1
Il Quartiere lo ricorda sempre rosso. Mattone i muri di cinta; cremisi le villette a schiera; amaranto il cartello BENVENUTI.
Se il primo giorno della sua storia avessero chiesto a Giovanna se si sentisse piantata con entrambi i piedi nella sua esistenza, avrebbe scosso la testa. La sua vita non era ancora iniziata. Diciannove anni e nessun figlio, ovuli buttati a ogni mestruo.
Caldo, foglie arse e accartocciate, il clic dell’otturatore. Le curve colore a Photoshop che suo fratello prova inutilmente a spostare con le dita. Più contrasto per racimolare i like. I pomeriggi rappresi in un’ora di smart studio, gli scatti agli alberi e un’oretta con Pago: qualche limone, un succhiotto da coprire. Poi, finalmente, il sesso.
Pago abitava lì da prima, ciocche scompigliate sulla fronte e occhi sorridenti anche da serio. Suo padre aveva lasciato una gamba in fabbrica, così li avevano trasferiti al Quartiere, l’ex Lazzaretto.
Loro, invece, ci hanno messo un gran pezzo a ottenere un posto. Ricorda notti intere a compilare scartoffie, ma suo fratello Gian latitava nella zona d’ombra. Neanche la disabilità riusciva ad avere per intero. «Un fallimento su tutti i fronti» ironizzava mamma. Autosufficiente? Sì. Ha un lavoro? Sì. Richiesta respinta.
Ogni volta per lei era un sollievo. Continuare la sua vita, andare a scuola con Clara, la sua Clara, non pretendeva altro. Poteva ancora permettersi aggettivi possessivi, allora. Depredata.
La casa era arrivata quando ormai non ci speravano più.
Si erano accorti subito che il Quartiere era diverso dalle aspettative, ma non se l’erano detti. Si erano taciuti l’inesprimibile alone di morte che serpeggiava tra i cespugli sagomati e le azalee. Si erano chiesti perché l’avessero sognato, inseguito e infine ottenuto, ma non se l’erano saputo spiegare.
Le anticaglie sonore di suo padre acuivano quel senso di perdita. Nel trasloco aveva recuperato la sua collezione di cd adolescenziali: Sonic Youth, Oasis, Nirvana. La mattina, però, la musica veniva erosa dal cigolio delle carrozzelle.
Gian piagnucolava, cercando di aggirare l’ennesima giornata a schiumare cappuccini. Era stato assegnato al bar in fondo alla strada, lo accompagnava lei alle nove e andava a riprenderselo alle diciassette e tre quarti. Lui usciva ondeggiando le spalle nella luce della sera. Quando era stanco, sul suo viso riconosceva qualcosa di se stessa. Si innervosiva quando accadeva. Intorno a casa, slalom tra gli storpi, i menomati, i minorati. Una gran fortuna, il sostegno statale.
Una volta alla settimana li raggiungeva un’assistente speciale. La divisa verde pisello le dava sui nervi. Si chiamava Nora, doveva avere trentacinque anni. Nora, il rossetto slabbrato agli angoli. Chiedeva di Gian, lo faceva spogliare, si appuntava i progressi. Nora, le unghie fiammeggianti. Restava da sola con suo fratello per l’ispezione e Giovanna aveva il sospetto che non si limitasse a visitarlo. Origliava i loro fruscii, presa da fantasie morbose che non riusciva ad allontanare. Detestava vedere i loro sorrisi, al termine. I suoi invece la adoravano, mamma l’aveva premiata con un articolo determinativo: «Arriva la Nora».
Prima di andarsene, Nora lasciava sul tavolo una cartellina petrolio con dentro la storia clinica di Gian. L’arrivo dell’assistente speciale era il diversivo della settimana.
2
Un figlio avrebbe cambiato le cose.
I tentativi, però, non andavano a buon fine. Alle superiori, Clara le aveva spiegato come simulare le mestruazioni. Mettere tutti di fronte al fatto compiuto, come aveva fatto Supermamma Teen, la protagonista della loro serie preferita. Clara aveva spremuto sangue di manzo dalle carcasse surgelate in freezer. O ketchup, in alternativa. Quella stronza di sua madre raspava tra i rifiuti come un segugio per assicurarsi che le fossero venute le sue cose: «Un vero incubo, qualche giorno la ammazzo e poi scappiamo».
A Clara mancavano quattro mesi al parto.
Giovanna si sollevava la maglietta e sfilava gli slip di fronte allo specchio. Una mano sul ventre teso fino ai primi peli: non pinzava che pelle. La luce grigia si incuneava tra costole e cavità. Sembrava che un’aspirapolvere la tendesse da dentro.
Cosa eccitava Pago in quelle quattro ossa, nei suoi polsi da bambina? Anche il petto stentava a riempirsi. Si gonfiava e sgonfiava come una fisarmonica. Forse gli occhi, gli piaceranno quelli.
«Nessuno ha gli occhi viola, ma tu sì» le aveva detto una volta, il primo complimento. Capitava che lo accompagnasse per lente camminate perimetrali. Il padre di Pago li precedeva, pilotando la carrozzella elettrica.
Rientravano presto, per finire i compiti. Anche Pago studiava per l’e-diploma, seguiva le lezioni a distanza la sera o la mattina all’alba. L’anno precedente era stato bocciato, se non avesse passato la maturità avrebbe rinunciato agli studi accettando quel posto nell’officina del Quartiere, dove già dava una mano.
Giovanna favoleggiava sul suo rientro dal lavoro con la divisa sporca di grasso, una carezza nera al bambino. Pago o un altro: nel suo sogno di famiglia il maschio era intercambiabile. Non i figli.
Stava tramontando il sole, incendiava il parabrezza, e lei gli aveva mentito: «Prendo la pillola».
Il suo organismo, però, la sapeva acerba e si rifiutava di germinare. Game over. Supermamma Teen avrebbe scosso la testa.
Poco male. I suoi non l’avrebbero presa alla leggera, bastava sentire cosa blaterassero di Clara. Li amava anche per questo. La nostalgia del passato, i loro princìpi irriducibili la intenerivano.
Erano venuti al mondo ai tempi dei videoregistratori. Da piccola scovava Vhs della loro infanzia da sua nonna, spiava la loro espressione di bambini: anche loro sono stati fragili. Osservare di nascosto suo padre radersi fischiettando Wonderwall le rivelava ancora il ragazzino dei filmini.
In suo fratello Gian, invece, non riusciva a scovare l’umano. Non lo portava mai a passeggio perché la imbarazzava seguirlo nella sua falcata di sghimbescio. Gli vuoi bene, si ostinava a ripetersi. Abbracciandolo cercava di soffocare l’istinto di stringerlo al collo. Temeva che sopito dentro di lei si nascondesse il seme del male.
Ora prova tenerezza e repulsione per la ragazza che è stata. Ha iniziato a vedersi. Come in uno specchio che ti spoglia. È diventare oggetto del proprio sguardo a farle male. Chiudi gli occhi.
3
«Apri gli occhi» cantilenava Clara «e prendi in mano la tua vita.» Partecipavano ai comizi della Trinità con slogan fluo sulle magliette. MATTONI DI CARNE. Determinate a generare muri di uomini e donne di domani.
A scuola si erano candidate come «preservatrici». Una preservatrice promuove progetti che restituiscano dignità di genere alla donna. Mantra velenoso. Scambi per una maternità consapevole, progettazione del futuro domestico. Avevano denunciato tutte insieme un professore reo di aver difeso il diritto all’interruzione di gravidanza. Era finito alla cassa di un supermarket.
Ora sa che il senso di estraneità che celava a se stessa era l’io lucido, cosciente, di fronte a quella porcheria. Lo soffocava come un seme nella terra, cullata dal piacere di piacere a Clara.
La Nuova Europa aveva bisogno di loro. Amazzoni uterine, più figli per il Paese. Tanti, sani, concepiti spremendo ogni giorno fertile, dal menarca alla menopausa. Le loro bacheche erano invase di immagini di neonati, tutine di ciniglia, minuscole scarpe azzurre o rosa. Le capitava di sognarlo, il suo bambino, notti a insegnargli a camminare. Sul Social spopolavano i test per capire che genere di mamma sarebbero diventate. Chiacchierava a lungo con Trinity, l’home assistant, che le ricordava quali fossero i suoi giorni fertili e la rassicurava: «Una giovane madre è una grande madre». Mamma la prendeva in giro per quell’ossessione sbandierata online.
Alla sua età, trent’anni prima, i suoi stavano ancora facendo i test d’ammissione all’università. Prole a data da destinarsi, entrata nel mondo da quarantenni. E davano lezioni di vita a loro, che a vent’anni si caricavano della responsabilità di costruire la nazione.
Anche a scuola le incoraggiavano a manifestare. I cortei per la Nuova Europa erano commoventi. Ragazzi a migliaia, una sola voce, mosaici di stories per raccontare il grande sogno. Le basi del Nuovo Impero Europeo sarebbero sbocciate nei loro grembi, gemmando una fioritura di caucasici forti che avrebbero ricevuto in eredità un mondo più pulito e un ambiente web sano, grazie al Social Unico.
Quando aveva mostrato a Pago il suo guardaroba, le magliette con gli slogan e gli striscioni riposti con cura nel cellophane, lui si era messo a ridere. La loro prima lite. Si era divertito a farla sentire stupida, «la mia bambolina» le aveva detto. Lei gli aveva tirato contro lo smartphone e l’aveva lasciato in bianco per una settimana.
Si era odiata, poi, per quella reazione. Non avrebbe dovuto far sapere a Pago che il suo giudizio influiva su di lei come la luna sulle maree.
Ora sa che non è così. Lui stava parlando alla seconda Giovanna, scorta sotto il cumulo di frasi trinitarie, parole di Clara, pensieri di altri. Stanata, non aveva più luoghi in cui nascondersi. Continuava a desiderare quello sguardo, se ne nutriva. Scoprire in sé questa debolezza l’aveva fatta arrabbiare.
4
L’idea della sua morte scava fosse nel pensiero. Ne sottrae materia, forma, e lei ci inciampa.
Ora ogni cosa le sembra remota, strappata come un molare dalla Giovanna che attraversa questa camerata. Quindi Pago dormiva qui: uno stanzone ampio, la luce dei neon scandisce lo spazio in quadranti. È la prima volta che mette piede in una «dinocaserma», come le chiamava lui. C’è il silenzio di una cattedrale: ragazzi della sua età che leggono abbarbicati su sacche colorate, materassi rovesciati, squassati dai libri. Allineati contro una parete, degli enormi monitor vecchio stile, la cassa grigia e profonda, un paio di persone le danno le spalle, facendo scorrere dei documenti in bianco e nero sullo schermo.
Qualcosa le parla di lui. È un’incisione sul muro, minuscoli tratti verticali. Li faceva sul tavolo, quando non tagliava le unghie. L’odore del legno sulle sue dita le dava pace.
I ragazzi la spiano di sottecchi. Intrusa.
Si sdraia sul materasso vuoto, accanto all’intaglio. Potrebbe averlo fatto Pago, così come non potrebbe. Le sue falangi, la punta schiacciata, i polpastrelli piatti. Vorrebbe averla qui, la sua mano. Non tutto, soltanto la mano. Per passarsela sulla guancia, sopra agli occhi. Com’è la mano di un morto? Come quella dei manichini, come le minuscole dita delle bambole. Per succhiare il suo indice, la vorrebbe. Un uomo morto diventa un oggetto.
Se ha inciso lui queste linee, le ha mentito. Sono ventiquattro, ognuna un giorno, lui dormiva dai Dinosauri il venerdì.
Ventiquattro settimane, quindi. Improvvisamente risplende come un bugiardo. Il sorriso trattenuto di quando le mentiva. Magari questi graffi non hanno un significato, potrebbero non essere nemmeno suoi. Infila l’unghia nello spazio friabile del taglio. Emerge bianca e ruvida di briciole. Lo ha toccato, per un momento.
5
Alla dinocaserma imparano a sparare come a scuola. Lei ne è già capace, grazie a Pago. Uno alza la mano: «Posso provare?».
Alle sue spalle: alto, guance morse dall’acne. Giovanna lo osserva avanzare, impugnare l’arma. Ciondola il polso, incerto.
«Fissa poco oltre il mirino. Sfocato ma lo vedi, l’obiettivo. No?»
Acne annuisce deciso. Costellazioni purulente fremono. Il colpo squassa l’aria e sfonda l’angolo del tirassegno.
«Il Comandante vorrebbe vederti» le bisbigliano. Giovanna si volta, annuisce. Gli altri la osservano uscire, poi tornano ad assistere agli spari.
Giovanna accede a un corridoio umido, fila dietro a un ragazzone strisciando l’unghia dell’indice contro il muro. Raggiungono una porta tagliafuoco: «Entra, ti aspetta».
La foschia si dipana rivelandole un giovane uomo. Ha occhi vacui e umidi. Comandante Rospo. Non è ancora al sicuro.
La soglia, alle sue spalle. Basterebbero due passi all’indietro, ballerina. Una capriola sotto il guarda porta e poi…
Lui mordicchia la penna, ora; alza lo sguardo su di lei; torna a masticare. Sul tappo il martirio dei molari. Rospo roditore. Una bestia fantastica del suo libro di bambina.
Quando Giovanna tossisce, lui sussulta. Ha qualche potere sul Comandante dei Dinosauri. Le ginocchia le bruciano, torna a sentirsi piccola.
La mia bambolina.
È passato poco dal ritiro della carta, ma vederlo scrivere a mano le ricorda il Medioevo. Gli amanuensi, lettere gotiche. Anche la luce è monacale. Una cella-sgabuzzino per chierici.
«Potevi farla grossa.»
Lo sa. Crede di piangere ma gli occhi sono asciutti.
«Potevi farla grossa a te e anche a noi.»
Lo sa, le dispiace, non chiederà di nuovo scusa.
«Possiamo fidarci di te?»
Nelle sue pupille c’è un fulgore: allora è vivo.
«Non possiamo farti tornare al Quartiere, lo sai. Prendi posto con gli altri in refettorio, ci aggiorniamo nel pomeriggio. Va’.»
Non vuole la pietà di questi disagiati. Nello stanzone due donne la squadrano, sembrano troppo vecchie per trovarsi lì. Olezzo di cavolo bollito. Un presentimento schiumoso, straccia la fame.
Suo fratello Gian sarà alla finestra, ora, con gli occhietti stretti da lumaca. È completamente sola, lì. Gian la pensa? Lo immagina al bancone del bar, a chiedersi quando tornerà.
È buio, nel refettorio, nonostante sia quasi mezzogiorno. Uno sbuffo, qualcuno si gratta una gamba. La tua vita da oggi è spezzata, si dice Giovanna. Stai camminando dall’altra parte.
6
«Come possiamo essere certi che non l’hai tradito tu?» insiste il Rospo, quel pomeriggio. Schiaccia il mozzicone, spreme fumo bianco dalla cenere. Il suo compagno tossisce, alle sue spalle, entrambi la fissano.
Il Comandante Rospo le avvicina un foglio. La firma è annientata da un tratto di indelebile. Ha dita come rametti senza nodi. Indica un’affermazione evidenziata in giallo.
«“Giovanna Crespi ci ha rivelato che Clemente Rispoli, per tutti Pago, era implicato in certi traffici. L’abbiamo fermato per un controllo di routine.” Questo verbale l’ha redatto il miliziano che hai ferito. Certi traffici?»
Lei si siede, una mano sull’altra. Sa che se lo fisserà con i suoi occhi viola lui abbasserà lo sguardo.
«Quindi? Di che traffici hai parlato?»
Non ha tradito Pago ma non può dimostrarlo. Decidessero loro. Il Comandante tossisce, copre la bocca con la punta delle dita. Uno sbuffo di fumo, regge il suo sguardo meglio di quanto credesse: «Devi spiegarci molte cose, invece. Conoscevi l’uomo che vi ha fermati?».
«Sì. Anzi, no. Sapevo chi fosse, ma non l’avevo mai incontrato. È il fidanzato di Clara, una mia amica. Lei ci ha denunciati, non io.»
Il Comandante non sembra convinto, fissa il soffitto con le labbra dischiuse. Da vicino, nella penombra, le sembra più giovane.
«Altrimenti non gli avrei sparato. Non sarei qui, adesso. Ci saranno delle registrazioni.»
Uno sguardo umido al suo compagno, che annuisce: il Rospo sembra acquietarsi.
«Prima si è riunito il Consiglio. Starai con noi per un po’. Il tuo profilo social lo gestiamo noi. Nessun contatto con la famiglia, per ora. Se siamo bravi non se ne accorgono subito, penseranno che tu sia sparita, allontanamento volontario, ci metteranno un po’ a ricostruire quello che è successo. Oggi è il 1° aprile… metà del mese?»
Gli farà da staffetta. Hanno bisogno di nuove forze per tenere i contatti tra nuclei e guerriglieri.
«Da dopo la digitalizzazione possiamo comunicare soltanto alla vecchia maniera. Niente tecnologia, immagino Pago te l’abbia spiegato. Noi usiamo questi.»
Le mostra con un certo orgoglio un minuscolo rettangolo traslucido, che gli copre la punta dell’indice: «Microfilm e microfiches, non ne hai mai visti, vero? Forse in qualche vecchio film di spionaggio».
Cerca lo sguardo del suo compagno che sorride, compiaciuto, poi riprende: «Semplici da produrre, nascondere, trasportare. Difficile intercettarli. Abbiamo una rete di consegne sempre attiva».
Sarà il loro piccione viaggiatore. Prendere o lasciare.
Il cielo, fuori, è limaccioso. Sono le tre del pomeriggio ma sembra ancora notte. Il Comandante, di tanto in tanto, fissa l’orologio, lancia uno sguardo all’insù. L’oscurità si scorge solo in parte: non c’è che una feritoia orizzontale sul cielo. È sempre mezzanotte, per il capobranco dei Dinosauri.
7
Il volto di Pago è un lapillo contro il suo cervello vigile. Immagini germogliano e seccano. Le ultime ore disperse tra i roveti della memoria. Ogni sentiero si dissolve in una parentesi d’ombra, tra la sua uscita di casa, all’alba, e l’arrivo alla dinocaserma.
Giunti lì, due ragazzi l’hanno sorretta mentre scendeva dall’auto: «Siamo amici di Pago, devi stare tranquilla».
Ritornare in vita come crollare da un dirupo. Ascoltarli dire «esecuzione»: «Abbiamo visto l’impiccagione sul Social. Pago non ha sofferto».
L’ha aiutata a spogliarsi una signora dai crini grigi e intricati. Giovanna si è scoperta incolume, ha sentito il bisogno di dirglielo: «Ho sparato a un uomo».
Sabina, così si chiama la grigia, non ha fatto commenti. L’ha aiutata a stringere l’elastico di una tuta pulita, larga e floscia.
Ritorna alla porta chiusa del ricordo. Non riesce ad andare oltre l’aria fredda, appena fuori dal Quartiere: il cielo inizia a schiarirsi ma le stelle brillano ancora. Lei di fronte a Pago: Portami con te.
Dopo, soltanto rumori, un vociare avvolgente che si miscela all’odore del carburante. L’arrivo alla dinocaserma, si riapre il cerchio: Che hai fatto?
Fuori è ancora buio, come se il sole non volesse sorgere. C’è chi piange, in refettorio. Un 1° aprile da ricordare.
Sabina prepara la cena per tutti, la sua lunga treccia grigia ballonzola contro la schiena. Le riempie il piatto di riso, un po’ più che agli altri. Le persone, lì, mangiano in piccoli gruppi. La pozza della savana. I timpani tesi a raccogliere i bisbigli, gli occhi bene aperti.
Un ragazzo tozzo, una T-shirt troppo larga ingiallita sul collo, alza il bicchiere. Strascica la sedia indietro, Sabina sobbalza.
«All’eterna notte!» brinda, ha capelli sporchi e occhi brillanti, seri nonostante le labbra ghignino. «E alla ragazza di Pago, che ha rischiato la vita per lui!»
Qua e là, bicchieri che si sollevano, indecisi. Sguardi timidi la misurano, qualcuno sorride. Arriccia la bocca anche lei.
«A Pago!» insiste il ragazzo e finalmente tutti rispondono: «A Pago!».
Poco dopo le si avvicina, parla veloce, come se avesse fretta di presentarsi. Si chiama Peppe, è uno dei due che l’hanno recuperata.
«Sono contento che stai un po’ meglio. Ti abbiamo presa per i capelli, eri quasi alla caserma viola.»
«Ho un ricordo confuso di quello che è successo. Eravamo insieme, poi Pago ha proseguito da solo verso i miliziani. È stato tutto così rapido.»
«Gli volevamo tutti bene, qui. Sei stata forte. Ci ha parlato di te, qualche volta. È uno schifo, quello che gli hanno fatto. Cazzo. Se ci ripenso… Ti hanno mostrato il video?»
«Non lo voglio vedere.»
Peppe annuisce, pensieroso. Lancia uno sguardo fuori: «Il cielo piange per Pago, oggi. Mai visto, un buio così».
Una bomba atomica, pensa Giovanna. Una nube di detriti che pioverà morte. O il sole si è spento per sempre e il mondo appassirà lentamente, coprendosi di brina. Ricorderà questo 1° di aprile, il gelo che filtra dai serramenti e le sbatte contro. Sente la Terra rallentare, è più di un’impressione. Venti ore di buio e il giorno ancora non è finito.
8
Pago le faceva trovare bigliettini bianchi nella borsa.
La carta era fuori commercio ma lui ne recuperava sempre qualche strappo dai suoi vecchi quaderni. A volte ci scriveva parole, altre tracciava una faccina felice, triste, un diavolo. Lei se li ficcava in bocca, li masticava un po’ e poi li sputava nel gabinetto. Fin da bambina aveva il vizio segreto di succhiare la carta.
Quando Clara era venuta a trovarla al Quartiere, l’aveva costretta a bruciare i suoi vecchi quaderni. Guardare l’esiguo falò seduta accanto a lei l’aveva fatta sentire storta. Si era ormai incrinato il guscio delle sue certezze.
Clara le aveva preso la mano, si ricorda ancora la sensazione a occhi chiusi. Se l’era infilata sotto la maglietta, appoggiandola sulla pancia tiepida e molle, che ancora non si era gonfiata: «Qui c’è un bambino».
Giovanna aveva pensato che, chiunque ci fosse lì dentro, non avrebbe mai imparato a disegnare, non avrebbe sfiorato la carta, il fuoco gli sarebbe parso un sortilegio. Le sembrò una ricompensa per il figlio che non voleva depositarsi in lei.
Clara era rimasta al Quartiere una decina di giorni. Dormiva su una branda di fianco al suo letto, rivedevano tutti gli episodi di Supermamma Teen e la sua amica sospirava: «Tra poco toccherà anche a me».
Si sfioravano le dita per ore, chiacchierando, chiedevano consigli su come vestire il nascituro all’home assistant, che rispondeva: «Con ogni colore della primavera».
Gian era geloso del loro rapporto, temeva che Giovanna si vergognasse di lui.
Clara fingeva di non notare i suoi spasmi, si fregava furtiva la guancia dopo ogni bacio. Aveva portato delle magliette su cui ricamare PRESERVATRICE in giallo, le avrebbero donate alla scuola. Le aveva dato una mano con la matematica, Giovanna si annoiava a morte con potenze e radici.
Mentre dettava i numeri, Clara le raccontava del suo miliziano. Roger, con mani così grandi. Roger che la accompagnava dappertutto. Roger, che se il bambino gli somiglia esce bellissimo.
Lei si distraeva. Il suo cervello non accettava i procedimenti per tentativi. Lavorava per sottrazione, sempre. Qui, invece, doveva estirpare il radicando dal terreno della matematica distillandone il valore. La radice, alla fine, la fissava gonfia di ego, attendendo di essere moltiplicata per se stessa.
9
Elevata al quadrato. Sorride al buio. Giovanna per Giovanna uguale dinosauro. Forse invece l’hanno estratta, sottraendola al substrato che le soffocava il cervello. Come una spina dal bordo dell’unghia o un tubero dalla terra nera. Ogni volta le è stato tolto qualcosa. Gian, il Quartiere, Pago. Poi, lo schianto dell’estrazione.
Era notte, la prima volta.
Era già successo che lei e Pago uscissero dal Quartiere. Non c’era alcun divieto, soltanto una distesa di prati, fossi, strade sterrate, a separarli dal mondo. Confini invisibili. Raggiungevano in moto un piccolo lago poco distante. Acque torbide insidiavano un canneto fitto di nidi e foglie secche. Spiavano le uova come tesori. «Non le toccare o non le coverà più.»
Ha conservato una piuma. È in un fazzoletto, nella sua borsa. Di tanto in tanto la estrae e passa il dito sul contorno flessibile. La ripone con cura, poi. È una reliquia bianca, con ciglia resistenti e una macchia bruna. Non ha nulla di nobile.
Era notte la prima volta e Pago si era spruzzato un profumo diverso.
Quando le restava addosso il suo odore buttava la maglia a lavare per cancellarne l’alone caldo e pungente. Le piaceva annusare la sua pelle, ma come sopportare che lui le restasse sempre addosso? Ora vorrebbe il suo aroma su un fazzoletto. Affondare il naso nell’epidermide di Pago.
A novembre il buio cala presto, era notte quando Pago l’aveva raggiunta sul suo vecchio booster: «Ti porto in un posto, ma è un segreto».
Nei suoi occhi Giovanna aveva scorto una cupa stanchezza. Gli si era agganciata al bacino, assecondando le curve. Sfrecciando fuori dal Quartiere, si erano spinti verso i campi. Sobbalzavano a ogni buca, Giovanna con il naso affondato nel suo collo per nutrirsi della sua nuova fragranza. Le stelle comparivano qua e là davanti ai loro occhi, distinguibili nonostante la velocità.
Lentamente, prima sparuti poi più fitti, i primi capannoni della periferia. Avevano scorto il bagliore di un fuoco, le strade dei poveri pullulavano di luci. Le torce dei contrabbandieri, qua e là una fiammata arancio sul viso di qualche prostituta.
La inquietava attraversare con lui quell’ammasso di baracche. A volte lottavano per gioco ed era sempre lei ad avere la meglio. Era stata la scoperta della sua vulnerabilità a farla innamorare e quella stessa debolezza la faceva dubitare. Al bar del Quartiere, quando incrociava altri sguardi, le sembrava ridessero di loro. Uomini dalle tempie brizzolate la seguivano con gli occhi, ragazzi più grandi, con il collo tozzo, ammiccavano insidiosi. Pago le faceva perdere valore. Diamante sbeccato.
Lentamente la strada aveva rivelato l’alone bianco della neve, un tappeto uniforme ferito di pneumatici. Lo stridio dei freni: si erano bloccati di fronte a un enorme prefabbricato. Era scesa a fatica dopo di lui. Pago si guardava intorno, circospetto, faceva ballare le dita sulla tasca dei jeans.
«Vieni» le aveva fatto cenno di seguirlo.
Nell’aria aleggiava un odore nauseabondo di pelle bruciata. Pago era entrato da una porta mimetizzata sulla parete. Gli era andata dietro senza che la invitasse.
Nell’oscurità Giovanna aveva visto scintillare il suo accendino. Quella fiamma non illuminava più di una decina di centimetri tutto intorno, ma poteva distinguere il suo volto. Ombre lunghe gli strisciavano dal labbro e dalle palpebre, gonfie come quelle di una rana. Il suo respiro bianco a dissolversi nel contatto col calore. Tutto sembrava solenne.
Eccolo chinarsi, la luce che si spegne. Ricomparsa la fiamma le era sembrato un altro. Gli occhi sbarrati, stringeva al petto un pesante pacco.
«È un gioco. Una specie di gioco» si era giustificato. «Ma non lo devi dire a nessuno, Giò.»
Giovanna aveva allungato il braccio fuori dal cono di luce, fino al fagotto, ritraendola di colpo, come se si fosse scottata.
Quella notte non era riuscita a prendere sonno. Sentiva ancora sotto le dita il tagliente piacere della risma di carta. Al suo posto, Clara l’avrebbe segnalato come ogni buona preservatrice.
10
La mattina dopo, il Social era invaso dalle immagini dei volantini. C’era chi si scattava selfie, chi pubblicava stories calpestandoli. Anche Clara, goffa come ogni gestante, ne accartocciava uno e lo gettava alle spalle. Giovanna aveva osservato quel gesto ripetersi in un loop eterno, sentendo montare il panico.
Perfino il «Quotidiano Unico» ne parlava:
36 alberi: il prezzo della ribellione
Lo strano risveglio del Distretto 15, invaso dai volantini
Non succedeva da più di dieci mesi. Questa mattina i cittadini di Via Larga del Distretto 15 hanno ricevuto una macabra sorpresa. Centinaia di volantini antigovernativi sono stati gettati per la strada durante la notte. Si stima che per produrre la carta siano stati abbattuti circa trentasei alberi. La mattanza non si ferma.
Aveva continuato a scorrere, per accertarsi che non si parlasse di loro, mentre il telefono iniziava a vibrare: Pago. Rifiuta chiamata.
Doveva fare qualcosa, occupare la testa. Si era messa a stirare.
Le moto erano due. Poi quattro. Vapore. Un calzino.
Era stato un ricatto, come sarebbe potuta tornare a casa sola, con la neve e quelle brutte facce per la strada?
Pago, Clemente Rispoli, ventitré anni, operaio. No, non povero, nessuno scarto di classe. Neanche ricco, famiglia di lavoratori. Padre mutilato.
Un fazzoletto per proteggere il cotone: la piastra spiana il tessuto.
Se l’avessero interrogata, avrebbe giurato che non ne sapeva niente, l’aveva seguito in buona fede.
Piegare una manica, poi l’altra. Odore di amido.
Lui le aveva proposto un accordo: se l’avesse aiutato, l’avrebbe riaccompagnata a casa. Bastava mollare i fogli un po’ alla volta, mentre lui guidava nel buio. Sapeva bene che la carta era proibita ma cos’altro avrebbe potuto fare?
Lana ruvida, poco ammorbidente.
Non aveva letto ciò che c’era stampato sopra, li aveva lanciati e basta, uno dopo l’altro. In piazza avevano raggiunto altre tre moto. Otto persone per coprire l’intera area del Distretto.
In realtà, uno di quei volantini se l’era ficcato in tasca e aveva continuato a fissarlo di nascosto, la notte: #NOINONCISTIAMO.
Sapeva bene a cosa si riferisse. Da qualche mese la Trinità accennava a un conflitto imminente. Non avevano rivelato contro chi, o che cosa, forse alludevano alla Cina. Unica certezza, il Paese era in pericolo.
Demetrio, il leader trinitario, aveva condiviso un selfie di fronte a un murales. Rappresentava un fucile, dipinto sopra la scritta SE CI STATE, NOI CI STIAMO.
Aveva aperto le danze degli hashtag #noicistiamo.
Sul volantino, nell’angolo in basso, una macchia nera descriveva una curva, poi si riempiva e in fine si allungava in una punta. Una coda. Ad allontanarla, l’icona rivelava la sagoma di un brontosauro nero in campo rosso. I Dinosauri.
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Pensare a Pago insieme ai Dinosauri la stranisce ancora, le resta incollata la sua esuberanza da ragazzino. Forse tutto era iniziato come un gioco.
Da piccola, prima del dispiegamento delle Milizie, gli oppositori del governo si erano fatti violenti. Poi il virus, le misure restrittive e qualcosa di interrotto nel circuito della normalità.
Ne aveva solo un ricordo vago. Le immagini di un televisore al plasma: l’esercito contro uomini con il passamontagna che lanciano bottiglie esplosive. La polizia, l’angoscia di un supermercato affollato, sua madre che le ordina di non allontanarsi. Anni turbolenti, evocati soltanto in sogno. La mattina le restava addosso un’ombra nera, un’inquietudine estranea che si portava appresso tutta la giornata.
In pandemia la Trinità aveva promesso agli italiani più sicurezza, dando una stretta ai controlli, soffocando le proteste. Ministri in divisa scelti tra l’esercito, i bicipiti sfoderati riempiendo di poliziotti viola le città, sganciando centinaia di camionette per le strade. Milizie della preservazione.
I primi sguardi ai pantaloni, lei e Clara li hanno tirati ai miliziani. Le cotte, le camminate sghembe per mano, leccando il gelato: in fondo alla via c’era sempre un giovane poliziotto splendente nella sua divisa viola. Quando una squadra pattugliava la scuola, si dividevano i soldati tra compagne. Lei optava per le spalle più larghe, non aveva idea di cosa l’avrebbe tormentata in un uomo.
L’avrebbe scoperto tempo dopo, conoscendo Pago.
Ora ripensa ai suoi occhi, l’inclinazione di quello sguardo che già inizia a sfocare. Era stato il primo essere umano in cui aveva riconosciuto se stessa. Con lui parlava una lingua che sentiva macerata e sepolta, sconfitta dalle chiacchiere di Clara, dal blaterare sintetico di Trinity. Una voce antica, che non voleva arrendersi nonostante lei provasse a soffocarla.
Non capiva perché Pago le desse fiducia. Aveva visto le sue magliette da preservatrice, era l’ultima persona con cui avrebbe dovuto esporsi. Ama pensare che anche lui avesse scorto in lei un simile. Tempo prima, al lago, le aveva letto una poesia.
Morire come le allodole assetate
sul miraggio.
O come la quaglia
passato il mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha più voglia.
Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato.
Giovanna fissava la sagoma scura di un uccello sconosciuto. Restava immobile sul ramo, di sasso.
Aveva evitato di incrociare il suo sguardo mentre lui ripeteva: «Ma non vivere di lamento come un cardellino accecato».
Dita che si toccano, lo spazio di un silenzio. Non avevano fatto l’amore, non si erano parlati fino al Quartiere. Muti, i pensieri coperti dal rombo del motore, oscillanti nel vento che iniziava ad alzarsi, sferzando contro i loro corpi, facendoli rabbrividire.
Tuttavia, Giovanna non si era mai sentita tanto vicina a qualcuno come quel pomeriggio, accanto a lui. Stretta alle sue costole, un orecchio sul suo cuore, quella sera gli avrebbe detto «ti amo» per la prima volta.
12
Lì, chi conosceva Pago parla di lui al passato. Lei non ce la fa, le sfugge sempre un presente. In questo modo continua a esistere nel verbo.
«Pago è con voi da molto?»
«Andava e veniva, partecipava agli incontri e a qualche spedizione. Ci parlava di te.»
Non la consola. Ora capisce meglio quello che intendevano agli incontri sulla resistenza attiva: nulla colma una perdita.
Ce l’aveva portata lui. Le riunioni dei «simpatizzanti» si tenevano in un capannone poco distante da dove avevano recuperato i volantini. Tutta l’area sembrava un immenso formicaio di ribelli. Vietato dire il proprio nome, banditi i cellulari, gli smartwatch, qualsiasi aggeggio li rendesse tracciabili.
Le parevano messe: la sala gremita e silenziosa. Una liturgia segreta di letture e sermoni. Un sedimentare di ovvietà buoniste sulla direzione che stava prendendo il Paese, sull’impegno di domani, sulle insidie del web e del Social. Altra retorica, non ne aveva bisogno.
Pago le aveva raccontato che quegli incontri si tenevano in segreto da quando le Milizie avevano bruciato la vecchia sede dell’Associazione Umani. La Trinità si era appena insediata e le Milizie erano state statalizzate da lì a poco. Tutti a postare un articolo sul Social, un’immagine del rogo in diretta, tutti pro e tutti contro, in una baruffa di post.
Ma lui, loro, avevano deciso di non ristagnare in rete: «Il Social fa questa cosa, spacca le idee in due. Mosche a sbattere di qua e di là dal vetro, senza affrontare mai quello che conta. Senza vedersi o scontrarsi davvero. Tutti felici per aver gridato la propria opinione, per aver scelto la barricata giusta. E poi? Dopo che si fa? Ci stanno lobotomizzando».
Non ha mai rivelato a Pago di aver aiutato Clara a creare la pagina La mia Milizia, sosteniamo chi ci difende. Erano ragazzine indecenti, inebriate dall’astio. Un’adolescenza intera a sentirsi agita da forze estranee, latenti. Le hanno insegnato che odiare ha un sapore dolce. Era raggiante quando affondarono l’ultima Sea Watch. Applaudiva alla finestra con i compagni mentre venivano espulsi i ragazzini cinesi dalla loro scuola. Ricorda una sensazione simile all’euforia e al dolore. Un’emozione per ventricolo, ognuna distinguibile. La loro diretta sul Social: «Virus cinese, torna al tuo Paese». L’avevano gridato tutti insieme, battendo le mani a tempo.
I distributori degli snack svuotati, all’intervallo, per saziare una fame immensa, mai provata prima.
13
Anche lei leggeva poesie, prima di arrivare al Quartiere.
Si sedeva al bar fuori scuola e sfogliava Emily Dickinson e i suoi grammi di cielo; Wisława Szymborska in autobus, cingendo la cartella. Si è sentita tradita presto dal dolore e dall’incanto. I poeti promettono di spogliare la vita rivestendola.
Guardava Gian, i suoi in affanno. C’erano la scuola e l’angoscia nell’incrociare lo specchio. Il suo dolore non aveva nulla di nobile né nudo, né agghindato. Stingeva, banale, di fronte a un like. Non ha mai avuto un cuore di poeta.
Clara, il giorno del falò, aveva gettato nel fuoco tutte le sue raccolte. Pago osservava il rogo da lontano, serio. Non avergli mai detto «Le conosco già, le tue poesie» è il suo grande rimpianto.
La mattina successiva Giovanna l’aveva cercato a casa, senza successo. Voleva spiegargli che quel fuoco, quella cenere, appartenevano a Clara, che l’aveva assecondata per non doverle spiegazioni. Doveva fargli sapere che lei era ancora la ragazza che lui, e lui soltanto, aveva scovato.
In officina non l’avevano visto, al bar all’angolo nemmeno. Finalmente, all’imbrunire, l’aveva scorto risalire la strada, ciondolante sulle ginocchia. Quando gli era corsa incontro, lui aveva mascherato un sorriso: «Allora esisti».
Pago aveva un progetto poetico. Nel suo garage, millesettecento cartoncini abusivi formato A5, con stampati stralci di Nazim Hikmet, Davide Rondoni, Alda Merini, Franco Arminio, Federico García Lorca, Antonia Pozzi, Pablo Neruda, Umberto Saba, finanziati di tasca propria. Epoche, luoghi, memorie diverse. Morti e viventi, hashtag #poesiaribelle.
«Ci dicono ogni giorno che cosa pensare, ora vediamo se riusciamo a svegliarli.»
Giovanna si era offerta come aiutante per farli volare nel distretto. Scorrazzando fino all’alba, avevano innevato tutta l’area. Sulle panchine, sui lampioni, sulle scale e nei cestini della spazzatura si erano appoggiate le parole.
Così, la mattina, c’era chi postava sul Social, accanto al cappuccino, «Coltiva il tuo rigore e lotta / fino a rimanere senza fiato. #poesiaribelle».
I siti di notizie li avevano ignorati, ma le fotografie online si moltiplicavano. Pago le inviava gli screenshot, eccitato: «Stiamo rimettendo umano di fronte a umano».
In corsivo, sotto a un selfie a filtro baby: Imparo che la giovinezza non corre / nelle sorprese del sangue / ma nello sguardo che un vento / strappa da terra / per vedere in questo duro paese / l’infinita somiglianza tra Dio / e il viso di lei tutte le sere.
Ci avevano provato di nuovo, due notti dopo. La poesia li avrebbe salvati, si ripetevano. Quello, secondo Pago, era stato il loro peccato originale: tradire il verbo. L’esplosione di condivisioni gli aveva infuso una nuova energia. Il suo sorriso, però, si incrinava quando i post sul Social sembravano sporcare quei versi.
Non sapevo che nascere folle / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta: nella story un quarantenne calvo, il biglietto esposto sotto gli occhi incrociati e la linguaccia. #4everfoolish.
Sarebbe bastata una semina settimanale, ipotizzava Pago. Parlando del progetto poetico si faceva sempre serissimo: «Se tu sei con me, possiamo riuscirci».
Ma ancora, nel profondo, tremerà / il palpito lontano delle ali sorelle / e si convertirà / in nuova ansia di volo. Il tatuaggio di due rondini sulle ossa del bacino. Il pizzo di uno slip.
A volte, come una moneta / mi si accendeva un pezzo di sole tra le mani: una influencer regge il bigliettino al tramonto, sugli abiti i tag degli sponsor.
Me al largo / sospinge ancora il non domato spirito / e della vita il doloroso amore sotto un tizio grassottello, travestito da Cupido.
«Hanno rovinato tutto.»
Pago aveva preso a calci il vecchio sacco da boxe appeso in cantina. Aveva la fronte bagnata, il sudore gli striava guance e collo. Quella purezza accendeva in Giovanna uno strano istinto di protezione.
«Sono post sul Social, cosa ti aspettavi? Pensa a quanti hanno scoperto la poesia.»
Lui aveva chiuso la questione, deluso: «Il progetto poetico finisce qui. Dobbiamo crescere. Non si combatte con la poesia».
14
Deve avere contribuito anche quella piccola delusione a spegnere il suo incanto. La fiamma che prima lo illuminava ora sembrava consumarlo. Tutto il suo corpo iniziava a rapprendersi intorno a una strana febbre, si stava imbruttendo, rabbuiando.
Nel suo zaino, Giovanna aveva intuito la forma di un oggetto metallico e pesante. Una pistola. Pago si era deciso a rivelarle di non essere soltanto un «simpatizzante» dei Dinosauri, ma un membro attivo, parte del corpo armato. Si era affiliato a loro ben prima dell’arrivo al Quartiere.
Aveva scelto di iscriversi alla scuola professionale quando al classico erano apparsi i libri sconsigliati per l’estate. Nessun professore si era ribellato. Non era il mondo in cui aveva scelto di vivere, come poteva esultare per il ritiro della carta, per un’esecuzione social, come poteva chiudere gli occhi davanti alla cesoia della digitalizzazione? Al governo stavano elaborando traduzioni ufficiali di migliaia di autori per fissarne la voce online in modo allineato. L’eutanasia del pensiero, ripeteva: «Un elettroshock su larga scala».
Giovanna lo scrutava: le spalle strette, le piccole braccia scarnificate, lo sguardo da bambino allucinato. Si era accorta per la prima volta di amarlo come un suo osso, un orecchio o qualsiasi pezzetto di se stessa. «Portami con te, portami dai Dinosauri.»
Nei giorni seguenti lui non si era più fatto vivo. Giovanna non aveva osato cercarlo. «Pago…» chiamava di notte, sottovoce, sperando che tornasse. Si sentiva legata a lui come allo stesso polo di un magnete: respinta e attratta nell’inganno dell’equilibrio. Il suo torace secco, la spina dorsale gnoccuta e i ganci delle costole. La tormentava l’assenza del suo corpo.
Da qualche mese sulla pagina Social delle Milizie venivano giustiziati in diretta i ribelli. Fanculo alle convenzioni di Ginevra: nella Nuova Europa chi sbaglia paga. Un e-referendum aveva sancito la fame di sangue del Paese. Agli attivisti contro la pena di morte appostati fuori dal Parlamento, Demetrio aveva chiesto se preferissero che a quegli assassini venisse offerto un aperitivo. Pioggia di like.
Ricomparso dopo quasi una settimana, Pago l’aveva obbligata ad assistere a un’impiccagione: «Capisci perché non voglio portarti con me?».
Lei si era arrabbiata, non poteva obbligarla a guardare. E invece, a detta sua, solo guardando avrebbe capito a cosa la esponeva. «Adesso apri gli occhi, cardellino.»
Non le avrebbe mai fatto conoscere i suoi compagni di persona perché era certo che lei, per salvargli la vita, avrebbe potuto denunciarli. Tra di loro vigeva una gerarchia muta. Lui era al piano superiore degli irriducibili. Sarebbe morto pur di non tradire i suoi ideali, avrebbe lasciato uccidere anche lei. Giovanna, invece, doveva accontentarsi del livello degli appassionati, che non contemplano il sacrificio. Lei pensa che in realtà si trattasse soltanto di dimensioni diverse dell’ego.
Un paio di giorni insieme, lui che le insegna a sparare con il silenziatore. Un proiettile colpisce una ninfea. Sfalda la foglia, l’acqua gorgheggia.
Voleva che si sapesse difendere ma poi l’ombra alla finestra della sua camera si è trasformata in quella di un uomo: suo padre. Girava per le strade cercandolo, in bilico sulle stampelle. Giovanna lo ricorda la mattina presto, seduto da solo nel garage aperto: «Giò, sai se Pago sta bene?».
«Non so dove sia.»
Rientrata in casa, si era seduta accanto a sua madre e aveva dato fondo a una vaschetta di gelato. Panna e cacao. Mamma e Gian ridevano, intanto, per le battute sulla razza che Demetrio, tronfio di fronte alla conduttrice, ripeteva ammiccando verso la camera.
15
Peppe la tira in un angolo, ha qualcosa per lei. Le mostra un articolo su un tablet, con un’aria da cane malandato.
Distretto 15, parla Roger, il miliziano ferito:
«È stata una ragazza».
È stato dimesso ieri l’agente Roger H., ferito nel conflitto a fuoco all’alba del 1° aprile in cui ha perso la vita un suo commilitone. Tanta paura, ma fortunatamente soltanto una ferita superficiale alla gamba. «È stata una ragazza, era armata.» L’agente è stato ferito dopo aver perquisito il ribelle Clemente Rispoli e il clan di criminali legati ai Dinosauri, la cui esecuzione è stata trasmessa il giorno stesso. Quando Rispoli ha aperto il fuoco, il miliziano Roger l’ha prontamente bloccato ma una complice, poco distante, avrebbe esploso alcuni colpi.
«Abbiamo dei sospetti, stiamo indagando nella cerchia di Rispoli» conclude con un sorriso, senza aggiungere altro. La Trinità ha conferito una medaglia al valore a questo eroe delle Milizie e alla squadra che con lui ha fermato i terroristi. Roger H. tra un paio di mesi diventerà papà.
Giovanna glielo restituisce e si accorge che il viso di Peppe si sta annerendo, l’immagine prosciugata e ritratta. Deve sedersi, respira a bocca aperta, come un pesce.
«Ormai sanno che sei stata tu.»
Si immagina Clara accarezzarsi il pancione in una piccola stanza, passandosi tra le mani la medaglia di Roger.
«E io so che sono stati loro» risponde a Peppe, che la guarda senza capire.
Non vedeva Pago da quasi un mese quando Clara era passata a trovarla. Settimane barricata in casa, fingendo di studiare, lo sguardo puntato sulla finestra di fronte, sapendo che non sarebbe tornato.
Clara le era parsa gonfia, invecchiata. La pancia come un fungo atomico. Aveva organizzato un weekend alle terme soltanto per sfoggiare la sua fertilità. Venere di Willendorf, una dea fiacca e arrogante a spalmarsi fango intorno all’ombelico, muggendo al bambino. Aveva chiesto anche a Giovanna di dirgli qualcosa.
Scappa.
Tutto di lei, ora, le sembrava puerile. Non aveva anticorpi per questo: le risate di Clara, le battute su Roger e il fascino della divisa, il parlottare sommesso all’animaletto che nutriva in qualche sacca delle viscere, ogni parte di lei aggiungeva carica alla sua voglia di fuggire.
Ma dove andare? Era incastrata in una vasca termale, bloccata per sempre nel limbo in cui Pago l’aveva abbandonata.
Non ricorda di preciso cosa le raccontò, quando le chiese di lui. Sa di averle detto di non sentirlo da un po’, non le piacevano i suoi traffici.
Se n’era resa conto subito: l’espressione di Clara mutata da dietro la cortina di vapore, il suo allungare il collo come un’enorme oca bianca. Le si era appollaiata accanto: «Devi stare attenta».
Le sue mani le avevano accarezzato i capelli umidi, facendole male.
16
Il Comandante l’ha portata con sé a una consegna. Si fida di lei e probabilmente gli piace. Le punta addosso i suoi occhi sporgenti. Con loro c’è anche Peppe, unge l’atmosfera. La chiamano «Laura», le hanno affibbiato il nome di una staffetta arrestata un mese prima. Non è di buon auspicio.
Alla luce del giorno sembrano meno pallidi. Non saprebbe dire cosa la ripugni in loro. Questi due giovani uomini guidano, complottano, ridono facendole una corte segreta. Credono di comprendere i suoi meccanismi elementari, di stringerla nel pugno. In nessuno, alla dinocaserma, ha visto la fame che scorgeva in Pago, il suo scintillio. Cercano entrambi il suo sguardo nello specchietto, gongolando.
«Ho festeggiato quando hanno iniziato a espellere i cinesi. Avevo diciassette anni.» Il Comandante sterza, brusco, Peppe si volta verso di lei, senza capire. Giovanna guarda fuori dal finestrino, si gratta il collo.
Parcheggiano su un marciapiede in via Tabacchi, poi proseguono a piedi. Milano è il solito labirinto. Oggi dovrà gestire lei la consegna.
Una bicicletta agganciata a un albero: Peppe fa un cenno con la testa, le porge la chiave del lucchetto. Sulla sinistra, in fondo, c’è un bugigattolo dall’insegna luminosa, l’icona di un Buddha fa l’occhiolino.
Si fermano tre vetrine prima, Peppe scuote la testa: «Noi non entriamo. Vai dentro e chiedi se è pronto il tuo ordine. Ti consegnerà un borsone con quello che ci serve. Lo ritiri e vieni alla bici. Non aprirlo, per nessun motivo al mondo. Tutto chiaro?». Parla come a una bambina. Il Comandante soffia fumo, guardando altrove.
Giovanna parte decisa, senza annuire. Non si ferma a controllare se ci siano Milizie. Avanti, senza indugi, ancora: apre la porta.
Dentro c’è un odore che aveva dimenticato. È rancido, carcasse speziate. Al banco una orientale. Ha i capelli rossi, tagliati corti. Un’anziana le indica dei noodles dietro al vetro. C’è una ferocia pacifica e asettica nella sua scelta, una belva che seziona la preda: «Se mi dà quello, mi levi i gamberi. Senza uovo non ce l’ha? No, io mangio solo il manzo. Sì, mi piace solo il manzo».
Si immagina il manzo enorme, ritto in piedi, scegliere tra i suoi vecchi organi. Aspetta che l’anziana sia uscita e la porta si sia chiusa completamente. L’istante è eterno, ma poi passa.
«Vorrei il mio ordine.»
L’orientale la scruta per un attimo. Sembra non capire, forse finge.
«Ha parlato con mio marito?»
«Devo ritirare il mio ordine.»
La donna tradisce un secondo di scaltrezza, Giovanna la osserva piegarsi sotto il bancone e riemergere con un ingombrante borsone quadrato, senza loghi. Sembra uno zaino da rider, per consegne a domicilio.
«Il suo ordine» annuisce l’orientale passandoglielo, con un ché di volpino. Giovanna esce accompagnando la porta. Lo zaino è pesante, le curva indietro la schiena.
Si accorge dell’assenza del Comandante e di Peppe quando è quasi alla vetrina dove li aveva lasciati. Neanche la bicicletta c’è più. Auto, viale, l’aria spostata da un tram: l’hanno lasciata lì.
Cammina più rapida, cercando di battere la traccia invisibile dell’andata. Le ombre degli alberi le macchiano la fronte. Non ha mai avuto senso dell’orientamento: hanno costeggiato un naviglio, oltrepassato un ponte, tutto si mescola. L’aria le sferza la gola. Deve rallentare, la gente inizia a squadrarla. Una donna o una ragazzina, avrà le guance marezzate ora, sembrerà un’anarchica incapace o una rider inesperta? Solo raggiunta Porta Genova capisce che cos’abbiano tutti da fissare. Il suo zaino, di tanto in tanto, gocciola un rivolo scarlatto simile al sangue.
Si siede, deve riprendere fiato. Le possibilità sono tre. La prima è che Peppe e il Comandante siano stati arrestati. Improbabile. La seconda, possibile, è che l’abbiano lasciata lì per metterla alla prova. Teme la terza: essere stata scaricata.
Nello zaino, forse, c’è la risposta. Svolge piano l’ecoplastica sottile, il succo rosso le gronda sul dorso della mano, poi dall’avambraccio fino al gomito. Gamberi e funghi galleggiano in una zuppa densa, che ha imbrattato anche gli altri pacchetti. Le pizzicano le narici, un effluvio speziato e fastidioso. Ci sono altri quattro pacchi, scintillanti di condensa. Forse la stanno prendendo in giro. Giocano con lei come con una bambina.
Bambolina.
«Ha bisogno di aiuto?»
L’orlo dei suoi pantaloni è viola scuro, riflette la luce. Ha una mitragliatrice appesa alla cintura e, più su, un sorriso buono e fuori luogo. Il miliziano la aiuta ad alzarsi.
Deve sorridergli imbarazzata, guardarlo negli occhi una volta sola. È così giovane da non poter essere cattivo. Ha mani troppo grandi, tasta il suo palmo, le dita ruvide. Stringe deciso e forte, come ci si aspetta da un uomo della Trinità.
«Sto bene, grazie. Ho chiuso male lo zaino, che scema, ma ora ecco, tutto bene, se lo prendo così.»
«Posso chiederle un documento?»
In mezzo ai noodles potrebbe esserci qualcosa. Un messaggio, un microfilm. Munizioni. Avrebbe dovuto controllare. Il corpo del ragazzo non le lascia spazio, la fuga è esclusa. Fruga a vuoto nel borsello, lui fa scudo.
«Non li trovo. Sono uscita di corsa.»
«Chiami qualcuno, posso aspettare.»
Non ha neanche uno smartphone, lui inarca il sopracciglio, un ghigno di scherno. Non sa dire se sia minaccioso.
«Mi segua.»
Cammina al suo fianco ciondolando lo zaino. Le ha appoggiato una mano sulla spalla, preme con le dita. Ora gli occhi di tutti sono davvero su di loro. Mentre avanzano, le chiede le generalità. Laura, mente, e si inventa un cognome.
«Laura Diana.»
Lui ride: «Diana è il nome o il cognome?».
La carica su una piccola auto color melanzana senza lampeggianti, le dice di tenere lo zaino sulle ginocchia, bene in vista. Si sente anche lui un’utilitaria delle Milizie, si intuisce da come abbia rinunciato ad atteggiarsi. Gli basta quel ritaglio di potere per sentirsi realizzato.
«Si metta questa, Laura Diana» dice, porgendole una mascherina per gli occhi.
«Non ho sonno» sorride lei.
«È la procedura.»
La indossa, indecisa. Mostrarsi titubante può darle potere.
«Ora mi dice il suo vero nome, perché una ragazzina se ne va in giro senza smartphone e documenti e chi sono i due che l’hanno scaricata lì.»
Ragazzina. Deglutisce a vuoto, ingoia aria secca.
«Diana Laura, mi chiamo. Gliel’ho già detto. Mi faccia scendere.»
«Lei mi dice chi sono le persone che erano con lei e io accosto. Non me lo dice e la porto in caserma. È facile.»
Ragazzina, gliel’ha suggerito lui. Potrebbe singhiozzare, chiudersi a riccio come ogni adolescente. Questo miliziano ha un buon odore, lo aspira a fondo. Usa un deodorante dozzinale ma, da qualche parte, la punge un’inattesa promessa d’uomo. Deve fare attenzione.
«Non ci stanno simpatici gli amici dei Dinosauri» sentenzia lui, se lo vedesse in viso scoprirebbe se c’è dell’ironia. Potrebbe appoggiargli una mano sul ginocchio, fingere di cercare un accordo. Non è più certa del suo sorriso buono.
«Si rimetta la benda.»
Giovanna non obbedisce, la luce la abbaglia prima che torni a vedere. Stanno costeggiando il canale, poche auto, il tram li obbliga a marciare lenti. Ce la può fare. Afferra il volante, tirando verso di sé. Lui controsterza, le lancia una manata: «Cosa fa?».
L’auto sbanda, colpisce il paraurti di un furgone. Una botta alla spalla, il ragazzo ulula quando lei schizza fuori.
Clacson, il cuore sembra esplodere, Giovanna stringe lo zaino mentre cerca una via di fuga: una strada laterale, l’acqua.
Dei fari la abbagliano, è l’auto dietro la loro. Peppe apre la portiera: «Sali, svelta!».
17
Pago le aveva ripetuto mille volte cosa fare se li avessero fermati. Di tanto in tanto scorgevano una volante in lontananza. Avevano sempre un paio di bottiglie di vodka da farsi sequestrare: un piccolo mea culpa per deviare i sospetti. Niente panico.
Il Comandante e Peppe l’hanno presa in giro, rientrando. Se facessero fuori un’auto delle Milizie a ogni esercitazione, i trinitari ora andrebbero a piedi.
«Quella è la prima prova» le ha spiegato Sabina «il gioco del takeaway testa il sangue freddo dei novellini.»
Lei non ne ha avuto, ma almeno ha recuperato lo zaino, non ha rivelato informazioni sensibili.
«Abbiamo degli amici nelle Milizie. Quel ragazzo era un affiliato. Sei la prima che gli disfa l’auto» le spiega Peppe, quella sera. «Sei stata coraggiosa, ma di un coraggio stupido. Non devi essere così impulsiva.»
Il panico provato ha allentato il nodo dei ricordi.
L’alba del 1° aprile, memoria tattile e olfattiva. La consistenza rigida, ghiaccia, dell’arma, la resistenza del grilletto. L’odore di campagna che si riempie del pizzicore dello sparo.
Era ancora notte, camminava insonne per la stanza e si era accorta di lui: Pago con un giubbotto largo, il cappuccio alzato, nel giardino di fronte.
Trovandosela davanti aveva sobbalzato. Vai via.
Giovanna gli si era stretta addosso: Vengo con te. Abbracciarlo e poi strattonarlo, trattenerlo, fino a che lui non le aveva fatto cenno di seguirlo. La moto parcheggiata poco più in là, salendo Pago le aveva passato una pistola. Le aveva chiesto di nasconderla sotto la felpa, tenersela sempre addosso.
Gli altri li attendevano fuori dal Quartiere: due scooter, i caschi abbassati sul viso. Li avevano preceduti, tanto più rapidi di loro che Pago si era potuto arrestare a un centinaio di metri dal posto di blocco che li aveva fermati.
«Resta qui.»
Lei gli avrebbe dovuto impedire di raggiungerli. Tutto muta per una variabile, il battito d’ali di farfalla, le storie in cui qualcuno torna nel futuro. E trasforma le cose.
Pago era sparito dietro un angolo di strada. Il freddo iniziava a pungerla, si era tirata le maniche sulle dita, ci aveva alitato per scaldarle.
Due colpi, a distanza di qualche secondo.
Giovanna era corsa d’impulso verso di loro. Ricorda un miliziano chino su un compagno, steso a terra. Gli altri le davano le spalle, curvi su tre ragazzi. Non ha memoria di alcun suono.
Vederlo lì: Pago schiacciato dalle ginocchia viola, i palmi a proteggere il viso, una gamba ad agitarsi contro l’asfalto.
Il suo corpo aveva deciso per lei. La sua mano si era mossa cercando l’arma sotto la felpa, il suo braccio si era teso. Uno sparo solo, quello di Giovanna. Il tempo di vedere uno dei viola scuotersi, un grido mentre lei fuggiva. Il mondo era tornato sonoro.
Nei suoi sogni Pago ha addosso una maglia verde, sgualcita sulla manica. Le sorride alzando il braccio, lo trova stanco e spolpato.
Anche lei alza il mento in saluto. La città si muove più veloce di loro, per raggiungerlo dovrebbe attraversare ma le auto sono bolle che la avvolgono. Allora lo chiama: «Pago».
Eccolo farsi serio, fissarla stringendo le labbra mentre inizia a piovere. Lei resta asciutta mentre a lui l’acqua inzuppa i capelli. Gocciola sulla maglietta, segna le spalle ossute e il petto scarno. Lentamente Pago si scioglie. Prima perde un orecchio, poi gli si sfalda il naso. Come sabbia, la sua testa crolla in un colpo. Le spalle si sbriciolano e scivolano giù. Lei, bloccata, può soltanto chiamarlo di nuovo: «Pago».
«Sono dei martiri. I nostri eroi» ripetono qui. Pensare che la fine di Pago sia stata invece utile, non epica ma necessaria, in un Paese che ha fatto dell’inutile un pregio, le dà forza. Quando sente le lacrime spuntare le spinge indietro dicendosi: «È servito» come avrebbe voluto lui.
Il Social, però, non le dà ragione. A ogni nuova impiccagione smile con la trombetta, commenti pieni di giubilo, Gif di Demetrio con il dito puntato: «Ti abbiamo preso». Migliaia di commenti a chiedere la testa dei ribelli, orde di casalinghe che invitano a sputare sui cadaveri.
18
«Io sono entrato nei Dinosauri dopo essere stato sull’isola dei cinesi, a Pantelleria.» Peppe glielo racconta a cena, nel grande refettorio. Mangiano pinzando dei fascicoli, vorrebbero gettarli dall’alto su Milano ma non sanno ancora se ce la faranno. «Una porcheria, devono sapere tutti cosa fanno a quella gente. È lì che ho conosciuto Cesare.»
Quando qualcuno nomina questo Cesare, il Comandante Rospo storce il labbro, cambia argomento. Tutti se ne accorgono, c’è sempre qualche sorriso malizioso.
Peppe le racconta di quando lui e Cesare erano miliziani: «Insieme ci siamo arruolati nei viola, insieme ne siamo usciti. Per unirci ai Dinosauri. Cesare ha trecento uomini, abbiamo fatto più noi in qualche mese che questi in quattro anni. Le cinque redazioni del Social a ferro e fuoco, ti ricordi? Siamo stati noi».
Cesare conosceva Pago, l’avrebbe voluto inserire nella sua divisione. C’è un’aura quasi leggendaria intorno a lui, un rispetto eccessivo che il Rospo infrange con le sue smorfie.
Sabina le ha raccontato che i tre, Peppe, Cesare e il Comandante, si conoscevano già prima. Sono cresciuti nel comasco e ognuno ha preso la sua strada. Poi, Cesare e Peppe si sono ritrovati nelle Milizie e sono partiti per il Centro di Congedo di Pantelleria. Appena entrato nei Dinosauri, Cesare ha messo in piedi un esercito di ex soldati, affiliandoli ai Dinosauri.
«Ci hanno rispedito a casa dopo l’incendio del Centro di Congedo» continua Peppe. «Non sospettavano che anche noi fossimo coinvolti, non allineati. Mangiavo sempre quella merda di riso in bianco, dimmi a cosa dovevo allinearmi!»
«Qui ci va di lusso, invece.» Giovanna mastica i fusilli scotti, gli strizza l’occhio e poi cerca Sabina sperando non abbia sentito. Il Comandante avanza tra i tavoli, controlla i loro fascicoli. Strabuzza le palpebre e indica a Peppe che ha pinzato all’inverso la copertina. Prosegue oltre.
«Questo lo dovevano spedire lì con noi. Guardagli le mani, è sempre stato una fighetta. Ma presto, presto Cesare lo fa nero.»
Il Comandante deve averlo sentito, si è voltato ed è rimasto immobile per qualche secondo. Bestia confusa. Le sembra sempre che vacilli. Lo fa nei discorsi, anche.
Qualche sera fa le ha voluto parlare in privato. Non è arrivato al punto. C’era una cimice a sbattere contro la lampada. L’ombra balenava sulle pareti, macchiandole.
Le ha posto domande inconcludenti. A volte la cimice si ustionava e sentiva friggere un pezzo del suo corpo.
«Come ti trovi? Ti piace il gruppo? Pensi che faccia per te?»
Ha concluso con un «Sei in gamba» come un vecchio padre. Poi ha insistito per accompagnarla fino all’ingresso del refettorio. Le ha appoggiato una mano sul braccio e l’ha immediatamente ritratta. Non c’è bisogno che si sottragga a questo Comandante Rospo. Lui non tenterà ciò che non può.
«Ogni tanto ci mangiavo con Pago.» Peppe vuole spingere il loro rapporto in una dimensione più profonda. La guarda masticando, ha dell’unto sul mento. Le farebbe simpatia se rispettasse i suoi confini. Il cerchio di sale delle streghe.
«Non oggi, Peppe. Per favore.»
«Scusami, Laura, scusa. Voglio dire che io so chi sei. Chi eri.» Cerca nella sua faccia il luccichio di una minaccia ma non la individua. «Questa roba qui, di giocare a guardie e ladri, dopo un po’ ti fa crollare. Guarda me, sono a pezzi. Intendo che se vuoi tornare indietro lo capisco.»
Giovanna abbandona la forchetta nel piatto mentre lui la fissa allarmato. Si allontana senza rispondergli.
19
La vita, dai Dinosauri, sembra più lenta. Non potersi connettere al Social la fa sentire più lucida, come affiorata da sonno profondo. Ogni senso si acuisce. Le hanno regalato un piccolo dizionario di esperanto, la lingua universale. Peppe dice che è un vezzo di Cesare. La usavano tra loro sull’isola nell’ultimo periodo, frasi semplici, temendo di essere sorvegliati. Un gioco che per Cesare aveva valore.
«È stata la lingua dei partigiani» ripeteva. I loro nonni la conoscevano. Giovanna prova a immaginare questi ragazzoni di montagna, a studiarsi una lingua che li estrarrà dall’ombra del dialetto, che li consegnerà alla lotta e a un mondo in cui chiamare le cose con un nome diverso. Annientata Babele. Li vede parlottare davanti a una padella di fagioli. Provare le coniugazioni. Pronunciare la c come una zeta, dimenticare digrammi e trigrammi per affidarsi al suono esatto di ogni lettera. Li osserva bisbigliare «milito kontraŭ la faŝistoj», guerra ai fascisti, con le loro voci roche di giovani uomini.
E come parlavano le donne? Il dizionario era anche per loro? L’esperanto era adatto a una madre o a una sovrana? Avrebbero trovato la chiave per connettere i due sessi, per dire «amore» nella stessa lingua? Forse un mondo in cui la parola fosse semplice e precisa, senza spazio per l’ambiguità, sarebbe pacifico e schietto. Ogni popolo sentirebbe un pezzetto di sé in un suono, nella similarità di un vocabolo.
Peppe la interroga sulla pronuncia dell’alfabeto e lei non sbaglia un colpo. Anche Cesare lo interrogava in quel modo. Le mostra il manuale che conserva da allora. È ingiallito, le pagine gonfie e ricurve, piene di appunti. Era la sua compagnia, la notte.
Studiava questo verso artificiale, creato dall’uomo per l’uomo. Si è sempre chiesto se gli animali riescano a capirsi in maniera esatta.
«Due cani, ad esempio, dialogano negli abbai? O sono come i protagonisti di quelle barzellette: “Ci sono un italiano, un tedesco e un francese…”?»
Sa che sta parlando di loro due, di tutte quelle volte in cui lei gli sembra inaccessibile. Anche adesso si sta chiedendo cosa pensi, la scruta indagatore. Forse si sente affascinante così, con un occhio più chiuso dell’altro.
«Neanche parlando la stessa lingua ci si capisce, Peppe. Magari è meglio così.»
Sarebbe terrificante non avere lo scudo della parola per difendere il pensiero. L’idea di estirpare l’ambiguità dal linguaggio le sembra improvvisamente tremenda. La vedrebbero esposta. Il tavolo metallico di un medico legale. Sezionerebbero ogni intenzione. L’avrebbero già cacciata da lì.
20
Il nome di battaglia del Comandante Rospo è Flavio. L’ha scoperto questa mattina. Il Comandante Flavio l’ha raggiunta accompagnato da Rita, una ragazza poco più grande di lei.
Rita ha i dread arancioni e dei palettoni da capra. Mastica in continuazione lo stesso chewing gum e si prende una confidenza con il Comandante tutta sua. È lei a chiamarlo per nome, senza altri titoli. Mano sulla spalla. Lui sgrana le palle degli occhi e ride a ogni frase. Mano sul braccio.
Detronizzata. La infastidisce dover lavorare con lei.
«Rita è la nostra colonna portante. Ti darà una bella mano.»
Ghigliottina, lunga vita alla regina.
Deve studiarsi un microfilm. Le immagini e i documenti rotolano sul vecchio schermo, si accavallano. Gliel’ha assegnato Rita, questo compito. Le dita da insegnante: tutta un indicare, un puntare con l’indice.
Hanno recuperato i lettori di microfilm dalle biblioteche e le università appena iniziata la digitalizzazione. Hanno distribuito quelli portatili, più piccoli e agili, nei recapiti, così nelle dinocaserme sono rimasti soltanto questi bestioni.
Nonostante abbiano eliminato ogni tecnologia digitale, il Comandante può accedere a uno stanzino in cui lavorano incessantemente i Tecnici.
Li ha visti emergere dalla tana soltanto una volta, come talpe. Hanno occhiaie viola dietro il vetro delle lenti. Sembrano non vedere una doccia da settimane. Nessuno, lì, si lava molto.
I Tecnici sono le uniche cinque persone che hanno accesso a dei pc. Li capeggia Uaifai, un nerd sulla quarantina. Gestiscono gli account dei ribelli delocalizzando il loro smartphone e fingendo un’attività costante per ingannare il Social. A volte Uaifai scatta foto ai nuovi arrivati per postarle mantenendo il loro account attivo: un occhio, una mano, la sagoma di fronte alla finestra.
Hackerano profili filogovernativi, si insinuano negli archivi e nei database. Devono essere invisibili, con il Social la Trinità riesce ad arrivare dappertutto.
Qualche tempo addietro hanno mostrato a Giovanna immagini di due anni prima in cui faceva la scema in webcam con Clara. Vendute a investitori turchi. Ogni attività degli utenti è stata registrata dallo Stato e giace nelle praterie sterminate degli hard disk. «Marzo non ha un dì come un altro» diceva sua nonna, una frase per ogni mese. Forse anche quella frase, la voce di sua nonna, è depositata in un server. Immagina milioni di video, foto, registrazioni schizzare fuori dai database e macchiare le esistenze. Mucillagine sul pelo dell’acqua.
21
Il microfilm che deve studiarsi porta un nome: Glauco Donati. È un medico. Anzi, no. Non ha mai superato l’esame di Stato, a quanto pare. Nessuna specializzazione, ha orbitato in ambito accademico e latitato in uno studio di ricerca privato. Progetti all’estero. Quattro anni fa, magicamente, è stato abilitato a esercitare la professione.
Fruga tra le foto in cerca del suo viso. Lo conosce. È uno dei buffoni che infestano i salotti tv che guarda sua madre. L’ha visto farneticare, agitarsi, sputacchiare di fronte alla conduttrice. Ora è più sciupato ma è impossibile confonderlo: ha una macchia scarlatta sul sopracciglio che brilla come una ferita.
Manifesto genetista. Il mosaico si ricompone.
Clara condivideva meme sulla razza, faceva incetta di like e il Social le aveva dato in premio un pacchetto di follower. Creava lei le vignette. «Dobbiamo darci da fare» ripeteva che i buonisti stavano facendo di tutto per negare l’evidenza. Non si trattava di razzismo ma di razionalità. Le copie plastificate del Manifesto appese alla porta dell’aula, quel professore che hanno fatto licenziare a staccarle ogni giorno, diligente.
Pianificazione recupero cartella. Ci sono immagini che non riesce a collocare. Nella didascalia c’è scritto Allegato 5 – Rapporto thailandese. È la Thailandia, quindi, ma potrebbe essere ovunque. Si vede Glauco Donati di spalle, mentre entra nella hall di un albergo: Column Hotel.
Allegato 6 – Lago del Segrino, dice il rapporto, provincia di Como: abitazione famiglia Donati. Di nuovo Glauco, è in una camera da letto, armeggia con un baule pieno di magliette. Zoom: depone denaro, fotografie, in una cassetta di sicurezza.
Allegato 10 – Como, una donna secca insieme a lui, di fronte a una villa sul lago. Gli tiene la mano nella tasca della giacca. Vespa Rossa.
C’è un nome cancellato con un tratto nero. I Dinosauri hanno i loro segreti. I segni scuri colpiscono l’occhio prima delle parole, coprono sempre la stessa persona.
«Stanno operando una stretta intorno a soggetti come questo» le spiega Rita. Si tormenta dread in continuazione. Il suo alito sa di menta e fumo. Glauco Donati, Morena Castaldi, Luigi Pieroni: c’è una squadra di soggetti vicini alla Trinità che il loro dipartimento deve tenere d’occhio. Da quando si sono spostati in blocco sul lago di Como, sono entrati nel loro mirino.
«Il Pieroni non li ha seguiti, pare scomparso. Si era impossessato di dati sensibili dopo un sequestro. Siamo certi che li abbia passati a Donati» le dice Rita.
«Dati sensibili?» la domanda di Giovanna cade nel vuoto.
Sembra si stiano preparando alla fuga. Bizzarro, visto il consenso riscosso dal governo negli ultimi mesi: «Stanno combinando qualche porcheria. C’è troppo fermento».
Hanno degli Osservatori nell’Ufficio Stampa Trinitario. Rita lo dice con l’aria di chi la sa lunga, ma Giovanna intuisce che questa capra rasta ha meno informazioni di lei.
Gli Osservatori restano segreti, spalancano i loro grandi occhi, schiudono i timpani per registrare tutto, poi scrivono lettere, rapporti, memoriali che loro, le staffette, portano ai Dinosauri. Negli appartamenti, nelle cantine, nei solai. Nelle piccionaie in cui si rintanano per salvarsi.
22
Rita le organizza un nuovo ritiro. Non si sa come questa nuova arrivata sia diventata la sua padroncina.
La raggiunge con gli indirizzi che deve memorizzare. Un percorso a tappe senza mappa. La accompagnano in auto, bendata, fino alla prima fermata della metro e poi sta a lei vedersela in mezzo alla città. L’autista ha l’ordine di non attenderla per più di un quarto d’ora oltre il previsto. Non si può deviare, né sbagliare percorso.
Non aveva mai studiato le tabelle della metropolitana. Ora ogni minuto di ritardo le pesa addosso come un macigno. Non sa mai se siano esercitazioni o missioni reali. Forse metà e metà.
Non sa dove sia collocata la sede dei Dinosauri, le impediscono di guardare la strada durante i trasferimenti. Autoprotezione.
Il più delle volte i pacchi da ritirare vengono lasciati nei cestini della spazzatura, proprio fuori dalla fermata di una metro o accanto a quella di un tram. Lei scende, passa i contenitori con aria indifferente, si impossessa di un’ecobusta chiusa o di una scatola. Un’etichetta indica la prossima fermata da raggiungere. Qui l’autista ritira il pacco e le rivela dove sia il successivo.
A volte fa degli scambi con i rider, mai lo stesso. I ragazzi in bicicletta tagliano il traffico con i grandi zaini ricolmi di cibo d’asporto. Deliveroo, Foodora, li guarda sfrecciare come sciami e si chiede chi di loro trasporti armi, microfiches.
Poi uno si ferma dall’altra parte della strada, deposita un contenitore d’alluminio in un cestino della spazzatura e riparte. A volte c’è un’occhiata d’intesa, ma niente di più. Nessun nome, bandito ogni coinvolgimento.
La trafila può andare avanti intere giornate o esaurirsi al primo ritiro. È arrivata a raccogliere dodici pacchetti e consegnarli ad altrettanti autisti. Quando raggiunge l’ultimo si benda, si sdraia sul sedile posteriore e attende il ritorno in sede.
23
Mentre la aiuta a preparare il pranzo, Sabina le rivela che le hanno fatto sparire il figlio. Sono passati anni e lei se lo rivede davanti ogni mattina, le sue gambe magre magre.
«Ma correva veloce il mio Ale. Più di tutti.»
Non piange mai, si ciuccia l’indice nervosa mentre parla. Si è tagliata affettando la carne, la saliva si mescola al sangue.
Il suo Ale aveva appeso uno striscione sul balcone, VADE RETRO DEMETRIO, con una caricatura satanica del leader, durante la prima campagna elettorale della Trinità.
«Non era ancora come adesso. Tu eri piccola, ma qualche anno fa c’era ancora chi era pro e chi era contro. Lui era contro.»
Hanno fatto una cosa, allora: «Volevano farci vedere chi comanda». Era arrivata la polizia, e poi una camionetta dei pompieri per rimuovere il lenzuolo. Hanno accennato a una legge del ’48, ammonendoli: «La prossima volta provvedimenti».
Quel pomeriggio era stata la «prossima volta». Ale ne aveva preparati cinque, di striscioni, centellinati uno ogni mezza giornata dal balcone, dalla finestra del bagno, al cancello che dà sulla piazza in cui Demetrio avrebbe tenuto il comizio. Hanno bussato due agenti in borghese. Avevano un tesserino: «Siamo della polizia».
«Non l’ho più visto, io. In questura non sapevano dove fosse, non si trovava il verbale. Hanno registrato lo sgombero degli striscioni ma non il suo fermo. Me le ricordo bene, le facce di quelli che l’hanno portato via. Ora sono nelle Milizie.»
Si era fatta arrestare anche lei, perché girava per la piazza con la fotografia di Ale sulla maglietta e il cartello ASSASSINI. Nessuno dei giornali che ha chiamato ne ha scritto. Quel fine settimana la Trinità avrebbe totalizzato il settantotto per cento dei voti. L’hanno rilasciata perché era una vecchia pazza, a chi faceva paura?
«Finché non succede a te non ti scomponi. Ne ho viste tante, in questi anni, ed erano tutte successe agli altri. A te non ti può succedere niente di brutto, pensi, perché sei una brava persona. A te non ti capita, perché non te la vai a cercare. Che male fa tuo figlio? Al massimo attacca qualche striscione, no? Una bandiera della pace sul balcone, no? Però poi te lo portano via e allora dici: “Ecco. Ci dovevo pensare, che mi poteva succedere”. Non siamo pronti a questo. Non ci insegnano a lottare per gli altri. Nessuno ci ha spiegato che difendere un altro significa difendere te stesso. “Pensa al tuo” dicono, non è così? “Fai il tuo, stai tranquilla, e vivrai una lunga vita.” Ma poi ti succede. A te.»
Giovanna cerca la sua mano ma Sabina la ritrae. Si volta per raccogliere i capelli, pettina i crini con le dita. Sembra un avvoltoio che spiumi l’immensa ala grigia. Giovanna cerca in lei qualcosa di sua madre. Questo dolore che Sabina si porta dentro sembra esserci da sempre. Forse ci portiamo tutta l’esistenza dentro il cuore e la liberiamo mentre la vita accade.
24
Quali piaghe si sono aperte dentro il petto di Gian, dei suoi genitori, quando è sparita?
Le hanno detto che la sua famiglia sta bene. Hanno alleati, staffette, anche al Quartiere. Le torna in mente Nora, la signorina in verde che passava di casa in casa a visitare i pazienti. Potrebbe essere lei l’infiltrata? Prova a ricordare un trasalimento, una spia nello sguardo, nei gesti. Le sembra di frugare dentro la memoria altrui.
Pensare al Quartiere, ora, le provoca un’imbarazzante nostalgia. Figurarsi i suoi seduti sul prato raso, Gian che torna dal lavoro claudicante, fiero dentro il suo grembiule, le fa crescere il magone. Bambolina. Pago è sempre al suo fianco, le ordina di spalancare quegli occhi che si ostina a tenere chiusi.
Era un ghetto per disabili, il Quartiere, non un paradiso. Tappezzato di sensori, home assistant, occhi digitali per controllarli come bestie dello zoo. Chippati come gli animali malati che rischiano di indebolire il gregge, i suoi hanno fatto carte false per farsi rinchiudere in una prigione. Non c’è alcuna nobiltà, né romanticismo nell’istantanea che immagina di stringere tra le mani. La sua famiglia dovrebbe nausearla, intristirla. Cardellini ciechi come lei, forse bastano una gabbia, cibo e acqua fresca per continuare a cantare.
25
C’è stata una riunione e il Comandante è tornato sbattendo la porta. In refettorio è calato un silenzio improvviso, tutti hanno teso le orecchie. Rita ha raggiunto la stanza poco dopo. Ha richiamato all’ordine, distribuendo i compiti: volantini da stampare, armi da assemblare. Gliele portano dalla Svizzera, le munizioni, così le ha detto un signore tutto ripiegato su se stesso. Non usano chiedersi il nome se non è necessario.
Così questo senza nome, incastrando tubi d’acciaio nero, le ha spiegato che le armi le mandano i tedeschi, o forse i francesi, o magari i belgi. Stati dell’Ue. Non le era mai passato per la testa che i Dinosauri potessero essere finanziati dall’estero.
Rita le ha chiesto come sia messa con il report su Donati. Giovanna è pronta da giorni, sa tutto di Glauco. Domani dovranno affrontare l’affaire con il Comandante, decidere il da farsi: Rita vuole che anche lei sia presente. Improvvisamente questa capra le sta simpatica. Ha uno sguardo complice sotto il muso d’ordinanza. Solidarietà femminile o qualcos’altro. A volte ha l’impressione che elemosini gratitudine.
Di là, nonostante siano passate ore, si sentono ancora Peppe e il Comandante litigare. Non lo faceva capace di tanta foga, il Rospo.
Due sere fa, fumando in cortile, lei lo ha chiamato per nome: «Flavio».
L’ha visto irrigidirsi, sbuffare una nuvola rotta, passarle la sigaretta: «Devi chiamarmi Comandante, come tutti».
Erano soltanto loro due, quando sono soli lui inizia ad agitarsi.
«Va bene, Comandante.»
Le ha promesso che presto le cose cambieranno. Ha grandi progetti per loro, per lei, ha finto un fuoco che non gli brucia dentro. Gli piace atteggiarsi a patriota. A volte Giovanna vorrebbe che potesse vedersi da fuori. La pelle giallognola e le dita ossute, il sorriso squinternato che lampeggia improvviso. Ha concluso la serata guardandola di sbieco: «Sei bella stasera».
Lei non ha raccolto. Ha finito la sigaretta e l’ha spenta per terra.
26
Quando Peppe esce dall’ufficio, va dritto verso Giovanna. Rita cerca di fermarlo, ma desiste non appena si accorge che tutti la stanno guardando.
«Seguimi di sopra, Laura.»
Non l’ha mai visto così.
Tutti fingono di lavorare, osservandoli di sghimbescio. La sua camminata da grillo oggi la inquieta. Ogni saltello schiaccia la rabbia.
«Allora, Laura, qui non si scherza più. Ti chiedo una cosa, pensaci bene prima di rispondere. Te la senti di spingerti un pochino più in là? Vuol dire smetterla con i giochetti e fare per davvero.»
Peppe attende meno di due secondi, poi si siede. Si gratta nervosamente la tempia, i suoi capelli oggi sono puliti. Sbuffa, il respiro le raggiunge le ginocchia.
«Che domande ti faccio, eh? Che cazzo di domande. Cancella, va. Riformulo.» Resta a guardare un punto alle sue spalle. Mastica il labbro inferiore, poi accenna un sorriso: «Sono cotto stasera. Scusami, oggi sono un po’ così. Abbiamo visto Cesare».
Parlando di lui, Peppe diventa un altro. Il suo viso sembra allargarsi, formula sfide e strategie. Torna in vita.
Cesare, le spiega, tornerà a collaborare con il loro dipartimento. Presto glielo presenteranno, lui è uno che ribalta il tavolo, allora vedrà che roba. Abbassa la voce per dirle che non ne può più di Flavio: «Comandante di qua, Comandante di là, poi quando c’è da tirare fuori le palle scappa. Oggi se l’è mangiato. Cesare, dico. Ci vuole uno che fa sul serio. Gli ho parlato di te, ti conosce, sa cosa hai fatto per Pago. Seguici e vedrai che lo vendichiamo».
Le si accende dentro una miccia quando pensa: vendetta. Ha qualcosa che rimette a posto il suo disordine, la riscatta. Strappa via il senso di colpa. Ne ha bisogno e la accarezza come un gatto: vendetta. Sente il sangue di Pago pioverle addosso, Giovanna la Pulzella d’Orleans. Scioglie il velo da cui si sente sempre avvolta. Si perde gran parte del discorso di Peppe facendo rotolare sulla lingua la parola. Come si dice «vendetta» in esperanto? Venĝo.
27
La riunione si apre come un meeting aziendale, senza climax.
Il Comandante, Rita, una manciata di facce mai viste e lei, all’angolo. Le chiedono poco, sono convinti di sapere tutto su Donati. In realtà sbagliano in continuazione. Quando prova a precisare un passaggio viene zittita con sufficienza. Ora Rita sembra innervosita dalla sua presenza. La complicità di ieri si è dissolta lasciando spazio a due labbra tirate, un compulsivo arricciarsi di dread.
I Dinosauri hanno un loro tribunale che delibera e sentenzia. Il dottor Glauco Donati è accusato di una serie tremenda di crimini: apologia del fascismo, apologia del razzismo, tortura, omicidio. Viene regolarmente coinvolto negli interrogatori speciali per far durare il più a lungo possibile i patimenti dei ribelli.
La sua compagna, Morena, è una delle torturatrici più entusiaste della zona. La chiamano la «Vespa Rossa».
«Dobbiamo avere quella cartelletta» attacca Rita, con un’insolita cantilena. «Ci abbiamo provato, due mesi fa, ma l’abitazione del Donati è inaccessibile senza un interno.»
Pigolare confuso, idee improbabili come un recupero attraverso un drone o un commando armato.
«Ci vado io» gli sguardi si inclinano verso Giovanna. Lei si raddrizza sulla sedia: «Il team di Donati ha fatto richiesta di un’inserviente fissa agli Affari Domestici. Mi sono studiata i documenti e…».
«Grazie del tuo entusiasmo, Laura» la interrompe Rita, sorridendole, mentre gli altri già rimasticano l’ipotesi del drone.
Al termine, però, Peppe e il Rospo vogliono parlarle.
Rientra nell’ufficio da amanuense, Flavio sta scarabocchiando frasi su un foglio bianco. Oggi la feritoia in alto proietta una sottile striscia di luce. Peppe le sorride, appoggiato alla parete.
«Cambieranno un po’ di cose, Laura. Ti sposti da Cesare, lo conoscerai presto. È uno in gamba. Abbiamo qualche idea su come muoverci con Glauco Donati e tu ci servi lì.» Il Comandante le parla senza alzare gli occhi, la voce gli trema.
Peppe irrompe, arrogante: «Prepara le tue cose che domani ti spostiamo» ha una smorfia vittoriosa che lo deforma.
Non c’è molto da riporre nella borsa. I vestiti che indossa, i pantaloni laceri di quando l’hanno salvata. La piuma bianca, che adagia in un angolo, e uno dei volantini lanciati con Pago la prima notte. Se fino a poco fa era lusingata dall’idea di essere stata scelta per un compito così delicato, ora si sente come intrappolata in una rete. Hanno deciso di mandare lei perché è sacrificabile, la meno coinvolta. Non potrebbe arrecare alcun danno.
Il Comandante bussa una volta sola ed entra nella stanza. La fissa come il primo giorno, severo e preoccupato.
«Fa’ attenzione, Giovanna. Non essere impulsiva, non prendere mai iniziative. Se Peppe o Cesare vogliono farti fare qualcosa che… ecco, io ci sono. Proteggiti tu, loro due non lo faranno.»
Resta immobile, indeciso. Le appoggia una mano sulla spalla, come con un soldato, poi imbocca la porta. È la prima volta da quando è lì che qualcuno la chiama con il suo vero nome.