua faccia quando se lo troverà lì, nudo come un verme. È un gioco: attende famelico l’imbarazzo e la paura. I suoi passi nelle sneakers.
«Oddio, scusi!»
«Vieni. Non ti preoccupare.»
Laura entra guardando dritta avanti. Ha un profilo affilato da upupa, immagina una cresta spuntare sul suo cranio in allarme.
Passa lo straccio con lo spazzolone, lui picchia con la mano sulla superficie dell’acqua, facendola schizzare fuori. È arrossita. Asciuga lì vicino, ha il respiro affannoso mentre sfrega. Lui lo fa di nuovo, uno schiocco sull’acqua e ride forte. Laura lo fissa con i suoi occhi viola. È giovane ma ha qualcosa, qualche cosa che mette a disagio.
«Siediti, Laura.»
Obbedisce. Mansueta, avvicina il suo corpo tiepido al bordo della vasca. Come agnello condotto al macello.
Il cloro punge il naso a tutti e due. È certo che le sfuggirà uno sguardo sul suo sesso, ma per il momento sembra reggere.
«Hai pulito la casa, mentre non ci sono stato?»
«No.»
Bugia: l’ha vista dalle telecamere di sorveglianza.
«Sicura?»
Le passa l’indice umido sulla guancia. Laura resiste all’istinto di spostarsi, si intuisce la sua lotta interiore dal leggero contrarsi delle sopracciglia. Non è certo di ripugnarle, probabilmente l’ha solo presa alla sprovvista. Un uccellino impaurito.
«Ora che ci penso, una volta sì. Mi ha mandato l’agenzia.»
«Così va meglio, cara.»
Schiaccia l’indice sul suo labbro superiore. Laura balza in piedi, afferra lo spazzolone e torna a passare lo straccio. Si asciuga la bocca con la spalla.
Ha caviglie bianche ed esili, potrebbe stringerle e trascinarla in acqua con un solo colpo di mano. Non lo farà.
9
Ha sognato di nuovo Ninì, la ragazza thailandese.
La solita situazione: sono lui e Sante, lei li attende completamente nuda. Un corpo acerbo, ambrato. La suite è opulenta. Appena entrano, lei inizia a rivestirsi al contrario: le scarpe, la gonna, la camicia, il reggiseno. Sante, allora, chiede a Glauco di lasciarli soli, ma lui non ci sta. Gli risponde: «Non da solo sei entrato in questa stanza». A quel punto si sveglia.
È la terza volta che ripete questa frase nel sonno, in contesti diversi. Una volta è in riva al mare, un’altra dentro un seminterrato. Ci sono sempre Sante e Ninì, bella come la prima volta in cui l’ha vista.
Una festa, si ricorda il rooftop, le luci di Bangkok così vicine e gli italiani della Delegazione Trinitaria. Bocche volgari, capelli madidi attaccati alle fronti, qualche mano a tempo sulla musica. C’era Luigino, che gli avrebbero presentato quella sera, sorrideva a tutti, perso. Ovunque, sosia di politici visti in tv, gli ci era voluta una mezz’ora buona per realizzare che in realtà erano gli originali.
Morena stava in ginocchio sopra un tavolo, la gonna umida di vodka. Sante ci aveva ficcato la testa sotto e lei, ridendo, cantava l’inno di Mameli a squarciagola, ansimante. Attorno a loro si era radunata una piccola folla, facevano tutti il tifo incitandola a proseguire tra i battimani.
Ninì fissava la scena seduta in un angolo, i lunghi capelli neri, lucidi, sulle spalle, le cosce sottili accavallate. Sotto il trucco pesante gli era sembrata giovanissima ma non indifesa. Qualcosa di regale la distingueva dalle altre. La consapevolezza di essere la donna del re.
Quando Sante aveva terminato il suo teatrino e l’aveva notata, Glauco ricorda di averlo visto impallidire, alzarsi veloce e andare verso di lei come da una moglie.
Gliel’aveva presentata – «la mia Ninì» – ma la ragazza non gli aveva stretto la mano. Poi l’aveva accompagnato al bancone del bar indicandogli questo o quello, blaterando di ministri e di cariche.
Stavano guardando il panorama quando Sante aveva preso a parlargli di lei.
«L’hai vista, Ninì? È un fiore. Ne sbocciano pochi di fiori come quello. Ne sbocciano soltanto qui. Tutta questa bellezza è un veleno per chi invecchia.»
Quell’improvvisa confidenza aveva fatto sentire Glauco al sicuro, come fosse approdato in un porto dopo una lunga navigazione. La musica arrivava ovattata, nel loro perimetro, portando le ultime voci e allargandosi sulla distesa di palazzi accesi. Gli era sembrato normale chiedergli: «Quanti anni ha?».
Sante si era irrigidito. L’espressione che gli aveva restituito, voltandosi verso di lui, era inerte, come si fosse svuotato di sé: «Non si chiede mai l’età a una signorina. Specie qui».
Glauco si era appoggiato al parapetto, un capogiro, Sante se n’era accorto: «L’hanno cresciuta le donne, vero? Le hanno riempito il cervello di storie sulla vita, la buona educazione, i princìpi che salvano. Ma lei è un lupo, l’ha scoperto da ragazzo e non ci ha mai fatto pace. Lo vedo dai suoi occhi, Glauco. Ha fame e nessuna di quelle femmine è stata in grado di nutrirla. È in buona compagnia, non si preoccupi. È per quelli come lei che esisto. Sto costruendo un bosco in cui possa sentirsi se stesso. Mi dimostri che non mi sbaglio, Glauco, e quando torneremo in Italia le prometto che le cose cambieranno».
Lo aveva fissato dritto negli occhi e Glauco non aveva abbassato lo sguardo. Erano simili. Un istante, poi Sante era tornato quello di prima: il sorriso grigio, la mano che si agita a tempo di musica. Aveva raggiunto Ninì, obbligandola a ballare con lui. Di tanto in tanto, però, durante la festa, lo scrutava come si guarda una donna.
Tra loro, ora, c’era un legame.
Era riuscito a sfuggire al controllo della sua famiglia solo facendosi dominare dall’Incaricato.
10
Si passa le fotografie tra le mani. Le ha trovate questa mattina nella cassetta della posta. Non si ricordava più cosa significasse toccare la resistenza indecisa della carta, aspirare l’odore di toner. Eppure è passato così poco dal ritiro dei cartacei.
Già dalla busta ha capito chi gli avesse spedito la lettera. Soltanto i Dinosauri si ostinano a usare la cellulosa. Cinque scatti sgranati. Non capisce come possa non essersi accorto di loro. Lui, di spalle, che entra nella piccola casa sul fiume: è irriconoscibile. Poi un primo piano, eccolo voltato, la luce che preme sugli zigomi.
Per scattare queste immagini nella baraonda del mercato bisogna essere molto vicini. Forse l’autista, dev’essere stato lui. In una foto esce a grandi passi, gli avambracci sollevati per farsi spazio tra la calca. Un’altra ritrae il corpo morto di Ninì, la accartoccia senza guardarla.
Quelle immagini non provano nulla, sono solo un avvertimento. Vogliono che si senta braccato. Dovrebbe chiedere a Sante la scorta ma mostrarsi vulnerabile lo esporrebbe troppo. L’Incaricato si nutrirebbe della sua paura allo stesso modo in cui divora i suoi banchetti di placenta. Fare le fotografie a pezzi una dopo l’altra gli ridà forza.
Quando è solo, certe volte, entra nel suo profilo social che usa con parsimonia.
Dopo la pubblicazione del Manifesto qualcuno gli ha scritto: Ti faccio scoppiare una mina in quella cazzo di bocca. Lo tormenta immaginare la sua mascella esplosa, la trachea esposta e fumante, i coriandoli di denti sparsi tutto attorno: rischi del mestiere.
Non sarebbe il primo a finire così. I Dinosauri stanno falciando chi è vicino al partito. Dopo gli striscioni e gli slogan, qualche parata, si sono organizzati in piccoli gruppi armati. Hanno sbagliato a sottovalutarli. Sante l’aveva detto subito: «Questi qui ci daranno delle grane».
I ribelli hanno preso spunto per quel nome ridicolo da una frase di Demetrio, vertice virile della Trinità: «Prendiamoci il futuro. Il tempo dei dinosauri è finito».
La loro prima mossa era stata cancellarsi dal Social Unico. Dovevano avere capito che li controllavano. I loro account immobili, lucertole sul muro. A poco erano valsi i tentativi dell’Ufficio Stampa Trinitario di sensibilizzare i cittadini alla denuncia. Le campagne web invasive: «Tu sei il Social». Gli slogan di Demetrio: «Chi non ha nulla da nascondere, non ha niente da temere».
L’ultima incursione nelle redazioni del Social risale a un paio di mesi prima: autori in ostaggio, pc distrutti, a fuoco gli edifici. Cinque, contemporaneamente, un’azione plateale. Non devono aver ancora digerito la transizione digitale.
Al suo insediamento, prima della pandemia, la Trinità aveva presentato il Social Unico come la sola risposta possibile alla vendita di dati da parte dei colossi come Google e Facebook. Luigino diceva a tutti di aver seguito personalmente la comunicazione di quei cambiamenti: «I tuoi dati appartengono solamente a te», un sinfonico inno alla privacy.
La strage di bambini su TikTok aveva fatto il resto: serviva un ambiente web sano, in cui tutti si sentissero rappresentati e nessuno rischiasse la vita. I Dinosauri, a quanto pare, non se l’erano bevuta.
Immagina Luigino in paradiso, all’inferno, dissolto nell’aria. Lo vede ripetere all’infinito i mantra della comunicazione, recitare le formule imparate a menadito per difendere il Social.
È stato Sante a spedirlo negli Emirati, viaggio di sola andata. Gliel’ha rivelato Morena. Se la ricorda a cena, cupa e assente. E anche a letto, dopo, improvvisamente stanca. Aveva scosso la chioma rossa e sbuffato un po’ di fumo. Un’auto aveva irradiato di luce la stanza e Morena non aveva nemmeno avuto il pudore di coprirsi il seno, di voltarsi.
«Luigino non torna, quindi non chiedermelo più.»
Glauco non aveva insistito oltre, ma lei si era sentita in dovere di rivelarglielo: «È nelle fondamenta di un palazzo meraviglioso».
Glauco non ricorda rabbia o malinconia nella sua voce. Con Luigino, con Ninì, con chissà quanti altri condivide il destino. Gli spettri nelle tasche insieme alle foto, un intero album di colpe.
11
Una volta aveva accompagnato Luigino e Sante a uno di quei talk in cui si finge di dibattere. Avrebbero intervistato Demetrio, ricorda ore di riunione, Luigino affannato su un tablet pieno di numeri e grafici.
Il conduttore aveva aperto con le controversie dell’ultimo anno di governo: finanziamento al Manifesto genetista, sgombero cinese, web e Social Unico, ritiro della carta, porto d’armi smart, introduzione della pena capitale per reati gravissimi. Diretta online delle esecuzioni. Avevano un curriculum di tutto rispetto.
Il buonista, occhiali dalla montatura viola coperti solo in parte da una chioma fluente, masticava amaro ripetendo il suo anatema: «Chi soffoca la libertà verrà soffocato da chi è libero».
Demetrio, senza perdere la calma, si era fatto una risata paterna e aveva cominciato a parlare modulando la propria voce su quella di Sante. Stesse frasi, identica inflessione.
«E chi sarebbe libero? I Dinosauri? I terroristi spaccavetrine? Noi non abbiamo bruciato i libri, li abbiamo digitalizzati. Non abbiamo censurato il popolo, ma creato il Social. Non abbiamo legittimato la violenza, al contrario: abbiamo trasmesso in diretta la punizione come un monito. La Rete ha ucciso la libertà, noi ve l’abbiamo restituita.»
Il buonista si era zittito, tormentando il ciuffo sugli occhi.
Alla sua nascita la Rete era sembrata la risposta a un mondo fossilizzato nelle gerarchie. Wikipedia, la democratizzazione del sapere senza alcuna fatica. Secondo l’Incaricato abbattere l’ordine costituito, rendere accessibile la conoscenza, aveva portato tutti a sapere di meno.
Ora gli esseri umani valevano uguale, smaterializzati nell’etere. Laureati, analfabeti, conservatori, progressisti, le loro opinioni avevano lo stesso peso: inconsistente. Polvere tu sei e in polvere ritornerai! I pensieri ancorati al balenare di un tweet per celebrare sintesi e parità, il miracolo degli anni Duemila. La libertà di pensiero, la rinegoziazione del giudizio, la disintegrazione del politicamente corretto e poi la sua solenne riabilitazione come dogma: in quell’intercapedine grigia Sante stava giocando la sua partita.
Avevano imparato da Google a tracciare risate, spostamenti, emozioni degli utenti per tradurli in dati che potessero prevedere il loro comportamento. Di più: agire sugli individui conducendoli entro argini già segnati. Requiem per il libero arbitrio.
Per questo Sante andava tanto fiero del suo Social Unico. Un agglomerato di cittadini avatar con pari diritti e dignità, branchi di vite in ostaggio sotto l’occhio muto del mandriano, spalancato nelle loro stanze.
«Quando il Social è pieno, la piazza è vuota» aveva sghignazzato l’Incaricato a cena, dando pacche compiaciute sulle spalle di Demetrio. Gli italiani avevano una storia fatta di re, imperatori, papi, duci: era importante che qualcuno amministrasse la loro libertà. Avevano fornito bonus statali per smartphone, home assistant, smartwatch e videocamere di sicurezza configurati per il Social. Code chilometriche fuori dai negozi di elettronica.
I cittadini potevano dormire sonni tranquilli e sicuri mentre le loro esistenze venivano sezionate, le loro condizioni fisiche catalogate, interessi e posizioni politiche indicizzati in parole chiave, le chiacchiere e le polemiche ascoltate in tempo reale dai software. Tutta la loro vita sarebbe passata dalla Rete e loro l’avrebbero targettizzata con la gratitudine e autorizzazione dei cittadini, indirizzandone scelte e opinioni. Gli ultimi e-referendum davano ragione a Sante: revisione della Costituzione, plebiscito per la pena di morte, ritiro della carta dal mercato. Fine di ogni parola offline, il Verbo si fece algoritmo.
Il Manifesto genetista di Glauco era un tassello di questo riordino, del grande progetto della Trinità per il Paese. Si sentiva la leva di un propulsore che li avrebbe sparati più in là di chiunque altro, la sua esistenza aveva una direzione, la meta sempre più remota, la posta in gioco un gradino più su. Nel plasma degli italiani c’erano la pizza, Mussolini e Botticelli e lui avrebbe aiutato Sante a ricordarlo a tutti. Avrebbero regalato al loro popolo l’illusione di avere ancora una dignità.
12
C’è un mazzo di iris sul tavolo. Sono indaco. Sfidano la gravità, le creste di cristallo pronte ad appassire. Li ha portati Laura, la cameriera, li ha appoggiati al centro del tavolo senza chiedere il permesso. Glauco ne ha sfaldato uno con i polpastrelli. Il fiore è collassato sotto la pressione, lui non sa mai fermarsi prima.
Da quando gli sono arrivate le fotografie, da quando ha stretto la carta tra le mani, gli sembra che le sue dita siano maledette. L’indice rivela uno strano tremore che si ostina ad attribuire alla carenza di potassio. Il tracollo nervoso soffia da qualche parte, sulla sua nuca.
Morena prende i fiori, li butta tutti interi nel cestino, infrangendo il suo incanto. Glauco la osserva indulgente. Non cederà di fronte ai suoi atti dimostrativi, non vuole darle troppo potere. È infuriata perché lui procrastina il trasferimento in Svizzera. Le passerà.
È a una mezz’ora dalla sua famiglia, quella villetta lo fa sentire al sicuro. La domenica, a volte, prende la macchina e guida fino alla sua vecchia casa, fregandosene della protezione. Non gli piace dover accettare il pedinamento delle Milizie Viola, gli bastano gli energumeni fissi di fronte alla porta di casa. Non è ancora tanto esposto da rischiare la vita.
Sul Social si moltiplicano gli articoli in cui si annuncia l’estinzione dei Dinosauri. È un abbocco, Sante vuole farli uscire allo scoperto. La loro bandiera, il brontosauro nero in campo rosso, è sventolata per l’ultima volta un paio di mesi prima, appesa all’Altare della Patria. Questa quiete non promette nulla di buono.
Glauco li immagina zampettare, batteri subumani con la pelle coperta di setole scure. Eccoli strisciare fuori dai tombini, rotolare di fronte ai Fori Imperiali, forzare il sepolcro dell’Ara Pacis.
Non crede nella forza delle Milizie Viola, i ragazzoni con il mito del Duce che affollano le strade stringendo mitra e manganello. La Trinità li ha statalizzati al suo insediamento, prima erano soltanto gruppi liberi di picchiatori. La gente si è abituata alla loro presenza, si crea una strana atmosfera quando un miliziano entra in un locale. Se n’è accorto l’altro giorno, al bar. Stava bevendo un caffè, si apre la porta e compare questo scimmione, due metri per due. Si è sentito a disagio, ha tirato in dentro la pancia mentre tutti, intorno, facevano silenzio. Non per la paura ma per il desiderio. Le donne lo fissavano incuranti dei mariti, tre ragazzine hanno ridacchiato coprendosi la bocca. Quando, per strada, una camionetta pattuglia la zona, tutti cercano i miliziani dietro al vetro. Quella divisa funerea è ormai simbolo di contegno virile, cinismo sfacciato e una forza maschile che lui non ha mai avuto.
I Dinosauri, però, sono subdoli e astuti, non si catturano con i muscoli. Ha fatto installare nuove videocamere puntate sulla sua cassetta della posta. Ogni mattina controlla le registrazioni, trattenendo il fiato. Da allora non ha più ricevuto nulla.
13
Il 1° aprile di quell’anno il sole non era sorto.
Non l’hanno saputo spiegare i professoroni, né gli astrologi, nemmeno i preti. Per un’intera giornata, dal mattino alla notte, il mondo sembra essere rimasto fermo. Qualche opinionista da salotto ha parlato di rifrazioni cosmiche, eclissi indiretta, proiezioni depotenzianti. C’è stato chi, per qualche ora, ha gridato all’Apocalisse. Piazza San Pietro invasa dalle fiaccole.
Lui era a Roma, in quel periodo, per il bando delle Olimpiadi. Mancavano ancora anni, ma Sante voleva premere con la Trinità affinché destinasse fondi alla ricerca genetista in vista dei giochi. Sognava discipline divise per classi etniche.
Glauco era sceso per il caffè e il giornale: aveva pensato di avere l’orologio rotto. Già le otto e mezza e l’oscurità avvolgeva ancora tutto quanto. Le lampade accese di Via Panisperna, i fari delle auto a lampeggiare, l’insegna TRATTORIA bianca di neon. Poteva essere notte fonda. Dei pipistrelli frullavano su e giù per le grondaie, come rondini. Non c’era più la luna, le stelle iniziavano a scomparire, ma il cielo restava di un blu profondo e muto.
«Oggi non c’è sole» perspicace, il barista ecuadoriano gli aveva preparato il caffè increspando le labbra, preoccupato.
Glauco aveva buttato giù il macchiato senza scavare nella schiuma, in tv un giornalista cercava di tranquillizzare gli animi ipotizzando una sovrapposizione di Marte, l’ombra interplanetaria. Nessuno sapeva dire che cosa stesse accadendo. Era uscito.
L’angoscia che l’aveva preso sconfinava nell’euforia: che cosa avrebbe fatto se fosse stato il suo ultimo giorno? Avrebbe potuto far del male a qualcuno, derubarlo, stuprare una passante, spogliarsi completamente nudo e mettersi a gridare. Avvertiva l’alitare della catastrofe posarsi sulla strada, sulle foglie e gli alberi.
Non amava passeggiare per il centro storico, i turisti da scansare e gli accattoni che provano a venderti di tutto. Quel giorno, però, era diverso. La gente non camminava più, non scattava fotografie, non teneva gli occhi al cellulare. Tutti fissavano il cielo in cerca di una risposta. I centurioni con l’elmo in mano, i tassisti in piedi con la portiera aperta, i musicisti di strada, i businessmen con le ventiquattrore strette al petto come figli. La stessa atmosfera spettrale dei mesi in quarantena.
Aveva chiamato a casa, per accertarsi che tutti stessero bene. Sua zia gli aveva ribadito che i risparmi erano nascosti nella scatola di scarpe sopra l’armadio, e gli aveva chiesto di seppellirli tutti insieme. Più ottimista del solito.
La luce era tornata verso le quindici: una placenta turchina, poi il buio era calato di nuovo su Roma.
Sante gli aveva chiesto proprio quel giorno il suo aiuto.
Osservava corrucciato alla finestra il buio pesto delle diciotto, il suo ufficio sbiancato dal neon che scalfiva gli oggetti. Di lì a un paio di mesi sarebbero volati a Bangkok per varare un nuovo accordo commerciale. Prima con la Cina, ora contro: dovevano isolarla creando un cordone di Stati amici. Voleva che Glauco li seguisse in Thailandia.
«Staremo ancora al Column, come la prima volta. Romantico, no?»
Della tanto agognata Via sella Seta restavano solo le ceneri e il governo cinese si opponeva al rimpatrio dei suoi cittadini. Confinare Pechino era diventato un imperativo. Andava trovato un assetto tutto nuovo con i colossi del Sudest asiatico.
«E io cosa c’entro?»
Sante aveva atteso un po’ prima di continuare. Lo sguardo basso, l’aria imbarazzata: Glauco sapeva riconoscere le sue messinscene. Poi lo aveva fissato come un predatore, allungando una mano sulla scrivania. Il palmo spingeva un tablet su cui risplendeva il volto di una ragazza in un articolo del «Bangkok Post». Non gli aveva dato il tempo di leggere l’articolo, ma era riuscito a riconoscere il taglio di quello sguardo scuro prima che lui bloccasse lo schermo.
«Hai presente Ninì? Te la ricordi? Ha avuto dei problemi nell’ultimo periodo. A quanto ne so non se la passa troppo bene.» Sante si era voltato verso la finestra, ora sembrava interessato al panorama. «Questo buio. Lo detesto. Ce lo meritiamo. Chiunque fa il male odia la luce, e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Giovanni, tre e venti. Io di questa oscurità ne ho bisogno solo quando ho il mal di testa, ma per il resto…»
«Di che si tratta?»
«Non siamo cattive persone, Glauco. Facciamo quello che va fatto, cercando di limitare i danni. Mi fido solo di te.»
«Sante, di che si tratta?»
Glauco si era alzato in piedi e l’aveva raggiunto di fronte alla vetrata. Una camionetta della spazzatura, il lampeggiante acceso, avanzava a scatti, come una cimice. Si era chiesto se lo vedessero lì sotto. Aveva avuto l’impressione, che strano, che lui e il suo riflesso potessero scambiarsi di posto. La sua sagoma scolpita nel bianco, mentre la voce di Sante diceva: «Ninì vuole morire».
14
Non aveva mai ucciso prima del ritorno a Bangkok. Non ha più ucciso da quando è rientrato.
Accartoccia le fotografie che questa volta i Dinosauri hanno recapitato ai suoi genitori: il corpo di Ninì su un tavolo metallico. La bocca spalancata, la mandibola scomposta.
Ogni volta che riceve una di queste buste fa degli strani incubi.
Lui e Sante colgono frutti maturi da un enorme albero. Sembrano pesche, ne pregusta la polpa e il succo. Al momento di morderli, però, si accorge che la pelle del suo è grinza, avvolta da un alone di muffa. Si volta verso Sante per bloccarlo, ma lui ha la bocca già impiastrata di una melma scura. Anche Glauco, allora, addenta il suo frutto, deglutendo polvere.
È uno strano senso di colpa, quello che si trascina dietro. Ha affiancato Morena durante gli interrogatori elettrici, a volte c’è scappato il morto. Una parte di sé, però, gli ha sempre ricordato che lui è lì a prendere i parametri, a salvare, non a uccidere. Tanto basta a permettergli di respirare a pieni polmoni, redento.
Ora, sul balcone, ripensa a Ninì e prova a inspirare a fondo. Risente i miagolii del suo bambino, un indecifrabile parlottio in falsetto. L’aria gli si blocca a metà torace, come avesse i bronchi intasati. Tira un pugno alla ringhiera, il metallo risuona.
«Voltati lentamente» la voce alle sue spalle è sconosciuta.
Glauco sente le gambe liquefarsi. Obbedisce, gira su se stesso fino a incrociare lo sguardo del ragazzo. Ha occhi giovani e vivi sotto il passamontagna rosso. Una macchia nera cucita in fronte: il brontosauro. Sorride a labbra strette, puntando una pistola.
«Se non fai cazzate, non ci facciamo male. Adesso scendiamo in silenzio e mi consegni la cartelletta» gli spiega calmo.
Glauco potrebbe lanciarsi dal balcone. Potrebbe azzardare uno scatto verso l’uscita o gridare forte. Sparo, morto, meglio obbedire. Non ha voce per rispondere. Si avvia verso la porta in silenzio, la testa bassa, il metallo della canna spinge contro la cresta della sua spina dorsale.
Corridoio: Laura è in un angolo, schiacciata contro il muro, le braccia alzate. Si morde il labbro sgranando gli occhi. Glauco rallenta, accenna con lo sguardo al giardino. Spera che lei capisca: Chiama aiuto.
«Non ti fermare» la pistola preme sulla sua schiena. Che cosa fanno in questi casi nei film? Come si salvano? Gli occhi di Laura lo seguono, roteando da destra a sinistra, li sente pigiati addosso come una seconda arma. Il dinosauro le fa un cenno e lei li segue lentamente, con le mani in vista.
Proseguono fino allo studio, dove ogni oggetto è al suo posto. Loro entrano, mentre Laura rimane sulla porta. Glauco si sente estraneo, come piombato nell’abitazione di un altro.
«La tieni qui, la cartelletta?»
«Non so di cosa parli.»
La mano gli stringe la nuca, un pizzico guantato: «Lo sai».
Si sta inginocchiando davanti allo scrittoio quando risuona, acuta, la voce della ragazza. È un grido d’aiuto.
Accade tutto molto velocemente. Mentre quello si volta, Glauco gli arpiona le gambe, cercando di buttarlo a terra. Un colpo esplode, facendo vibrare i vetri. Viene dall’arma del ragazzo, sulla camicia di Glauco schizza del sangue. Lui si accuccia e prende a tastarsi la testa, le braccia, il torace, per accertarsi di non essere ferito.
Mentre quello fugge via, sopraggiungono gli uomini della sicurezza. Lo aiutano ad alzarsi, un capogiro quando incrocia lo sguardo di Laura. Lo osserva tremando, con gli occhi lucidi.
15
Prima di partire per Abu Dhabi, Luigino gli ha parlato. Si ricorda la sua voce concitata, roca come se non dormisse da giorni.
Si sono incontrati in un bar a Prati. Qua e là, nell’aria, penzolavano edere, piante aromatiche, una grande parete alle loro spalle puntellata da una vegetazione serica. Quell’esplosione di vita artificiale acuiva la sensazione di morte che Luigino si trascinava dietro.
«Sante decide per tutti, è così. Io voglio lasciarti una cosa, voglio che me la conservi. È riservata, Glà. Capisci cosa intendo, no?»
Glauco aveva annuito, lo sguardo sulla cartellina in pelle scura che l’amico aveva deposto sul tavolo. Ricorda di aver buttato giù il suo negroni, spizzicato un’oliva.
«Se te la lascio, devi portarla in un posto sicuro fino a quando ritorno. Puoi guardarla, se vuoi. Anzi guarda tutto, ma solo tu, Glauco, mi raccomando. Morena no.»
Dopo l’incursione del dinosauro ha nascosto la cartellina a casa dei suoi. È nella cassettina di sicurezza dentro a un vecchio baule. La cartella custodisce documenti cartacei, floppy, chiavette, dvd. Luigino si era raccomandato di staccare il wifi da tutti i dispositivi prima di accedere ai materiali, Glauco li ha sfogliati soltanto un paio di volte, per non rischiare. Ha fatto scorrere i file di floppy e dvd nel computer giurassico di quando andava alle elementari.
«Abbiamo passato il confine, Glà. Tutti quei dati… e io l’ho aiutato. Glieli ho consegnati io, in un certo senso. Con il Social possono entrare nelle vite di tutti. Ogni profilo predice un futuro, è come leggere nel pensiero. Si infilano nella testa delle persone, le portano dove vogliono loro. Sante decide come, quando, perché. Ma non sa che io, qui, ho il suo profilo. Anche noi lo teniamo in pugno, Glà.»
Facendo scorrere i file, Glauco ha capito cosa intendesse. La storia di Sante dalla Seconda Repubblica a oggi. La militanza nei partiti neofascisti e le mosse all’ombra di ogni governo, le alleanze, le ingerenze mafiose. Lui immobile, eterno.
E poi i dati del suo Social. Ricerche, liste interminabili di chiamate, conversazioni, cronologie, mail. L’esistenza dell’Incaricato digitalizzata e pronta all’uso.
Ma non solo. Una cartella nominata Thai raccoglieva articoli e fotografie. Il volto di Ninì nel pezzo del «Bangkok Post». Un’intervista in cui raccontava le feste folli a cui aveva partecipato appena sedicenne. Abusi da parte di uomini influenti, che preferiva non nominare. Le avevano lasciato un figlio e la malattia, quelle nottate.
Immagini di Sante con lei, in un ristorante, quattro anni prima. Uno scatto, loro due insieme su un taxi; ancora loro, all’ingresso del Column Hotel. Lei indossava una felpa con un gattino. Lui sorrideva come un bambino. I loro profili nella stanza, coperti dai riflessi del cielo.
Erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati.
16
Da circa sei mesi è stato completato il piano di decartizzazione.
«Salveremo due alberi per famiglia, circa 50 milioni all’anno» ha assicurato Demetrio, bloccando poi la produzione di vecchi supporti come i cd e i dvd. Quella era la tanto auspicata transizione digitale.
Ogni operazione, frase, parola, anche la più banale, ora passa dalla Rete. Voltandosi indietro e poi guardando avanti, Glauco si sente un ranger che cammina a gambe larghe nelle praterie del futuro.
Il ragazzo che ha sostituito Luigino, grassoccio, occhiali tondi, presenta in videocall il logo del nuovo ambiente virtuale, stilizzato con la pianta di Castel del Monte. Un ottagono, ogni angolo corredato da una torre ottagonale: Social Network Unificato, Motore di Ricerca Univoco, Chat Esclusiva, Pacchetto Software Online, Biblioteca Digitale Condivisa, Canale Video Governativo, Profilo Fiscale Ufficiale, Centro Informativo Statale. La vita di ogni cittadino al loro servizio.
Intrappolato nel castello, Glauco passa il dito sul bordo del logo, rimane un alone sul tablet. Sante lo fissa, interrogativo.
«Voglio un posto nella Nuova Europa.»
Sante sogghigna, punta lo sguardo sul sopracciglio di Glauco, indaga per un istante la sua voglia cremisi. Morena sta lavorando al computer, finge di non sentirli. Passa qualcuno in corridoio, la sagoma grigia dietro il vetro satinato, in quel momento Sante blocca il video e punta gli occhi nei suoi: «Un posto già ce l’hai. È di fianco a me».
Ma Glauco intende una posizione vera, al Centro di Ricerca. Dopo l’incursione in casa sua non può restare in Italia. È ora che cresca, uscirà il suo nuovo libro, potrebbe prendersi un anno nella Nuova Europa dirigendo una squadra di genetisti. Il tempo della semina non può durare per sempre.
Sante annuisce in silenzio, riabbassa la testa sullo schermo. Gli sta ricordando che il potere è unidirezionale, che se cerchi di afferrarlo ti incenerisce come i fulmini di Zeus.
Invece, inaspettatamente, chiede a Morena di uscire dall’ufficio. Fa un respiro profondo, prima di domandargli: «Anche a te sono arrivate quelle fotografie?».
Glauco annuisce appena.
Sante conclude: «Non è saggio dividerci, ora. Finché sei qui con me non ti accadrà nulla. Ma altrove, chi lo sa? A Bangkok stanno indagando sulla morte di Ninì e i Dinosauri lo sanno. Ma non devi avere paura. Tu non c’eri, all’inizio. Abbiamo superato cose ben peggiori, fidati».
Glauco è preso dal desiderio di gettarsi a due mani sul suo cranio, ma poi si trattiene, il sangue defluisce formicolando tra le dita, un respiro profondo.
È vero, lui non c’era mentre le piazze si riempivano di persone con gli striscioni, dando alle fiamme pupazzi dei deputati e prendendo a fucilate cerchi stellati. Dov’era quando la Trinità aveva vinto le elezioni e trascinato l’Italia fuori dal pantano dell’Unione europea? Era uno studente in tempo di pandemia, quando la Trinità aveva sospeso la democrazia parlamentare e completato la campagna vaccinale in un solo semestre. Non era stata sua l’idea dei bonus statali, spesi compulsivamente dai cittadini per comprare utilitarie green, né aveva avuto lui l’intuizione di spostare il focus sul nemico cinese, aprendo la campagna di bonifica dei loro quartieri. Non c’era ancora, è vero, ma stava covando il Manifesto genetista, che porta il suo nome in calce. Le responsabilità che si è assunto avrebbero fatto impallidire chiunque. E, ora, rischia anche per via di Ninì.
Contro di te, contro il tuo popolo e contro tutti i tuoi ministri usciranno le rane.
Vorrebbe piagarsi di una punizione divina, un ammonimento. Gli basterebbero il volo di uno stormo in cielo o tre api in fila sul vetro. Un segno, solo questo.
Il sole picchia biancastro sulla scrivania, ignorando la sua fame mistica. Dio pecca ancora una volta di omissione. È questo, il suo peccato originale. L’accusatore di Dio risponda!
Vorrebbe vedere la propria casa fatta a pezzi dalla grandine, la casupola del phi che ha eretto in giardino ribaltata dal vento. Le auto esplose sotto una pioggia di fuoco, questa Nuova Europa afflitta da nuove pandemie. Un turbine su tutta Como e sulla Svizzera e nelle tane segrete, nei bunker. Il finto Rothko in salotto sventrato.
Soltanto Laura, la cameriera, il passo leggero e gli occhi viola, spera di vedere salva. La immagina venirgli incontro con la sua aura luminosa, un mazzo di iris appena colti, un grido d’aiuto. La osserva spostare ancora una volta gli oggetti.
Ultimamente la parola «salvezza» ha il suo volto.
17
La ragazzina oggi si è truccata. Ombretto scuro, le sue iridi sembrano trasparenti. Pulisce le mensole con uno straccio bianco, alzandosi sulle punte. Morena si aggira per le stanze, sembra vento nervoso, cerca una ragione per litigare.
Quando fa così bisogna starle alla larga, per questo Glauco si rifugia in cucina e apre il frigorifero. Tonno, maionese, un cuore di bue. Lo affetta con lentezza, si gusta il taglio verticale della lama che seziona pelle e polpa.
«Ho preso delle orchidee.» Morena non gli dà tregua.
«Belle.»
«Crepa.»
Quello che intende è che ha sostituito gli iris che di solito Laura pone al centro del tavolo con delle orchidee. Se n’è accorto stamattina: ha allargato i succulenti rami di Cymbidium, ha recuperato gli iris dal cestino della spazzatura e li ha rimessi al loro posto. Ora in sala risplendono le creste blu degli iris incastonate tra le vagine glabre delle sue orchidee.
Morena è appoggiata al muro, ha gli occhi lucidi, sta per crollare. Non immaginava che fossero a questo punto. Con il mento le indica la maionese: «Vuoi?».
Lei si siede a terra, prende la testa tra le mani e fissa di fronte a sé, in silenzio. Lo guarda e non saprebbe dire che cosa stia pensando: è severa? Triste?
«Mercoledì 13, in tarda serata, decidono il da farsi. Sante ha convocato una riunione a cui non siamo invitati. Devono decidere il team Nuova Europa. Ci stanno tagliando fuori, Glà.»
La sua voce è insolitamente stridula. Glauco morde il panino, la fissa interrogativo. Una goccia di maionese gli cola sulla maglietta, si impiastriccia la mano per levarla e succhia il dito: «Sei paranoica».
Lei non lo fissa più, si alza battendo le mani sulle gambe, come per pulirsi. Gli sembra un’attrice consumata.
«Saranno lui e i nuovi membri della Delegazione. Milano, via Europa Nuova 39. Niente Milizie per non dare nell’occhio.» Morena alza di nuovo la voce.
Nell’altra stanza Laura è immobile, in ascolto. La osserva, non visto, dallo specchio del salotto. Sembra un’antilope curiosa che non sospetta del loro statuto di leoni. Una piccola preda nella grande savana.
«Via Europa Nuova 39, alle ventidue. Non sono scema. Ho i miei informatori. Alle ventidue in punto, via Europa Nuova 39, no Milizie, c’era scritto.»
Non è la prima volta che vede Morena in questo stato. Tempo prima era stata certa di avere riconosciuto dei Dinosauri sotto casa. In piena notte una sua chiamata, gli strilli, l’aveva raggiunta di corsa. Quattro barboni stavano provando a incendiare stecchi di legna per scaldarsi un po’, nessun terrorista, nessuno scoppio se non il crepitare del fuoco. Avevano riso e pianto insieme, la tensione li aveva distrutti.
L’incursione del dinosauro, l’altro giorno, deve averla impressionata, deve trattarsi di questo. È strano, non sono riusciti a capire da dove sia entrato, non compare nei video di sorveglianza. Deve aver attraversato una zona cieca, non fare inquadrare la casupola del phi non è stata una buona idea.
Per Morena è diventata un’ossessione, ha fatto passare e ripassare i filmati decine di volte, strizzando le palpebre.
Non capisce come faccia a reggere gli interrogatori. «Si trasforma» gli aveva raccontato Luigino ai tempi dei primi arresti. «La chiamano la “Vespa Rossa”.» A volte sulla sua pelle rintraccia un ematoma, un livido, il segno blu della foga.
La sua donna partecipa alle torture da dopo l’attentato fallito. Un anno e mezzo fa, una raffica di mitra contro la Delegazione. Un autista morto, lei doveva essere con loro.
«Potevo morire»: un mantra durato una settimana, ripetuto battendo gli occhi, un tic di cui non si è mai liberata.
Puntare la picana durante le interrogazioni, strappare i denti con la tenaglia la ripagano della paura provata. Quando sta con lei, sente nel suo corpo l’esplosione che deve abbagliarle di piacere ogni cellula prima delle esecuzioni. A volte lo morde senza dosare la forza, lasciandogli sul collo sbreghi da vampiro.
Cerca di ricordarla prima, quando era poco più di una segretaria persa nel caos di Bangkok. Aveva preso l’abitudine di attenderlo alla fermata di Sukhumvit. Glauco si faceva lasciare al Column e la raggiungeva di soppiatto. Lei non voleva che Sante li vedesse insieme. A volte mangiavano qualcosa tra i negozi del Terminal 21, altre si prendevano una ciotola di riso saltato al primo ristorante. Si chiede di che cosa parlassero, allora. Quei giorni gli sembrano remoti e felici, il ricordo è ovattato, come non gli appartenesse. In un anno un uomo ricambia un numero di cellule pari alla sua massa corporea. Cinque Glauchi e Morene, da quegli incontri segreti, sono nati, vissuti e si sono dissolti staccandosi per sempre dal loro organismo. Nell’aria c’è la polvere dei loro momenti felici.
Come sarebbe, invece, avvicinarsi piano alla sua giovane cameriera, dirle: «Laura, prendimi», con l’angoscia adolescente del rifiuto? Il suo profilo è affilato e dolce.
Sono così differenti, le donne, quando stanno nella stessa stanza. Si fiutano di sghimbescio, celano le fauci sotto il sorriso. Sono così feroci, due donne nella stessa stanza. Morena ridispone i ninnoli nell’ordine originario mentre Laura chiude il giubbetto, inforca lo zaino ed esce di casa. I fiori, sul tavolo, vengono scossi dall’aria.
18
A volte, la notte, non riesce a dormire. Quando c’è vento, sulla sua finestra elica il salice, frustate secche che bussano al sonno. L’aria sposta le ombre, frulla nei serramenti, spinge contro i vetri.
Dalla sua stanza vede la casupola del phi. Ha fatto installare l’abitazione di legno in giardino, dove le ombre non possono colpirlo. Superstizione, ma guardarlo nel buio lo fa sentire al sicuro. Lì dentro, lo spirito veglia sulla sua esistenza.
Ci sono momenti in cui si sente morire e vaga per la città. La stessa angoscia provata a Lopburi, con la differenza che da quando si sono trasferiti a Como ha l’impressione che la notte non esista. Loro sono la notte, forse. Vicini alla Svizzera, «pronti a sparire», come Sante ripete da mesi.
Oscurità nel buio, mimetico, muove passi senza ombra, le pupille dilatate per scovare un topo veloce che dalla ghiaia rotola nel lago.
Pensare a quel pomeriggio lo scuote, si sente un adolescente.
«Posso offrirti un caffè?»
Laura è trasalita quando gliel’ha chiesto. Avrebbe giurato che si negasse, che inventasse qualche scusa, mentre lei l’ha forato con i suoi occhi viola, sul viso un sorriso trattenuto.
«Quando hai finito con il lavoro. Posso offrirti un caffè?»
L’ha portata in centro con la sua auto, sfidando le disposizioni sulla sicurezza. Voleva soltanto conoscerla, lei aprirsi. Non aveva notato l’anello, in casa porta sempre i guanti, è arrossita quando si è accorta del suo sguardo insistente sull’anulare.
«Scusami.»
Laura, ventitré anni, la mano veloce mentre mescola, mezza bustina di zucchero grezzo. Pulisce le case dei ricchi e cerca lavoro come grafica, ha studiato per questo: per trovare una forma bella al mondo. Per arrossire quando le si chiede se è brava, per rispondere «Chagall» alla domanda di chi sia il suo pittore preferito. Pensare alla poetica del volo, alla possibilità di planare su tutte le cose, librarsi con lei per mezzo pomeriggio. Risentirsi se stesso senza bisogno del buio o di spiriti in giardino.
Il lago vibra anche nel nero, l’odore umido, acre, gli infesta le narici. Le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Delle zanzare virano in ellissi rapide intorno alla luce del lampione. Anche lei, Laura, è un minuscolo insetto notturno. La potrebbe schiacciare tra l’indice e il pollice, osservarne la polpa disfatta tra le pieghe delle dita; ha l’incanto delle cose fragili. E un mistero.
Sente che gli nasconde qualcosa, il suo corpo parla attraverso altri codici. C’è, in lei, una promessa identica a quella che le madri fanno ai bambini. Evoca una ricompensa e non si astiene dal pronunciarne il prezzo.
Aspira a un posto come grafica nell’Ufficio Stampa della Trinità, gli ha detto allungando la mano verso di lui. Non l’ha sfiorato, ma improvvisamente Glauco ha avvertito l’elettricità che sprigionava quel piccolo corpo. È stata chiara sul suo prezzo: una posizione modesta, anche uno stage, che le permetta di chiudere con le pulizie e ripartire. Ha usato quella parola, «modesta», e gli è sembrata una bugiarda.
L’aria ora si sta alzando, gracida tra i rami. Anche le stelle sono scomparse. Lo aggredisce l’angoscia che il sole non sorga mai più. Da bambino sperava che l’oscurità durasse per sempre, avrebbe significato dilatare all’infinito il tempo delle sue letture. L’ombra delle mani di Sante contro il muro: «Un vuoto, l’assenza di luce» ha detto. Si sbaglia. L’oscurità ha preceduto la terra, il cielo, forse anche Dio. Laura ha un’ombra sul cuore che non sa decrittare.
Si ferma a un distributore, fruga tra gli spiccioli. Una Fanta gelata. Inizia a fare freddo, il vento lo pizzica filtrando dalla camicia. Si stringe le braccia intorno al busto, il gelo della bibita gli inumidisce il costato.
Aiuterà la ragazza e pretenderà ciò che gli spetta. L’operaio è degno della sua mercede. Morena non lo deve sapere, troverebbe un modo per annientarla. Sua madre e sua zia avevano le arnie, lo obbligavano a stare lontano dalle casette in legno. Le api operaie crescono con pappa reale più esemplari di regine vergini. È la loro lotta mortale a stabilire chi erediterà l’alveare. C’è una lunga lista di donne che Morena ha fatto eliminare. Se le immagina, la «Vespa Rossa», l’arido ventre infecondo, nello stesso ufficio con Laura, la futura sposa.
Il suo finto Rothko splende scarlatto in salotto. Ha lasciato la luce accesa in casa, dal giardino riesce a vedere ogni dettaglio delle stanze come fossero di un altro. Fissa per qualche secondo l’estraneità della sua esistenza, che adesso gli sembra sfuggita di mano per sempre.
Deposita la Fanta nella casupola del phi. Si inchina e non osa fissare il suo viso dorato. Un colpo alla rotella, l’accendino sfrigola, la fiamma illumina i doni: un pacchetto di Morositas stinto, un braccialetto di gelsomini appassiti e la bibita, immobili sotto il tetto pergolato. L’incenso ci mette qualche secondo di troppo ad accendersi, poi ecco uno sbuffo di fumo chiaro salire lento, spirare indeciso superando l’architrave, disperdersi nell’aria tagliata dai rami.
19
La nuova cameriera è corpulenta, dell’Est Europa. Si chiama Agata e ha le guance imperlate di sudore.
Morena l’ha preceduta, è arrivata presto. Ieri notte si è tenuta la famosa riunione di Sante a cui non sono stati invitati, per questo Morena, all’alba, si è infilata nel suo letto in attesa di notizie. Glauco ha finto di non essersi svegliato ma, spiandola da dietro il cuscino, l’ha scoperta vigile e immobile, come una sfinge. La luce del mattino ha irrorato la stanza dal bordo aperto dei serramenti.
Il silenzio di Morena gli avrebbe dovuto destare qualche allarme, ma la mattina presto è difficile avere tutti i sensori attivi, così si è fatto il caffè, ha cercato a tentoni il vasetto della marmellata. Quando è suonato il citofono ha aperto, convinto si trattasse di Laura. Morena si è appoggiata allo stipite, pregustando la vittoria.
«Siamo qui, Agata. Vieni che ti presento Glauco.»
Si è sforzato di nascondere la sorpresa, ma ha sentito le guance infiammarsi. Morena ha guidato Agata fino a lui, come fosse cieca, e Glauco, porgendole la mano, ha potuto sperimentare la sua stretta da pugile.
«La tua amica Laura non viene più» è stata la risposta di Morena al suo sguardo interrogativo. Ha finto indifferenza per non darle soddisfazione, mentre di là Agata iniziava ad armeggiare con la grossa sacca che si era portata appresso.
«Le Milizie l’hanno arrestata per spionaggio.» Morena voleva punirlo, forse aveva saputo del loro pomeriggio insieme. Glauco ha osservato l’acqua del rubinetto bagnargli le mani, impiastrare l’acciaio delle strisce brune del caffè. Il rivolo si trascinava dietro delle briciole di pane, mulinando verso lo scarico.
«Spionaggio? Ma pensa. Non aveva passato i controlli?»
Sì che li aveva passati, ma continuava a puzzarle, dopo l’incursione del dinosauro, poi. Lei, quelle stronzette, le fiutava subito. Si è inventata la storiella di Sante, della riunione segreta, solo per metterla alla prova. Se non ci avesse pensato lei, a proteggerlo, chi l’avrebbe fatto?
«Hai detto cazzate anche a me, quindi.»
Morena si è seduta. Gli sembrava inaspettatamente calma ma il suo tamburellare con le unghie sul tavolo presagiva un attacco violento. Finito di sciacquare la tazza, Glauco ha incrociato il suo sorriso feroce.
«Sei un poverino. Meno male che hai me, sennò…» Agata, di là, batteva con foga i cuscini. «E hai ancora la tentazione di difenderla, ma che carino. Milano, via Europa Nuova 39, sette di quegli scemi, abbiamo preso. Ci hanno condotto alle loro basi. Bel colpo ai Dinosauri. Brava Morena. Lei però, la principessa, non si è scomodata a venire. Così le hanno fatto una visitina a casa.»
«E siete certi che Laura…»
«Giovanna. Si chiama Giovanna. Qui hai tutto, mio dottorino.»
Gli ha gettato davanti al naso una tessera d’identità. Glauco ha dovuto inclinare la plastica perché la luce rifrangeva sugli occhi di una ragazzina in bianco e nero. Doveva essere di qualche anno prima, sembrava più giovane. Giovanna, quindi. La stampa lasciava un indistinguibile spessore su ogni lettera. Giovanna. Nella fotografia non ritrovava il lampo dei suoi occhi viola, né l’ammiccare timido del pomeriggio passato insieme.
Un capogiro, la testa gli è crollata avanti, poi è tornata dov’era.
Le scimmie divoravano un’altra volta l’arredamento della sua vita. Si accanivano fameliche su ogni oggetto masticando senza vergogna le cose preziose e quelle futili, azzannando le sue certezze e facendole a pezzi, digerendo e cacando sogni e pezzetti del suo corpo come frutta guasta.
Ora, alla finestra, cerca la sagoma della casupola del phi, apre la bocca per prendere fiato. Il tetto spiovente, le piccole tegole in legno. Si accorge per la prima volta che l’ombra della sua abitazione avvolge completamente la casa dello spirito.