1
Una barca contro il molo. Uno, due, pum. Dovrebbe cadenzare il sonno, ma da tre settimane Marzio non riesce a dormire.
Uno, due, pum. La stanchezza lo confonde, sragiona come da ubriaco, gli capitava anche in auto, a volte: la strada che si fa liquida, bestie della sua immaginazione ai bordi dei cespugli. Uno, due…
Lei allunga una mano fuori dal letto, muove le dita. Non è certo sia sveglia, forse assorbe la sua insonnia anche in sogno, forse ora tra loro c’è un legame energetico, un canale. Non è Martina, anche se per qualche istante la curva del naso, la portata del respiro, gli sembrano i suoi. Con gli occhi chiusi, al buio, potrebbe essere un ragazzo, una vecchia signora, anche un bambino.
Anche qualcosa di disumano, come una maschera o un corpo vuoto. Sciolto. Il grande masturbatore, Dalí, olio su tela, un fine settimana a Madrid, il Reina Sofía e il senso di impotenza di fronte a Guernica. Martina che punta il fuoco sullo schermo, scatta, condivide, lui ragazzino e pure lei, la coda di cavallo e il vestitino corto sulle gambe, ma adesso accanto a lui non c’è Martina.
Cerca di ricordare il suo nome, il dormiveglia gli impasta i pensieri, poi, come un fulmine, ecco il cervello acceso, i lineamenti che tornano al proprio posto: il sopracciglio scuro, l’arco delle palpebre, l’angolo del labbro, Giovanna con la sua giovinezza brada, l’incoscienza e la prepotenza raccolte in un corpo gentile. Lo sguardo sempre vigile, da aquila.
Il fiato gli si spegne, tutto torna reale. Lui, Giovanna; Martina, invece, in una casa lontana. Un cervo corre di fronte al fucile del bracconiere. È lui la preda, sente risuonare il colpo nella foresta.
2
L’ha conosciuta in un giorno di vento.
L’aria piegava e pettinava i ciuffi di acorus che pendevano dalle ringhiere. Era arrivato a Tre Torri da Domodossola, in una mano stringeva una borsa colorata con il pranzo take away, con l’altra reggeva gli occhiali da sole. La bacchetta destra gli si era allargata e ciondolava molle, appoggiandosi all’orecchio.
Aveva fatto un giro largo perché era ancora presto e voleva essere certo che non lo seguissero. Sembrava una di quelle giornate di sole di quando era bambino, non fosse stato per l’ombra viola delle Milizie in fondo agli ingressi.
C’erano cinque ragazzini sdraiati sull’erba, una vecchia con un brutto cane che sembrava trascinarla. Il mondo di prima.
Tornato di sotto si era appoggiato di fianco alle porte scorrevoli dello Shopping District. Lì il tempo era più lento, il Dritto, lo Storto e il Curvo vegliavano sulle vite dei consumatori come tre ciclopi. Si era sempre chiesto se, durante la progettazione, avessero previsto anche la corrente d’aria che spostava, violenta, i sacchetti e apriva le giacche. L’invisibile presenza dell’intruso.
Peppe gli aveva descritto Giovanna, la ragazza di Pago, in maniera sommaria.
«È bella, ha degli occhi strani» non sapeva andare oltre.
L’aveva vista prima da lontano, poi, sistemandosi gli occhiali, si era mosso rasente al muro. Lei era più giovane di quanto immaginasse. Indossava un giubbetto scuro e un paio di jeans stretti, i capelli castani, raccolti sulla nuca, sbattevano per via del vento.
L’avrebbe riconosciuta anche se non avesse avuto con sé quei fiori gialli, il loro segnale. Giocava a individuarle tra la folla, ormai era diventato bravo. Scrutava ogni possibile staffetta cercando i soliti indizi: una finta indifferenza, le gambe rigide. Si era immaginato il suo sguardo inquieto sotto le lenti scure.
La ragazza aveva preso posto su una piccola piattaforma di cemento, a pochi metri da lui. Si era sciolta i capelli sulle spalle e poi aveva provato a raccoglierli di nuovo. La corrente glieli sbatteva in faccia. Era rimasto a osservarla per qualche minuto. Godeva nel farle violenza, sapeva che il suo piccolo cuore stava accelerando il battito, che il respiro le si mozzava in gola.
Sedutosi alle sue spalle, sulla destra, aveva avvertito per un solo secondo il contatto con la sua schiena. Lei, allora, aveva chiesto: «Le piacciono i miei fiori?».
Curvando la testa, poi il busto, le si era fatto di fianco. Aveva preso dalle sue mani il misero ciuffo di tarassachi e se n’era rimasto a osservarlo in silenzio.
Di solito le collegatrici si sforzavano di comprare al primo chiosco qualche tulipano, due rose gialle, al limite delle gerbere. La scelta del bocciolo giusto gli diceva molto di loro: confuse le ragazze con le fresie, noiose quelle con le ginestre, ingenue le portatrici di margherite.
Lei, invece, li aveva strappati direttamente lì. I gambi erano ancora tonici, doveva averli colti da poco. Si era levato gli occhiali da sole e aveva frugato dietro le lenti scure di Giovanna, alla ricerca del suo sguardo. La ragazza non li aveva tolti.
«Amleto» le aveva sussurrato prima di alzarsi.
Si era tenuto i fiori, lasciando accanto a lei la borsa colorata con un poke bowl. Sul fondo della vaschetta, l’indirizzo da decrittare.
Mentre si allontanava, testa bassa e passo veloce, Marzio aveva lasciato cadere gambi e corolle sul cemento. In un attimo si erano sollevati a mezz’aria, definendo un’ellisse gialla e verde per poi ricadere, scomposti.
3
L’appartamento era in periferia nord, un palazzone poco lontano da Bicocca, il marciapiede punteggiato di merda di cane e ferraglie. L’avevano fatto ripulire da qualsiasi connettore, sensore, trasmettitore di dati. Era stato schermato, come tutti i recapiti.
Dalla finestra si scorgevano i resti bruni dell’Istituto Breda. Lo ipnotizzava la rovina di quella struttura novecentesca, sorseggiava il caffè a lungo, la mattina, senza poter distogliere lo sguardo. C’era una sola stanza da letto occupata da Spitz, il proprietario. Marzio e la ragazza avrebbero dormito su due brande in salotto: il mattino successivo Spitz li avrebbe portati sul posto.
Giovanna era arrivata che iniziava a imbrunire. Aveva con sé la borsa del pranzo, il suo lasciapassare. Ci aveva messo un po’ troppo a decrittare l’indirizzo nascosto nel doppio fondo del poke.
Però era lì, ora, con i capelli flosci, umidi alla nuca, e aveva finalmente levato gli occhiali da sole. Osservava tesa soffitto e pareti, gettando lo sguardo sopra e intorno. Marzio aveva notato il suo indice tamburellare sul dorso della mano. Aveva unghie tonde, corte.
Spitz l’aveva preso da parte: la ragazza non gli piaceva. Ne aveva viste altre così giovani, al primo cambio di vento cantavano come fringuelli. Marzio l’aveva soppesata da lontano. Sembrava una bambina, i grandi occhi chiari esploravano lo spazio con un lampo di stupore, sedeva sul divano facendo peso sulle braccia, appoggiandosi ai palmi. I suoi polsi erano sottilissimi.
«È in gamba, invece. È la ragazza di Pago.»
«Di chi?»
Qualche tempo dopo, dandogli la schiena, Giovanna gli avrebbe rivelato di non essere mai stata triste come quel primo giorno. La pioggia a battere fuori dalla finestra. La sua sagoma scura contro il grigio del cielo.
In quel monolocale, fin dal primo momento, aveva avvertito la loro diffidenza con le sue vibrisse, il suo spirito era in allerta. Si sentiva in trappola.
Quella sensazione di panico l’aveva accompagnata dal mattino.
«In realtà li ho comprati, dei fiori. Iris gialli. Poi ho iniziato a camminare per la città, camminavo e camminavo, i binari dei tram, gli sguardi di tutti, mi sembrava che ogni persona – sai cosa vuol dire proprio tutti? – mi guardasse. Non so perché, ma mi ha preso una brutta sensazione. Mi sentivo sporca e vicina alla morte.»
Aveva gettato via gli iris facendoli a pezzi con le mani e si era seduta in un caffè. La ragazza che glielo aveva macchiato non parlava italiano. L’aveva buttato giù senza zucchero e si era lucidata gli occhiali da sole con tutta la calma del mondo. Ormai aveva preso la sua decisione e la pace, pesante come un macigno, le si stava irradiando nei capillari.
«Ho pensato che Peppe aveva ragione, non sono fatta per queste cose. Se fossi venuta, basta. Non sarei più potuta tornare indietro.»
Fuori, il mondo correva veloce e avrebbe continuato così anche senza il suo aiuto. Se non si sentiva pronta, quella era la scelta più saggia.
Una formica si era avvicinata al suo cucchiaino attraversando la trama grezza della tovaglia. L’aveva colpita con l’indice senza pensarci, un automatismo. Il corpicino scuro, ribaltato su se stesso, si era contratto intorno a una zampa filiforme. Dopo aver atteso, immobile, la morte, eccola di nuovo trascinarsi, districandosi dalle frange rosa dell’orlo.
«E io l’ho schiacciata.»
Le era sembrato di osservarsi da fuori, titubante, piegata su quel tavolo, enorme su quell’insetto. Un’improvvisa rivelazione della sua solitudine. Si era sentita patetica, una bambolina. Cosa le avrebbe detto Pago, vedendola così? Non andare. Ecco quello che le avrebbe consigliato, cercando di proteggerla. Ma Pago era morto, mentre lei era viva.
Aveva accelerato il passo avvicinandosi a Tre Torri.
Con il fiatone, si era chinata a raccogliere i primi fioracci che spuntavano dal prato. Li aveva strappati e portati con sé.
4
L’appartamento in cui li hanno trasferiti è a Carate Urio, affacciato alla sponda occidentale del Lago di Como. Una palazzina a due piani, l’intonaco rosa striato dall’umidità e le cornici delle finestre decorate da motivi floreali anneriti. Ha le imposte verde brillante.
«Un re e una regina» aveva ironizzato Spitz, mentre apriva il pesante portone d’ingresso.
Appena arrivati, avevano trovato nel cassetto della scrivania due tessere d’identità. Laura Villa il nome di lei, lui invece Michele Pozzi.
Avevano giocato a chiamarsi a vicenda con diminutivi: Lau, Michi. «Dovremo abituarci.» La cosa li aveva divertiti all’inizio, ma dopo poco era calato uno strano imbarazzo.
Per lui non sarebbe stato difficile chiamarla Laura, Peppe gliene aveva sempre parlato così. Aveva saputo il suo vero nome, Giovanna, solo dopo aver richiesto il dossier su di lei alla dinocaserma.
Aveva deciso di essere sincero: «Peppe mi ha detto chi eri. So che hai sparato contro i miliziani, conoscevo Pago. Di vista, ma me lo ricordo. Sei stata coraggiosa. Però non dovrai rifarlo. Ti chiedo di fidarti di me, Laura, di non prendere iniziative. Siamo in due ma dobbiamo muoverci come uno, pensare come uno. Siamo uno. È importante che tu non mi nasconda nulla da qui alla fine della lotta».
Era strano dire «lotta». Altrettanto dirle la verità. Avrebbe potuto tenere per sé quel vantaggio su di lei ma fin dal primo istante aveva avuto la sensazione che dietro la ragazzina si nascondesse una donna alla quale è difficile mentire. L’idea che avesse rischiato la vita per salvare Pago, lei, una staffetta di nemmeno vent’anni, la irradiava di un’insolita nobiltà, che quasi lo intimidiva. La sensazione era acuita dalla stranezza di essere in due, una coppia di umani ignorati dal mondo, senza alcun Trinity, smartphone, sensore, come se l’universo si fosse fermato sulla soglia. In quel rifugio si sentiva esposto, senza nascondigli, all’inquieto sguardo viola di Giovanna.
«Non ti nasconderò nulla, va bene» gli aveva risposto lei. «Ma non siamo uno. Io sono io, tu sei tu. Due teste pensano meglio di una sola.» E si era avviata a esplorare la casa con un piglio un po’ insolente, lasciandolo interdetto.
Aprendo il frigorifero avevano riso dalla disperazione: era completamente vuoto. Lo stesso avevano fatto poco dopo, rendendosi conto che in quell’appartamento c’era un letto soltanto e che Marzio avrebbe dormito a vita sul divano.
Quando era calata la notte, da solo in quel salotto in cui arrivava, cadenzato, lo sbattere delle piccole barche da pesca, si era sentito pungere da un fastidio fisico che non riusciva ancora a mettere a fuoco ma che lo faceva sorridere.
5
Chi lo sa cosa succede nello spazio del sogno, cosa si svela al risveglio e cosa invece si ritira nella buca della memoria?
Il corpo di una donna che emerge dalla schiuma e poi riaffonda ogni volta che chiude gli occhi. L’ha quasi afferrato, la stoffa fradicia sfugge, lo trascina giù. La sincope delle onde, un motore che si ferma. Uno, due, pum.
Prima del suo «passaggio», quando all’alba il sonno finalmente lo avvolgeva, ne percepiva la vertigine sorda, lo stesso capogiro che lo coglie ora, di notte, a ripensare a quella vita così lontana, come osservasse la sua casa da una collina, dal mondo dei morti, come fosse a piedi nudi sulla spiaggia e spingesse gli alluci nella sabbia guardando una foto sgranata di Martina che si ricompone a poco a poco sul display. Caricamento.
Non gli era successo subito. Le prime settimane, quando il suo ritorno dall’isola non era più una notizia, era stato certo di farcela.
Aveva una vecchia Peugeot, la domenica portava Martina al mare. Si godeva tutta la lentezza del ritorno, le code infinite, il cielo che cambiava colore sugli Appennini, un azzurro sbiadito verso Milano. Per mesi aveva creduto – veramente, con tutto il cuore – di avercela fatta.
Martina aveva i pass per la design week, lei aveva i pass per ogni cosa. Gli aveva regalato dei mocassini viola che lui indossava fiero. Era orgoglioso di aver accettato ogni compromesso senza rabbia.
Uno spritz, due sbagliati. L’amica Sandra aveva un suo blog. Poteva permettersi di non lavorare, il Social le pagava la pubblicità. L’amico Youssef sfoggiava una camicia di seta a fiori che gli scivolava sui pettorali. Souvenir di Singapore. Mostrava fiero i tremila commenti sotto al suo ultimo post, la sua faccia baffuta fotomontata sul videoclip di una popstar.
L’amica Grazia ne aveva totalizzati quasi il doppio durante i flashmob a Chinatown: «Approfittiamone prima che chiudano» una risata, nel post una montagna di piatti vuoti. «Finché non li rimpatriano anche loro devono lavorare.»
Aveva aggiunto: «Se non li ammazza il virus muoiono di fame».
Martina annuiva a ogni frase, succhiando dalla cannuccia.
Wanton fritti, zuppa za-zai, nuvole di drago. Martina mostrava a tutti le foto di Spotorno. Avevano aspettato il tramonto perché lei non voleva nessuno sullo sfondo. Questo non lo diceva mai. «Abbiamo trovato una caletta nascosta.» Falso. Il Social aveva promosso il suo profilo a plus, guadagnava qualcosina taggando i brand sul costume, elemosinando follower.
Grazia le aveva chiesto che filtro usasse, la sua pelle era perfetta. «Macché filtro, fa tutto la luce.» Bugiarda.
Un brindisi a Isa, quando partorirà? «Non voglio sapere il sesso, ma spero femminuccia.» Aveva fatto tutti gli screening, grazie a Dio nessuna malformazione, con i nuovi decreti hai voglia a interrompere la gravidanza.
La Trinità parlava tanto di bonus per il neonato, ma a loro sarebbe servito solo tempo: «È una vergogna che il mio compagno non possa prendersi i giorni per la paternità. Tipico retaggio patriarcale, forse la Trinità dovrebbe rimediare a questo».
Era stata Martina ad avere l’idea. Le aveva alzato la maglia a scoprire il pancione, tutte le donne chiamate a raccolta. Avevano pubblicato una story con l’hashtag #piùtempoperpapà. Isabella ci avrebbe scritto un articolo sul «Quotidiano Unico», dovevano combattere contro quel Medioevo, #resistenti.
Lui tritava il ghiaccio coi molari, un brivido di dolore prima che Martina scattasse foto al vassoio con il filtro yummy.
Avevano attraversato insieme la città, poi, alla scoperta delle installazioni. Un aspirapolvere immenso avrebbe potuto risucchiare lo smog, opera di un giapponese. Un tapis roulant rosa, enorme, in Porta Garibaldi. Milano si schiudeva nella sera, i capelli di Martina brillavano ma i suoi occhi, a volte, lo cercavano severi. Allora anche lui rideva e di notte facevano l’amore in silenzio, come due sconosciuti.
Poi chiudeva gli occhi e crollava indietro, nel sonno.
6
Il corpo di una donna che emerge dalla schiuma e poi riaffonda. L’ha quasi afferrato, la stoffa fradicia sfugge, lo trascina giù. La sincope delle onde, un motore che si ferma. Uno, due, pum.
Accanto alla donna, una camicia gonfia. Sotto galleggiano delle gambe, come stecchi, dentro e fuori dall’acqua. Le onde sbiancano i bordi dei due corpi, frangendosi in schiuma.
Ci vuole un po’ prima che riesca a distinguere i dettagli degli altri. In lontananza sembrano spazzatura. Risalgono a pelo d’acqua, affastellandosi: bianchi, arancioni, la pelle è bluastra e si confonde con il mare. Sbattono uno sull’altro, inanimati.
«Ma quanti sono?» Peppe è al suo fianco sulla motonave. Si siede e respira profondamente, a occhi chiusi. Apre la bocca una volta, due.
Quell’incubo lo tortura ancora, di tanto in tanto. Al suo ritorno lo attendeva ogni notte, trascinandolo di nuovo sull’isola. Si risvegliava fradicio, i muscoli contratti.
«Vanno recuperati» aveva detto il capitano. «Si dev’essere rotto un container» così aveva detto. Morte naturale: nei Centri di Congedo non avevano forni, cimiteri in cui seppellirli. L’isola, il mare tutt’attorno, cosa cambiava in fondo?
«E come li recuperiamo?» gli aveva chiesto Peppe, senza aprire gli occhi. Ricorda tutti quei pesci arrivati insieme, una nuvola d’argento che guizzava strappando pizzichi di pelle, occhi. Mangiavano le magliette, divoravano la punta delle dita, non si staccavano dai cadaveri neanche una volta estratti dall’acqua.
Tornati al campo si erano dovuti sottoporre alle docce di disinfezione, tre giorni in quarantena. Lui, Peppe e gli altri cinque su quella nave, ora tutti insieme in una stanza con gli occhi al soffitto, il silenzio rotto dalle grida degli ospiti del Centro di Ultimo Congedo.
«Io non lo rifaccio.»
Era stato Peppe a dire quello che tutti loro stavano pensando.
«Se non vogliamo che ci ricapiti, dobbiamo organizzarci» aveva suggerito Marzio.
Stava per diventare Cesare. Non lo sarebbe più stato, al rientro. Un aperitivo di fronte agli spigoli dei grattacieli. La doppia vita che non si sovrappone, rewind, il nastro si inceppa di fronte al mare.
Quattro anni prima, rimasto senza lavoro, si era arruolato nelle Milizie Viola per aiutare il Paese con la campagna vaccinale. Addestramento, mesi a inoculare il virus, «vinceremo questa battaglia». Ma c’era anche un’altra guerra in corso.
Gli scontri improvvisi con i manifestanti in piazza, un’esplosione di corpi, gli era costato il setto nasale. Poi, per due anni, la noia delle ronde con le Milizie, i rari arresti dei ribelli, un caffè lungo per vincere il sonno durante il turno di notte. Qualcosa si stava già sgretolando.
Quando aveva chiesto il trasferimento all’isola, la bonifica dei quartieri cinesi era appena iniziata.
La Trinità aveva rotto definitivamente gli accordi con Pechino in piena recessione economica, accusando la Cina di aver clonato il made in Italy. La guerra commerciale rischiava di travolgerli ma Demetrio ripeteva: «Grandi nemici, grande onore».
Sul Social si iniziava a parlare del nemico cinese, un borbottio destinato a trasformarsi in una valanga.
A Prato avevano spaccato le vetrine dei minimarket di Chinatown. Il giorno successivo, la notizia del primo focolaio. Un virus intestinale, dicevano, il paziente più grave era stato ricoverato in terapia intensiva ed era morto dopo ore di agonia. L’uomo, italiano, aveva partecipato con i suoi figli al raid, tutti contagiati. Altri due casi a Milano, dopo aver mangiato del pollo alle mandorle avariato. Il botulino cinese, l’ombra di una nuova pandemia all’orizzonte, interi quartieri contingentati.
Demetrio aveva chiesto agli italiani uno sforzo in più: «Evitiamo Chinatown, i magazzini, i ristoranti cinesi, i biscotti della fortuna. Proteggiamoci da questa nuova pestilenza».
Virologi, epidemiologi, luminari del Social a scannarsi nelle dirette, fino a quell’e-referendum. Gli italiani avevano detto «sì» al rimpatrio cinese. Una scelta difficile, che Pechino aveva dichiarato lesiva dei diritti umani, rifiutando categoricamente di ricevere indietro gli expat.
Si rivede scorrere articoli, sondare possibilità, ricorda le ore passate con Martina di fronte ai video di chi era già ai Centri di Ultimo Congedo, per scegliere l’isola giusta. Ponza, Lampedusa, Pantelleria. Lei che lo sostiene, malinconica: «Sarai più utile al Paese, lì. In fondo è solo un anno».
Un anno che è una bolla, una cisti nella sua materia grigia.
Ci credeva davvero? Era come se fra sé e le sue decisioni, gli errori e i rimorsi, l’orgoglio, si fosse posato un foglio impermeabile alla memoria. Immagini cangianti, inaffidabili.
Uomini cinesi in fila, li fanno spogliare, è lui a sciacquarli con una pompa. Grida nella notte, un’insurrezione. Marzio che si allaccia la divisa viola scuro. Si sorride allo specchio, il vento muove le fronde di una palma. Bruciature, fine della pellicola, nuovo rullo per la notte.
Sceso dalla camionetta che l’aveva condotto al Centro di Ultimo Congedo, Marzio era stato investito da un miasma di spazzatura bruciata, gomma arsa. Tra i container, sulle griglie delle scale, sacchi di immondizia. I rifiuti rotolavano tra la sabbia, spostati dal vento, gli ospiti cinesi li scansavano senza vederli più.
Un paio di mesi dopo, l’avevano imbarcato per quella spedizione in mare. Trenta corpi senza voce, un galleggio di forme: erano già diventati statue.
7
«Forse aspetto un bambino.» Non era certo che Martina l’avesse detto davvero.
Lei l’aveva ripetuto a colazione, con la voce incerta. Aveva atteso che lui si alzasse dal tavolo, che le desse le spalle aspettando del caffè. Ciucciando lo yogurt dal cucchiaino aveva ribadito che forse aspettava un bambino. Era stata l’incertezza insita in quella frase a stupirlo. Ne parlava sottovoce, Martina, preoccupata, come fosse un tumore.
«Meglio esserne certi prima di decidere che farne» mentre lo diceva, Marzio si era sentito subdolo. Bevuto il caffè d’un fiato senza voltarsi, aveva sciacquato con cura la tazzina. I loro sguardi non si erano più incrociati fino a sera.
La conferma era arrivata la settimana successiva, meglio aspettare ad annunciarlo. Per Marzio un figlio era solo un’idea, qualcosa che lui stesso era stato, in passato, ma di cui ignorava la natura e la portata.
Suo padre se l’era cavata. Gli aveva dato la clava, il fuoco, la ruota, trascinandolo fuori dall’universo dei primati involuti. L’aveva sostenuto dopo la morte di sua madre e poi se n’era andato dignitosamente, una mattina di marzo. Una vita modesta e rispettabile, senza orrori.
Un figlio può allontanarsi così tanto dalla strada tracciata da suo padre che immaginare che cosa sarebbe uscito dalla pancia di Martina lo inquietava. Un piccolo animale tiepido, famelico, che avrebbe divorato la sua esistenza un anno alla volta, fino a vederlo morire esausto, in un letto d’ospedale.
Non era riuscito a parlargliene. Si fingevano entusiasti – «Tra poco saremo in tre» – e lei abbassava gli occhi, le guance le si stropicciavano. La spia di Trinity, il loro home assistant, lampeggiava di viola, una voce suadente attendeva che Marzio fosse da solo per domandargli: «Perché sei infelice?».
Non era contemplata la possibilità dell’aborto. Con le nuove leggi gli ospedali avrebbero rifiutato la richiesta: giovani, benestanti… respinta. Inoltre parlarne significava ammettere il terrore che un bambino li sigillasse per sempre.
Marzio aveva un pugnale tra le mani: proporre di interrompere la gravidanza significava colpire Martina con un solo affondo. Diventare padre era, invece, rivolgere verso di sé il coltello, infilzarselo in gola. Delle due poteva sopportare solo la seconda, era troppo vigliacco per raccogliere le lacrime di Martina.
8
A un mese e mezzo dal loro ritorno, Peppe si era fatto vivo. Un solo messaggio: Dobbiamo vederci, subito.
Gli aveva proposto di rimettersi in società, come a Pantelleria.
Beveva il caffè stringendo il manico della tazzina con il pollice e l’indice. I suoi occhi, i suoi occhi onesti, poteva fidarsi di quello sguardo. Però qui, nelle loro nuove vite, nelle case grandi con la vista sui viali, che senso avrebbe avuto?
«Per divertirci un po’ e perché se non lo facciamo noi non lo fa nessuno.» Mai una risposta vera alle domande essenziali, mai il rischio di affrontare la verità: erano dei non morti.
Era certo che anche Peppe passasse la notte a rivoltarsi nel letto, che nemmeno lui avesse idea di come gestire la rabbia e l’abitudine a fiutare il pericolo. «Tu dormi, di notte?»
«Ci hanno ingannato, Marzio, lo capisci o no? Guardami. Non l’avremmo fatto, né io né te l’avremmo fatto. Non siamo così. Tu sei così? No che non lo sei. Ci hanno convinto a partire, e va bene. Ma quelle morti che ci pesano addosso, io non gliele perdono. Abbiamo fatto quello che potevamo, siamo stati gli unici. Certo non mi rimetto la divisa viola.»
Per calmarlo, Marzio gli aveva rivelato di aspettare un figlio, e allora Peppe: «Congratulazioni». Un mezzo abbraccio, la tenacia di un cane che non molla la preda: «Lo devi fare per lui, Marzio. Non puoi crescerlo in questo mondo qui. Fa schifo, è uno schifo. Le persone spariscono, come sull’isola. Ma non in segreto. Lo vedi che li ammazzano in diretta Social e la gente se ne sta tutto il giorno a condividere stronzate. Ci fanno fare quello che vogliono e noi gli diciamo pure grazie. E guardami quando ti parlo. Promettimi che ci pensi, almeno. Mi rifaccio vivo io».
Ci aveva pensato, come promesso.
Aveva ripercorso l’anno sull’isola, le settimane a organizzare la sua squadra ombra. Cesare: non si era scelto il nome, gliel’avevano affibbiato a sfottò i primi ragazzi. Non era stato difficile il reclutamento, veniva spesso avvicinato da un nuovo volontario. Fingeva di non saperne nulla, poi Peppe procedeva all’ingaggio. La verità è che era impossibile credere ancora nella divisa viola che indossavano camminando tra la monnezza, scavalcando i bambini che giocavano sotto il sole, sentendosi essi stessi vittime di un inganno. Come in un incantesimo, sempre nuove navi in arrivo, mai in partenza, eppure il numero di cinesi rimaneva lo stesso. Quante morti naturali?
Erano stati abili a non farsi scoprire dai loro superiori. Vietati gli smartphone, sorvegliati dalle Milizie del Centro, la disciplina come unica arma. Una trentina di ragazzi, ognuno con il suo compito, catena di montaggio dell’insubordinazione.
Il Centro era stato chiuso alla rivolta di un migliaio di ospiti, le fiamme alte tra i container, ricorda una nebbia nera ottenebrare la spiaggia, offuscare l’intera costa. Tre giorni dopo i miliziani erano stati reinstallati nelle loro vite precedenti.
9
Stava andando con Martina a cena, la sera del suo «passaggio».
Avevano il loro ristorante preferito in Sarpi, prima: riso alla cantonese, pollo al limone, xiao mai di gamberi.
C’erano tornati la stessa sera in cui aveva incontrato Peppe, Martina aveva insistito: «Ho una voglia di cinese. Sfruttiamoli finché ci sono».
Stavano cercando di abituarsi all’idea che sarebbero stati un padre e una madre, che erano adulti e la loro esistenza fluiva lenta lungo il fiume, come una foglia. «È bello pensare che sia così» gli aveva detto Martina una volta «libera dalla responsabilità di essere speciali, di doverlo dimostrare.»
Il rastrellamento doveva essere iniziato nel pomeriggio, perché per strada c’erano ancora valigie, bottiglie rotte, pezzi di carta straccia.
Le Milizie in viola sotto le lanterne cinesi ricordavano il carnevale. Nonostante gli arresti, i ristoranti fusion restavano aperti e il tramestio andava e veniva, agitato dal vento. Nessun grido, soltanto un parlottare concitato e fitto, echi dalle finestre, donne cinesi affacciate alle porte, gli sguardi imperscrutabili ora preoccupati.
VIRUS CINESE, TORNA AL TUO PAESE, uno striscione o una scritta sul muro. Non ricorda. Uomini e donne in fila indiana, nessuna resistenza. Una famiglia con due bambine, le cerate azzurre identiche, una più grande dell’altra. Gli oggetti che ognuno di quegli stranieri portava con sé: ombrelli colorati, televisori portatili, una rella senza una ruota ingombra di vestiti, frigoriferi in miniatura.
Aveva provato a distogliere lo sguardo, senza successo.
Al ristorante Martina si era accomodata spalle alla vetrina, lui guardava proprio fuori e per tutta la cena gli era sfilata di fronte quella processione di umani remissivi, in colonna dietro le Milizie. Poi, uno degli uomini in viola aveva chiesto una scopa alla cameriera ed era tornato fuori per abbattere una striscia di lanterne rosse, mentre questa lo osservava mesta, con le spalle curve.
Martina si era gustata il pollo al limone insistendo affinché lo assaggiasse, spingendogli il boccone contro le labbra, poi dentro di lui, fino in gola. Aveva infilzato uno dei suoi ravioli, briciole di carne che schizzano sul piatto, se l’era cacciato in bocca intero.
Chiesto il menù dei dolci alla ragazza, era stata costretta a domandarglielo una seconda volta, perché quella sembrava imbambolata.
«Veloce!», così l’aveva ripresa, mentre fuori calava il buio sulle finestre spalancate. Un lampione che si accende illuminando parte di una camera da letto candida: una stanza origami vuota, immobile.
«Dovremmo riconsiderare Sarpi, ora che la stanno bonificando. I prezzi degli affitti si sono già abbassati.» Martina lo fissava in attesa di un cenno d’assenso. «Pensa che bello uscire la mattina col bambino, senza questi intorno, fare due passi verso i boschi verticali.» Si era persa a immaginare, ciucciando una moon cake.
Niente di epico, il suo «passaggio». Solo le parole «veloce», «bonificando», «questi» uscite dalla bocca della donna che avrebbe generato suo figlio. Non l’avrebbe raccontato a nessuno, si era inventato una variazione sul tema. Lui che interviene per liberare le bambine con la cerata azzurra, disarma un miliziano.
«Il tuo, di passaggio?»
Glielo chiede mentre Giovanna fissa un punto alle sue spalle, ancora impastata di sonno. Fa schioccare la lingua, lei, lo fa sempre quando si è persa un pezzo, ora i suoi occhi si accendono come una stufa: scintille indaco e poi la vita.
«Il tuo passaggio» le ripete «quando hai deciso che dovevi schierarti?»
«Quando hanno ucciso Pago» risponde lei, come se fosse ovvio.
«Certo, che stupido.»
Sentire nominare Pago, ultimamente, lo innervosisce. Non sa spiegarselo, da quando è chiuso con lei in questo appartamento lo affligge una strana inquietudine. Ascoltare il ticchettio dei suoi passi per le scale, la sera, lo agita. Allontana lo sguardo, che sente indebolirsi, come potesse rivelare qualcosa di segreto.
Gli sembra che Giovanna sogghigni, bevendo dalla tazza. Forse è solo un’impressione ma si sente disarmato, nudo.
Emana una fragranza indecifrabile, lei, al risveglio, che invade l’appartamento. Uno strano profumo di pelle, che aveva dimenticato.
10
Quando Peppe gli ha parlato per la prima volta della ragazza di Pago, quando gli ha raccontato che aveva ferito un miliziano nel tentativo di salvare il suo uomo, si era sorpreso a chiedersi chi l’avrebbe fatto per lui. Non Martina, neanche nei loro anni più belli. Non i suoi genitori quando era ragazzo: mamma docile e saggia, i silenzi codardi di suo padre. Quel pensiero è balenato e poi svanito, per riaffiorare in questi giorni. Cosa significa avere qualcuno pronto a rischiare per te?
Stende i fogli sul tavolo mentre cala la sera. Giovanna è rientrata da una mezz’ora, il fruscio della doccia si spegne.
Marzio ha già acceso la lampada, aperto il dizionario di esperanto. Finge di non accorgersi di lei, che si avvicina con i capelli ancora umidi.
«Habemus carta!» lo prende in giro. «Che traduci?»
Marzio si scosta per lasciarla sedere: «Me l’ha dato un amico. L’ha scritto lui. È La Libro de amantoj, il libro degli amanti. Una storia vera».
Giovanna prende un foglio tra pollice e indice. La luce, sbieca sulla carta, ne evidenzia la grana, l’orlo scuro dell’inchiostro.
«Il mio amico ha quasi un secolo» riprende Marzio. «Lui li ha conosciuti, sai?»
Giovanna passa il dito sulla prima frase, si ferma su una sottolineatura, perplessa: «Posso?».
Una scarpa carminio, la usava per ballare. Il tacco in sughero è smussato. In una giornata di sole, lui le aveva limato anche l’altro, per appiattire entrambi.
Gli sottrae il dizionario dalle mani, sfoglia concentrata.
«Li fajlis al ŝi ankaŭ la alian, por ambaŭ samniveligi» legge Giovanna a mezza voce: «Samniveligi potrebbe essere “appiattire”, ma anche “livellare, pareggiare”. Altrimenti avrebbe scritto platigi. “Livellare i tacchi” mi suona meglio, che dici?».
Marzio annuisce, forse ha ragione. Il vecchio Sandro si dovrà accontentare, non sono dei traduttori. Sa quanto tenga a quello scritto, lasciarglielo in custodia gli è costato molto.
Lo rivede, Sandro: i capelli bianchi, spennacchiati, il portamento da pugile nonostante l’età. Un grosso gabbiano dal temperamento aggressivo con gli occhietti scuri sempre a tramare qualcosa.
«Siamo diventati amici quand’ero già nelle Milizie. L’anno di quella nevicata pazzesca, te la ricordi? Io e Peppe aiutavamo a spalare la neve, arrivati al suo vialetto Sandro è uscito con il badile, dicendoci che poteva fare da solo. Gli ho offerto la colazione e si è un po’ ammorbidito. Poi ha iniziato a chiamarmi per sistemare un tubo che non si era rotto, cambiargli una lampadina che funzionava benissimo. Ogni volta mi portava per la casa, mostrandomi le foto e le medaglie del suo papà partigiano. Gli faceva da aiutante quand’era ragazzino, recapitava i messaggi in bicicletta, me l’ha raccontato mille volte. È allora che li ha conosciuti, tutti e due. Ha scritto questa storia per ricordarli.»
Il Neri e la Gianna, gli amanti sommersi. Una foto in bianco e nero, il vento d’aprile che spinge sull’acqua a Dongo, increspando la superficie del lago. Ci sono anche loro, di fronte ai gerarchi fascisti, al rintoccare degli spari che segnano la liberazione, mischiati al suono delle campane. Un abbraccio tra partigiani, l’ultimo prima che loro due si allontanino, sfumando nella memoria come un’eco remota, inafferrabile.
«Gianna e Neri erano partigiani. Sono stati catturati e torturati dai nazifascisti, poi accusati di tradimento dai loro compagni di lotta. Fuggendo, sono passati da Dongo proprio nei giorni dell’arresto del Duce. Strano il destino, eh? Sono stati tra i protagonisti di quelle giornate folli. Sembrava che ogni sospetto su di loro fosse caduto, e invece non gli è bastato a salvarsi. A guerra finita sono scomparsi nel nulla. Rivalità interne, sapevano troppo, li hanno assassinati. Sandro ha imparato l’esperanto da Neri. E io da Sandro. Diceva che quella era la lingua giusta per raccontare la sua storia, ma ora è troppo vecchio per tradurla. Un po’ mi mancano quei pomeriggi insieme.»
Lo prende uno strano imbarazzo. La luce della lampada proietta un’ombra lunga, morbida, sotto il labbro di Giovanna. Sembra assorta sulla pagina ma in realtà lo sta spiando di sottecchi.
«Per questo ti sei unito ai Dinosauri? Per Neri, Sandro?»
«No, no» si affretta a dire lui. Non vuole farle sapere quanto lo impressioni scoprire nella storia di Neri parallelismi con la sua vita. Il ritorno in patria da soldato, quel legarsi alla Resistenza, entrare in clandestinità poco prima di diventare padre. La luce di Neri, alle sue spalle, proietta e ingrandisce la sua ombra.
«A volte sento di essere solo la copia sbiadita di questi uomini. È vero, c’era in corso una guerra. Ma Neri è stato ucciso mentre combatteva per costruire un futuro giusto, noi invece lottiamo contro un presente sbagliato. Credo ci sia una differenza, un cambio di prospettiva. Loro guardavano avanti, noi invece? Non lo so. Sento sempre un filtro tra me e la mia volontà, è come se non fossi libero di scegliere, di immaginare un vero cambiamento.»
Giovanna lo scruta attenta. Annuisce, mordendosi il labbro: «Succede anche a me. A volte sento di non appartenermi. È l’erosione del Social, ci ha staccato da noi». Passa le dita sulla carta: «E Gianna? Dimmi di Gianna».
Marzio corruccia la fronte, ripensa a quando gliene parlava Sandro, con la voce rotta: «Dopo l’arresto di Mussolini, a guerra finita, Neri è scomparso nel nulla. Lei si è messa a cercarlo, un andirivieni disperato, su e giù per il lago. Il giorno del suo compleanno si è dissolta nel nulla. Non hanno mai ritrovato il suo corpo, si dice sia stata assassinata al Pizzo di Cernobbio. L’hanno gettata dove l’acqua è più profonda, in mezzo alle correnti».
Giovanna dischiude le labbra, respira, il soffio raggiunge la guancia di Marzio: «È morta per lui».
La punta dei suoi capelli sgocciola sul foglio, lei allunga la mano a protezione. Prova a tamponare la macchia con il palmo, senza troppo successo. Si alza rapida e si allontana, trattenendo le ciocche umide con la spalla.
Il dizionario di esperanto è illuminato dall’alone giallo della lampada, Marzio lo avvicina al naso e inspira a fondo l’odore di quelle vecchie pagine.
11
Mentre Giovanna è impegnata a casa di Glauco Donati, Marzio segue il transito di armi dalla Svizzera.
I carichi, di solito, arrivano un paio d’ore prima dell’alba.
Fuori dal mercato annonario di Como ci sono già i primi furgoni. Rivenditori, hanno i documenti trinitari di commercio prodotti dal loro reparto. Fumano, chiacchierano, si lamentano del lavoro: sanno di essere ascoltati.
Marzio passa tra loro, distribuendo a ognuno un gettone di plastica colorato. Sono i token: se la consegna va a buon fine, il destinatario lo rimanderà indietro. Uno dei suoi ragazzi si occupa del ritiro. È il suo sistema per tenere sotto controllo la distribuzione, i Dinosauri non condividono con lui gli esiti delle spedizioni, così si è organizzato da solo.
Il camion in lontananza ha passato il confine svizzero. È il loro uomo, arriva dall’Olanda, Marzio lo riconosce dalla targa che gli hanno comunicato. Non abbaglia, niente comportamenti strani, curva nel cancello che si sta aprendo, spegne i fanali e avanza lentamente, a scatti, come una grossa bestia azzoppata. Un cenno di Marzio: i quattro furgoni lo seguono e lui gli è dietro, a piedi.
Questo trasporta fiori: mazzi di tulipani, lillium rose avalanche nel comparto cella, ma anche pesanti piante da appartamento. Il responsabile li raggiunge, saluta Marzio. Finge di ispezionare la merce, mentre loro iniziano a scaricare.
Le piante vanno consegnate a Milano, sono una trentina in tutto, Marzio le divide tra i corrieri per prezzo: i 70 euro verso Rogoredo, i 65 a Città Studi. Li aiuta ad alzarle, non pesano quanto immaginava, artiglieria leggera: si figura le armi sotterrate tra le radici, munizioni germoglianti come tuberi d’acciaio.
Il responsabile del mercato osserva in silenzio il loro trafficare, quelli blaterano frasi di circostanza: «Stamattina io dormivo volentieri», «Meno male che è venerdì».
Marzio, nella fioca luce del vano refrigerato, passa in rassegna i pacchi di rose, i tulipani. Nessun prezzo, come previsto, tutto pulito: i fiori vengono spartiti tra i vari furgoni per confondere le acque. Gli autisti accendono i motori e si allontanano, ognuno diretto a un magazzino, un capannone in cui passare le piante armate ad altri Dinosauri-anello, una catena di consegne di cui pochissimi conoscono la destinazione finale.
Il responsabile chiede a Marzio di seguirlo e si avvia verso il retro, camminando rigido di fronte a lui. Di tanto in tanto si volta per spiarlo, essere certo che gli sia dietro. Sembra insolitamente agitato, ripete: «Abbiamo un’oretta, prima che si scongeli».
La puzza di pesce si avverte anche con la porta chiusa, quando la superano per entrare nello stanzone li investe un miasma marino.
Sono in cinque ad attenderli, i gilet unti e il volto sfatto, spingono verso Marzio le cassette aperte. Platesse, sogliole, merluzzi, alle loro spalle secchi di aringhe. Arrivano anche loro dall’Olanda, pescato fresco del Mare del Nord.
Il più alto si piega in avanti, un’occhiata d’intesa con il responsabile, svuota una cassa sul bancone con un gesto teatrale, da prestigiatore. Frantumi di ghiaccio, emerge una sacca di plastica bianca, la strappa per mostrare a Marzio il contenuto. Un mitra Sites Spectre, fanno sul serio, roba da antiterrorismo.
Marzio annuisce, le casse gli sfilano davanti. La sua mano affonda nel ghiaccio di ognuna, dita che frugano individuando il corpo rigido dell’arma, in passato gli è capitato di ricevere per sbaglio delle casse vuote.
Sono già divise per colore, vengono assegnate ai furgoni per destinazione. Polistirolo bianco verso Varese, le cassette azzurre in Brianza, i secchi verdi a est, in Veneto.
Un’ora dopo, quando tutti se ne sono andati, gli spazi iniziano a popolarsi dei veri fornitori, impegnati a esporre la merce sui bancali, prendersi un caffè ai distributori. L’echeggiare delle loro voci e i tonfi delle casse piene di verdura, pesci, fiori.
Marzio però è già lontano. Sta guidando su via Regina, verso l’appartamento, mentre il sole inizia a tagliare i rami, bucando il mattino.
Hanno mutuato quel sistema di consegne dai corrieri della droga, gli unici a penetrare nelle maglie di controllo della Trinità. Per loro, però, le cose sembrano più semplici. Si vocifera di un cordone di protezione: gli Stati dell’Unione europea non hanno mai operato controlli su quelle spedizioni, la Svizzera sembra non vederli, come fossero trasporti fantasma. «Forze diverse» ha detto una volta Flavio, accennando ad appoggi ben più potenti di quelli che loro sospettassero.
12
Negli ultimi tre giorni Giovanna gli sembra nervosa.
Sa che Donati tiene la cartelletta nel suo studio ma non ci si può avvicinare: «Ci sono telecamere ovunque, mi controllano all’entrata e all’uscita».
Non si tratta di questo, però. Sembra avercela con lui, è più di un’impressione, non fa nulla per nasconderlo. La sera gli fa rapporto come a un anziano superiore e poi si chiude in camera, lui mangia qualcosa da solo studiandosi le consegne per il giorno successivo ma i suoi timpani sono tesi in attesa dei suoi passi, quando se ne accorge si schernisce.
Di tanto in tanto la carica di piccole consegne. Nei giorni in cui non fa le pulizie da Donati le affida tre, quattro pacchi da recapitare a un dinosauro in un punto di ritrovo sempre diverso della città. Ha una procedura da seguire per il ritorno, i percorsi mutano, deve accertarsi di non essere seguita.
Una volta a settimana le chiede di raggiungere Milano, a giorni e orari stabiliti i suoi ragazzi attendono la staffetta di turno in un bar in Porta Romana, su una panchina in Sempione. Hanno testato quei metodi sull’isola, sfruttando i giorni liberi per esercitarsi, facendo girare i messaggi fuori dalla caserma. Una trentina di fedelissimi. Al rientro, come lui, hanno ottenuto un congedo temporaneo, per poi darsi alla macchia. La psicologa che li ha esaminati ha parlato di disturbo postraumatico da stress, non è certo fosse un’affiliata.
Trenta ragazzi, ognuno al comando di una squadra di dieci uomini. Trecento soldati da gestire a distanza, un battaglione di Dinosauri che ha fatto impallidire Flavio, quando Peppe gliel’ha annunciato. Hanno fatto irruzione in cinque redazioni del Social in contemporanea, qualche mese fa, un biglietto da visita di tutto rispetto. Cesare, comandante fantasma, nessuno dei nuovi combattenti l’ha mai visto in viso, soltanto chi era all’isola l’ha incontrato di persona, al suo rientro.
Tra i pacchetti che fa recapitare a Giovanna, non c’è mai nulla di compromettente. Messaggi sugli oggetti, da decrittare con la chiave che lei comunica a voce al primo dinosauro, qualche microfilm cucito in un portafogli, di tanto in tanto una mazzetta di banconote in un pacchetto. È per Martina, le manda contanti sperando che li utilizzi prima che perdano di valore.
Glieli fa consegnare nei luoghi più disparati: nel centro in cui fa yoga, a casa di sua madre, al lavoro. Sembra faccia molto shopping. Le ha spedito anche il suo orologio, così che non abbia dubbi sul mittente.
Giovanna riempie lo zaino in salotto. Ogni suo gesto è una dichiarazione di guerra, è infastidita da qualcosa e si comporta come se lui dovesse saperlo.
«Glauco Donati ha fatto una cosa strana, ieri» gli si siede accanto, brusca, da vicino la sua pelle è incontaminata, coperta da una sottilissima lanuggine bianca. «Era nudo nell’idromassaggio. Mi ha fatto avvicinare.»
«Ti ha toccata?»
«Ci deve solo provare. Però non lo so, sta prendendo una piega strana. Tutto, intendo.» Fissa il vuoto, come volesse afferrare un pensiero. «Mi tiene sempre d’occhio, cerca il mio sguardo, gioca. Sì, credo che stia giocando. Non è minaccioso, ma sta aspettando il momento giusto.»
«Per cosa?»
Lei si alza in piedi, si aggiusta una ciocca dietro l’orecchio. Il ciuffo però si libera subito, pende curvo come un’antenna.
«Lo vedremo. Se sono brava, lo vedremo.»
La osserva prendere lo zaino, uscire dalla porta. Dalla finestra la spia allontanarsi. Dall’alto il suo corpo rimpicciolisce, si schiaccia. Sembra una ragazzina pronta per la scuola.
13
Quando pensa a Martina e alla sua pancia gonfia, gli piovono addosso le parole «utero», «ventre», «koncipi», «concepire», si chiede se il bambino sia già nato. Spreme le ultime gocce di tenerezza per nascondere a se stesso l’indifferenza che gli provoca il ricordo. Si obbliga a cercare dentro di sé il trasporto di un padre come un setacciatore d’oro dentro a un fiume: solo sabbia. Lo sa da mesi, dall’ultima volta che l’ha seguita di nascosto, prima della partenza per il lago.
Ben sbarbato, si era messo in testa un cappellino, occhiali da sole, tentando un blando camuffamento. Camminando per il quartiere Isola aveva sperato di non incrociare Dinosauri. Sapeva che in un sotterraneo di via Pastrengo raccoglievano parte degli armamenti, ne era stato alla larga.
L’aveva trovata in fretta. Martina due volte alla settimana frequentava i corsi di yoga in un piccolo centro privato da cui si intravedeva la torre dell’Unicredit.
Dalla vetrina del bar di fronte l’aveva vista aprire il portoncino in legno e schermarsi gli occhi con le mani. Eccola uscire dal centro, i capelli biondi nel sole, qualche passo per la via.
Si era fermata a frugare nella borsa e allora aveva visto il suo pancione, un rigonfiamento deforme e innaturale. Si era chiesto se non fosse una messinscena, come nei giochi dei bambini, un cuscino sotto alla maglietta, che ora tirava come una vela.
Gli era venuta voglia di toccargliela per scoprirne la consistenza, un desiderio infantile che non aveva niente a che fare con la paternità. Ora gli sembrava una sconosciuta, ora ritrovava in lei un gesto, l’inclinazione di un passo, che gli erano familiari ma per i quali, stranamente, non provava alcuna nostalgia.
L’aveva seguita fino al cimitero Monumentale, dove lei aveva preso la metro.
Vederla scendere nella fossa della metropolitana e provare un inatteso senso di sollievo: era come se la stesse lasciando andare una volta per tutte, discendente verso il passato.
14
La riunione non si tiene nell’appartamento di Spitz perché nelle ultime settimane l’Istituto Breda si sta trasformando in un fortino delle Milizie. Camionette vanno e vengono, soldati agli ingressi. Spitz ha visto dei blindati con i primi prigionieri, è certo stiano allestendo un carcere o un centro interrogatori.
Al loro arrivo al recapito che hanno comunicato loro, trovano Peppe in auto. Strizza l’occhio a distanza.
La cantina in cui si riuniscono è arredata con mobili rustici. «Ci viveva nonna» spiega la dinosaura che li accompagna di sotto, ha braccia sottilissime che ricordano zampe di insetto.
Dall’intera casa sono stati rimossi i dispositivi smart. «Il wifi è stato schermato, potete stare tranquilli.»
Là sotto Flavio e Rita li attendono in piedi, di spalle, la luce li taglia a metà, illuminandoli fino ai fianchi. Sembrano galleggiare nel buio, una mano che si allunga a indicare un volto sulla parete, stanno sbirciando delle fotografie: «Eri tu da piccola?».
«Mia madre.»
«Abbiamo solo un’ora.» Flavio si rivolge a Marzio, la dinosaura lo prende come un congedo, si allontana in fretta. Loro si siedono.
«Mi fa piacere vedervi. Pensavo mandaste un intermediario» prova ad aprire Marzio, le loro spalle contratte gli si oppongono, anche negli sguardi che gli scivolano addosso c’è una diffidenza che lo mette a disagio.
«Ci tenevamo a esserci di persona. Il compito è delicato. Anche noi credevamo venissi da solo.» Rita parla sorridendo a Giovanna, le sue labbra si stringono subito ad anello: «Ma hai fatto bene, siamo felici di averti qui, Laura».
Giovanna ricambia il sorriso e rompe i convenevoli allungando le mani sul tavolo, disegna un quadrato immaginario con gli indici mentre parla, picchietta con l’unghia ogni volta che finisce una frase. Sta spiegando che Donati tiene la cartelletta nascosta nel suo studio, ultimo cassetto, sotto chiave. Stende la piantina della casa su cui ha segnato in rosso le videocamere di sorveglianza. Puntualizza che non può fare entrare e uscire nulla da lì, perché viene regolarmente perquisita.
Marzio lascia che la sua voce rotoli via, scruta Flavio, Rita. Il Comandante nasconde le mani alla vista, le braccia strette al busto, come se avesse freddo. Di tanto in tanto il labbro superiore gli trema, scoprendo una linea buia. Rita, al contrario, è completamente protesa in avanti, i gomiti sul tavolo, annuisce rimasticando una gomma, il suo sguardo è inafferrabile, si sposta da Marzio a Giovanna, chiede conferma a Flavio, spazia per la stanza.
«Di fatto, in più di un mese non abbiamo fatto progressi» Flavio interrompe Giovanna senza guardarla in viso. Cerca Marzio, invece: resta in attesa, indagando la sua espressione.
«Ne abbiamo fatti, invece. Sappiamo dov’è la cartelletta, organizzeremo un recupero. Laura, come vi ha detto, sta raccogliendo altre informazioni.» Marzio regge il suo sguardo, parla rapidamente: «Glauco Donati e la Vespa Rossa stanno cercando di farsi trasferire all’estero, vogliono un posto nella Nuova Europa. Siamo nella tana dei lupi, dobbiamo sfruttare questo vantaggio, studiare i loro incontri, ascoltare i loro discorsi. Parlano sempre di questo “incaricato”, Sante dell’Oro».
La voce di Flavio gli si sovrappone: «Non ci interessa. Lo scopo dell’operazione è il recupero della cartelletta, non raccogliere informazioni nella tana dei lupi».
Rita trattiene un sorriso, Marzio deglutisce a fatica, annuendo. La bocca gli si è seccata.
«Può entrare da qui.» Giovanna indica sulla piantina un angolo del giardino. «Sul retro c’è un’area non inquadrata.»
«Ne sei sicura?»
Giovanna annuisce: «L’ho visto sul monitor della sorveglianza. Qui, in giardino, c’è un piccolo tempio. Sullo schermo non compare mai. Potremmo fare entrare qualcuno dal muro di cinta, dovrebbe passare di qui e poi…».
«Di notte.» Marzio tira a sé la piantina, la osserva: «Non serve che Laura sia in casa. Meglio agire col buio».
Flavio scuote la testa, pensoso: «Gli aprirà lei, invece. Altrimenti perché l’avremmo mandata lì?».
15
Non dovrebbe andare a trovarlo, forse lo tengono d’occhio, tante cose non dovrebbe fare. Accelera.
Ha con sé la prima parte della traduzione del Libro degli amanti rivista con Giovanna, è il suo pretesto se gli domanderà, burbero, che ci faccia lì. La verità è che Peppe gli ha parlato degli strani movimenti intorno alla casa del vecchio Sandro, due notti prima, forse un arresto e vuole accertarsi che stia bene.
La tangenziale lascia spazio alle rotonde, a un piccolo centro commerciale giallo e grigio che assorbe le ultime auto. È quasi pranzo e Sandro dovrebbe essere a casa.
I parcheggi, lì intorno, sono deserti. Raggiunge la sua abitazione a piedi, risalendo una via privata, lastricata di porfido. Indugia un po’ troppo sul campanello, insiste, è strano che il vecchio non risponda. Attende ancora, c’è un tempo oltre il quale il silenzio si fa pesante, dilatato da un sospetto di catastrofe.
Si guarda intorno, non c’è anima viva ma si sente sempre addosso un’ombra, l’enorme sguardo della Trinità frantumato in centinaia di pupille. Suona di nuovo.
«Se cerchi il Sandro non è qui.»
Da uno spiraglio di persiana, in alto, spunta un sopracciglio grigio, un naso da segugio. La donna si sporge un po’ in avanti, tornando umana. Abbassa la voce, che sembra quella di un’altra. «L’hanno portato via» aggiunge, richiudendo le imposte.
«Via? Ma chi?»
Ci mette un po’ a rispondere. Lascia che il silenzio si carichi d’enfasi, poi di nuovo spinge fuori il naso: «Ah, non so niente. Glielo dicevo di non insistere con tutte le sue menate da comunista». Non lo saluta, batte in ritirata e scompare nel buio prima che lui le chieda altro.
Osserva la finestra di Sandro. Le gelosie chiuse sono verde scuro, scrostate agli angoli. Lo devono aver portato via di notte, come ha detto Peppe. Gli avranno dato il tempo di rassettare la casa, chiudere i vetri e i serramenti. Non vuole immaginarlo mentre esce di lì, finalmente in arresto, gongolando. Il suo viso gli si stampa in testa con un ghigno carnevalesco.
Lo scatto della serratura, il portone si apre lentamente. Da una fessura si intravede un occhio sotto un ciuffo cenere e di nuovo il naso aguzzo, che fiuta le sue intenzioni. La signora non apre del tutto, mantiene tra sé e Marzio la protezione di quella porta pesante.
«Io non le ho detto niente ma mi sa che l’hanno messo al ricovero, se vuole ho in giro il numero dei nipoti, dico se vuole andare a trovarlo.»
Marzio scuote lento la testa: «Non fa niente. L’hanno portato via loro? I nipoti?».
La donna porta l’indice al labbro, si mastica la punta come la temperasse: «Sì, penso che erano i nipoti quelli lì. Due ragazzoni, belli robusti, una fatica a portarlo via. Ha fatto una sceneggiata in Consiglio comunale, si è presentato con addosso le medaglie di suo papà partigiano e il fazzoletto rosso al collo, roba da matti, e ha dato del…» cerca la parola giusta, poi abbassa la voce: «Ha detto al sindaco che è un porco fascista. Poverino, con la testa non ci stava più. Io glielo ripetevo sempre che non doveva agitarsi. Meglio, che l’hanno portato via, almeno lo seguono».
Lo sguardo da compassionevole si fa rapace, indaga la borsa di Marzio, lo scava in attesa delle sue credenziali. Lui annuisce, alza la mano destra, è un grazie e un saluto, si allontana sentendo i suoi occhi addosso.
«Ciao, Sandro» bisbiglia tre volte, come un rito.
16
Al suo rientro, Giovanna è un’altra. Se ne accorge già dal battito convulso dei suoi passi per le scale, un ticchettio veloce, sempre più vicino, due giri di chiave, quando entra ha gli occhi lucidi e scuote la testa: «Abbiamo fatto un casino, un casino!».
Getta lo zaino a terra e si muove rapida verso il bagno, apre il rubinetto. Schizza acqua fresca sulla fronte, sulle guance. Non l’ha mai vista così, si è bagnata la faccia in fretta per nascondere le lacrime, Marzio finge di non notarlo: «Calmati e spiegami».
«Ma chi è quello che hanno mandato?» Giovanna sbuffa, un soffio profondo per calmarsi. Invece riparte, esplode, picchia i piccoli pugni sulle ginocchia dalla rabbia.
Ha fatto tutto come pattuito, lei: ha lavato il corridoio e lasciato aperto l’ingresso sul retro per arieggiare. Si è accertata che Donati fosse al piano di sopra ed è uscita a sbattere il tappeto, il suo via libera.
Il dinosauro che si è trovata davanti – giovane, pistola puntata – invece che raggiungere lo studio è salito a cercare Donati. L’ha preso in ostaggio e si è fatto accompagnare da lui, chiedendogli di consegnargli la cartelletta.
«Perché?»
Non lo sa, non l’ha capito. Voleva fare il fenomeno, forse. Rapire il creatore del Manifesto.
Lei ha fatto ciò che poteva: mani in alto, si è finta impaurita, quando ha visto sopraggiungere la sorveglianza ha gridato forte per fargli capire che doveva scappare: «C’è stato uno sparo, si dev’essere ferito. Ha sgocciolato sangue dappertutto, mentre fuggiva».
«Ti hanno interrogato?»
«Sì, ma non sospettano di me. Anzi, Donati mi ha ringraziato.»
Però ora il dottore sa cosa stanno cercando. Marzio si muove per la stanza, batte il perimetro come una gabbia, percorrere quel rettangolo lo aiuta a circondare i pensieri: «Non puoi tornare da loro».
«Ci ritorno, invece. Ti ho detto che non ce l’hanno con me. Lui si fida, gli piaccio.» Non lo dice con malizia ma scruta subito Marzio, in allarme.
«Non devi giocare con lui. È pericoloso.»
Giovanna si alza di scatto, resta immobile, le guance arrossate, sembra attendere che defluisca il magma, che scivoli giù, bollente. E invece risale: «Mandare certa gente è pericoloso. Fare operazioni come questa, improvvisando, è pericoloso. Io non sono una bambina, so come gestire le cose. Sono gli altri a mettermi in pericolo!».
Non la rivede più, Giovanna batte i piedi fino alla sua stanza, quando è arrabbiata il passo le si fa pesante, come una marcia.
La notte, invece, si aggira in punta di piedi per l’appartamento. Al buio è leggera e silenziosa, uno spettro.
A Marzio è successo di svegliarsi di soprassalto, avvertendo una presenza. L’ha trovata in piedi, nell’oscurità, una piccola figura fosforescente, a pochi metri dal divano. Lo stava osservando? La prima volta, un bicchiere d’acqua in mano, lei gli ha detto di essersi alzata a bere: «Ho una sete, dormi».
La seconda non si è accorta che fosse sveglio. Marzio l’ha scrutata per un po’ dalla fessura delle palpebre, fino a che non è uscita dal suo campo visivo. La mattina si è chiesto se fosse reale. Gli era rimasta addosso una specie di polvere impastata ai sogni, una grana luminescente sulla memoria. Il luccichio di una lucciola che si spegne con il sorgere del sole, quando ormai nella casa ogni oggetto riprendeva il suo colore.
17
Gli hanno recapitato i token, divide i gettoni per colorazione. Significa che le spedizioni sono andate a buon fine.
Ha già i dati per la prossima consegna, di lì a un paio di settimane. È lui a dover scegliere il luogo di scambio, gli hanno parlato di un deposito per vecchi tir, è di un amico. Ha un paio di ragazzi nelle Milizie, di solito li manda in spedizione da chi si professa «amico». Lo interrogano, spaventano, devono essere sicuri che non sia pronto a venderli.
Quando bussano alla sua porta, Marzio sobbalza. Non aspettava visite, si irrigidisce e tende l’orecchio.
«Sono Peppe. Aprimi, dai!»
La voce è quella, Marzio controlla dallo spioncino: è solo. Apre la porta senza togliere il catenaccio: «Parola d’ordine?».
«C’è poco da ridere!» e il suo viso gli dà ragione, contratto, due pieghe profonde ai lati delle labbra, non lo vede spesso così.
Peppe entra in casa rapido, la sua presenza sembra sempre disordinare gli ambienti, contaminarli. Tocca gli oggetti, si puntella al tavolo, per poi sedersi sul bordo, facendolo ondeggiare.
«Saprai cos’è successo» nella voce un’arroganza che non gli appartiene, da quando gli parla così?
«Laura me l’ha raccontato.»
Peppe soffia dalle narici mentre la bocca si increspa: «Ti ha raccontato che è andata in panico e ha fatto saltare il recupero? Che ha gridato e sono arrivate le guardie? Quello che è entrato si è ferito, ha quasi perso un dito. Siamo molto scontenti di Laura».
Marzio lo scruta in silenzio per qualche secondo. Deve capire fin dove voglia spingersi con questo atteggiamento, quanto sia intenzionato a minare la sua autorevolezza.
«Mi ha raccontato che quello che è entrato ha pensato bene di cercare Donati e minacciarlo. Se lei non avesse gridato, quello che è entrato ora sarebbe in mano loro. Sono io a essere scontento.»
Peppe si inumidisce le labbra, ci passa la lingua un paio di volte, nervoso. Ha già cambiato sguardo, lo scudo si è dissolto e ora le sue pupille scendono a scrutare il pavimento.
«Mi sono sbagliato sul suo conto. Ti fa male stare con lei» gli dice, abbassando la voce. «Anche Flavio l’ha notato, alla riunione. Siete troppo coinvolti. Non la devi mai proteggere davanti a lui, lo sai. E non la devi difendere quando fa danni.»
Marzio si schiaccia le nocche, lo scrocchiare risuona per la stanza, vagamente minaccioso. Non voleva fosse questo l’effetto, ma Peppe sembra essersi allarmato, si trascina un po’ più indietro sul tavolo, puntellandosi sulle braccia.
«Sto difendendo il nostro lavoro, non lei. Sei diventato il loro galoppino? Ti mandano qui, a minacciarmi, intimidirmi.»
«Svegliati, Marzio» Peppe scende dal tavolo, fruga goffamente sotto l’ascella, nel giubbotto, cercando qualcosa in una tasca interna. Ci impiega più del dovuto, gliele mostra dopo aver armeggiato: due piccole fotografie. Ritratte ci sono due donne al tavolino di un bar. A destra Giovanna, ne riconosce il profilo in controluce. L’altra, lunghi capelli biondi fin sotto le spalle: Martina. Un formicolio dietro la nuca, simile alla paura, le avvicina agli occhi, come non ci credesse, quasi che guardandole da vicino potesse scoprirci un trucco.
«L’ho mandata io» mente, ma Peppe lo stana fissandolo con compatimento.
«Sì, Marzio, l’hai mandata tu» gli pizzica la spalla, un gesto fraterno che lo innervosisce. Anche il fatto che gli si avvicini all’orecchio, superando il confine, un ristagno di caffè nel fiato mentre bisbiglia: «Stai in guardia».
18
Quando Giovanna entra in casa, Marzio la attende alla finestra, di spalle. Sta fumando, non lo fa spesso, l’alone bianco viene soffiato all’interno dall’aria e si disperde per la stanza, che inizia a rabbuiarsi nella sera. Le luci sono spente, i cuscini scomposti sul divano, uno sbuffo leggero di fumo li raggiunge e ci si infrange. La sente avvicinarsi, il frusciare indeciso del suo corpo, un rallentamento.
«Da quando fumi?» La sua voce è insolitamente allegra ma Marzio non si volta.
«Da oggi.»
«Ho delle novità, adesso ti racconto!»
Ha lasciato sul tavolo le due piccole fotografie. Sa che lei le noterà, deve averle appena viste e le sta osservando, muta, avverte la sua rigidità come se risuonasse, un diapason, basta così poco per cogliere le sue vibrazioni.
«Chi te le ha date queste?»
Quando Marzio si volta e la guarda, lei con le minuscole foto in mano, a mezz’aria, sente un peso improvviso trascinargli giù braccia e gambe, lo smembramento del proprio corpo come se si facesse di fango. Giovanna ha nello sguardo una strana fiamma, rivela per la prima volta una seconda sé, pronta all’attacco.
«Perché sei andata da Martina?»
Gli occhi le si fanno tondi, le ossa degli zigomi tendono la pelle, la sua voce è insolitamente stridula, come il richiamo di un uccello: «Non c’era il ragazzo. Ho fatto confusione. Con le consegne, mi sono sbagliata. Sono andata io».
Marzio le si avvicina, il sangue ha ripreso a circolare, veloce, lo sente irrorare la punta delle dita. È lei, ora, a essere in panico.
«Cazzate. Ti ho chiesto: perché sei andata da Martina?»
Le è ancora più vicino, quasi chinato sul suo corpo che sembra ritrarsi nell’ombra, un’oscurità che le azzurra la linea dritta del naso, scivolando e allargandosi alle guance, nei suoi occhi lampeggia ancora quello scintillio selvatico. È di nuovo l’altra, l’irriconoscibile ferocia di poco prima aleggia sul suo viso. Non arretra, questa Giovanna, si protende in avanti, anzi, verso di lui, in attacco.
Lo scontro del suo corpo che gli piomba addosso, ossuto e tenace, le sue labbra lo colgono impreparato, Giovanna gli stringe la testa con le mani e gli preme dolorosamente la bocca sul mento, sul naso, cercando una risposta.
Marzio la accoglie troppo tardi. Un paio di secondi per stringerla, allungarsi avanti, e lei si è già pentita, non c’è più, la osserva scivolare via veloce, scomparire nel buio del corridoio. La porta della sua camera che sbatte.
È lui a raggiungerla in silenzio, quasi un’ora dopo. Il cuore gli rintocca nel petto, scavandolo dentro. La porta ora è socchiusa, cigola quando Marzio la sfiora nel buio.
Non hanno più acceso la luce, da quella specie di bacio.
Nell’oscurità dell’appartamento Marzio ha atteso il suo ritorno stropicciandosi le maniche, soffocando l’euforia che sentiva gonfiargli il torace. Si è chiesto se lei fosse in ascolto dei suoi passi, mentre si aggirava compulsivo per il salotto; si è domandato se stesse già dormendo, mentre si torturava i capelli con le dita.
Quando si è deciso, avvicinandosi alla stanza, si è ripetuto sottovoce ciò che le avrebbe detto: «Non possiamo permettercelo».
Lo bisbiglia tra sé come una formula magica, capace di sciogliere il peso che gli preme dentro. Un rischio troppo grande per entrambi, in un’altra situazione, forse.
Nessun forse, si ripete mentre la porta scricchiola e lei è seduta sul letto, trattiene il fiato. Si alza in piedi e le braccia le ricadono lungo il busto, come fosse di pezza.
Nessun forse, ma le è già vicino, addosso, e lei tira la sua maglietta verso di sé, lo stringe contro il proprio corpo crollando sul letto, lo cerca con le labbra e con le mani. Oppure è lui, adesso.
19
Sul tavolo, prima di uscire, Giovanna gli ha lasciato qualcosa. Si tratta di un piccolo pezzo di carta piegato in quattro.
Marzio lo prende, lo rigira tra le dita stropicciandolo, prima di aprirlo. La frase è scritta a matita:
Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio tempo
il caso giocava con loro.
Non sa di chi siano i versi, si innervosisce a scoprirsi sorridere, trattiene le labbra. L’alone di Martina, la sua ombra, ha cominciato ad allungarsi su di lui avvolgendolo, tentacolare.
Si gratta il collo, la barba gli punge le dita; quando pensa a lei, al bambino, il respiro si fa breve, non scivola più giù della gola. Estranei che si è legato addosso, è meschino pensarlo ma è così, un clamoroso errore, la sua vita di prima, il film di qualcun altro, proiettato all’infinito in una vecchia sala.
Rivede lo sguardo di Giovanna, che lo osserva sveglia, tagliata dalla prima luce del giorno. Muove le labbra, in una frase che non ricorda. Hanno lo stesso peso specifico, ognuno di noi ne ha uno e loro pesano uguale, si sono fiutati, riconosciuti, ora che è successo lo può ammettere.
Il caffè, amaro, lo riporta nell’appartamento, in cucina, al tavolo, seduto sulla sedia, con tra le mani un messaggio per Peppe.
Glauco Donati ha trasferito altrove la cartelletta e Giovanna sa dove l’ha portata. L’ha visto uscire dallo studio con il suo bottino, poco dopo si è allontanato in auto con un uomo della scorta. Al suo rientro le ha chiesto di lavare e riporre in frigo due ceste di verdura. Orto della zia: pomodori pachino, zucchine, un paio di melanzane viola scuro. «Tutto genuino» le ha detto.
«L’ha nascosta da loro, e io so dove.» Giovanna ha stretto gli occhi, concentrata. «C’erano delle fotografie, nel suo dossier. La sua stanza, al piano di sopra. Quando va a trovare i genitori passa ore lì dentro. C’è un vecchio baule di fianco al letto, tiene nascosta una cassetta di sicurezza tra i vestiti. Nasconde lì i suoi tesori.»
Agiranno la mattina successiva. Donati sarà impegnato a Milano fino a pranzo, lei ha il turno di pomeriggio. Hanno un paio d’ore, dovranno essere rapidi, sta componendo un messaggio per Peppe, in cui lo invita da loro la sera successiva. Lo accoglieranno, lui e quella da cui deve «stare in guardia», consegnandogli la cartelletta.
20
«Somiglio a Nora.»
Bisbiglia Giovanna quella mattina, inclinando lo specchietto e poi raddrizzandolo alla meglio. Indossa la divisa verde chiaro delle assistenti speciali: un tailleur con gonna sotto il ginocchio e i capelli raccolti da un nastro dello stesso colore.
Marzio la osserva avvicinarsi all’abitazione mentre si avvia nella direzione opposta, per entrare dalla finestra sul retro. Ascolta il battere dei suoi tacchi bassi, la sente arrestarsi per un attimo, risuona il gracchiare di un campanello. L’eco attraversa tutte le stanze e oltre, fino a lui, accucciato dietro la siepe che definisce il perimetro del giardino.
Il cigolio di un cancello, spia le due donne emergere dalla porta, spalle ossute sotto i golfini, la stessa crocchia cenere, sembrano raddoppiare un incubo di bambino mentre avanzano insieme, diffidenti. Parlottano con Giovanna sulla soglia senza lasciarla entrare, ci vuole un po’ affinché la prima delle due si faccia da parte, concedendole un varco. Non appena Giovanna la supera, Marzio ha l’impressione che quella le si avvicini troppo quasi la fiutasse. Eccole dentro.
Ci vuole qualche secondo prima che le pupille di Giovanna si dilatino, prendano confidenza con quell’oscurità. Il suo olfatto, invece, non riesce ad abituarsi allo strano odore dell’abitazione. Corpi dolciastri, terriccio. Organico, come se in quelle stanze qualcosa iniziasse a decomporsi. Lui, forse.
Il padre del dottor Glauco agita le mani con un’espressione beata in viso. Sembra un bambino eccitato, picchia le dita nel passato di verdure. La moglie gli è subito addosso, gli blocca le braccia, calmandolo.
«La aspettavamo tra una decina di giorni. È nuova, lei?»
Giovanna annuisce, abbozza un sorriso di cortesia. Dritta verso il vecchio, tono squillante, ruffiano, è l’assistente speciale, è Nora.
«Buongiorno, ma chi abbiamo qui? Signor Donati, allora? Come andiamo?»
Gli occhi perlustrano lo spazio: le scale che portano al piano di sopra, teme di scorgere un’ombra, il corpo di Marzio.
«Iniziamo con la pressione, poi prendiamo il resto.»
Estrae dalla borsa lo sfigmomanometro, applica il bracciale poco sopra il gomito del padre del dottor Glauco. Lui le sorride, grato, sembra sereno. Mentre la fascia si gonfia, però, si innervosisce. Giovanna gli prende la mano, la accarezza.
Le due le sono alle spalle, avverte il loro respiro sulla nuca, un soffio caldo che si spande verso l’orecchio destro. Le pare di sentire dei rumori, in alto, come di passi: scricchiolii.
Forse anche loro li hanno avvertiti. Scorge l’ombra della zia inclinarsi, come avesse alzato il capo in ascolto. Quando l’apparecchio squilla, entrambe rilasciano il fiato insieme.
«Centodieci ottanta, un ragazzino» le rassicura Giovanna.
«Arrivo subito» farfuglia la zia.
«Abbiamo la richiesta di trasferimento da firmare, prima.» Giovanna si volta e coglie il loro allarme.
«Trasferimento?»
Recupera dalla borsa un piccolo tablet con un pennino digitale, lo sblocca e lo allunga alle due, strisciandolo sul tavolo.
«Non firmiamo niente, noi» ma hanno arpionato il tablet e stanno leggendo avidamente, le teste inclinate una contro l’altra, simmetriche:
Le assistenti speciali stenderanno una scheda del paziente, attribuendo un punteggio secondo le categorie citate. Tale punteggio permetterà al paziente di accedere ai sostegni trinitari secondo le sue necessità, fino al trasferimento in Quartiere qualora si ritenesse necessario.
Un colpo secco, sopra di loro, come lo sbattere di una serranda. La zia alza la testa di scatto, resta qualche secondo in attesa. Le narici le si dilatano prima di avviarsi. Si avvicina alla scala, sempre scrutando il soffitto.
«O mamma, che disastro!» Giovanna si alza di colpo, allontanandosi dal vecchio, che ora ride sonoramente.
La zia si volta, la madre di Glauco le si avvicina rapida.
«Non è niente.» Con un tovagliolo Giovanna cerca di ripulirsi la divisa impiastrata dal pranzo del vecchio, una brodaglia scura che la insozza fino alla vita: «Approfitto del bagno, se posso».
Ci pensa la zia ad accompagnarla, mentre l’altra continua a leggere, scuotendo la testa.
21
Quella sera sono in tre in casa, a vederli dall’alto ci si stupirebbe della loro distanza: Peppe seduto al tavolo, la cartelletta di Glauco Donati sulle gambe, Marzio appoggiato in un angolo e Giovanna che cammina avanti e indietro, di fronte a loro, ancora vestita da lavoro. Ad avvicinarsi un po’, dall’arco del sopracciglio di Peppe si intuirebbe la sua perplessità.
Giovanna è certa che stiano preparando qualcosa di grosso.
«Mercoledì 13» ripete ossessivamente, come per non dimenticarlo. Marzio la osserva rimasticarlo sottovoce: «Mercoledì 13, via Europa Nuova 39».
Gli sembra la richiesta a se stessa di una conferma, legge il dubbio nel suo sguardo come se non si fidasse di quello che sa.
Peppe arrotola una cartina con le dita, lanciando a Marzio occhiate allarmate mentre Giovanna continua: «È stata Morena a parlarne oggi. È spaventata. Ha paura che li taglino fuori, l’avrà ripetuto dieci volte. In via Europa Nuova 39, mercoledì alle ventidue ci saranno tutti quanti, tutti tranne loro due».
Marzio si gratta la nuca, quando qualcosa non gli torna lo prende un prurito violento. Sente la pelle cedere, si ferma un attimo prima.
«Potrebbe essere una trappola, magari l’ha detto per farti abboccare.» Peppe non ha tutti i torti.
«Donati si fida di me. Non ha un dubbio. Certo lei – ma no, dev’essere così. Non ci saranno le Milizie, bisogna far qualcosa. C’è anche lui, Sante dell’Oro, l’Incaricato. Ne parlano sempre.»
Marzio guarda Peppe, che si è alzato in piedi e soffia fumo, inquieto.
«Peppe, chi è questo Sante dell’Oro?»
Peppe esita squadrando il soffitto, come cercasse una scusa: «Non lo so. Credo ci sia qualcosa su di lui in questa cartelletta. Quando la consegno a Flavio provo a capirne di più. A quanto ne so non è un politico, non è un diplomatico, non è un criminale. Credo sia un burattinaio».
Giovanna sembra non averlo ascoltato, continua a misurare la stanza a passi ampi, guardando dritta avanti.
Per tutta la sera è assente: pallida e nervosa, evita di incrociare lo sguardo di Marzio mentre spizzica un po’ di pane. Spartiscono il silenzio in parti uguali anche quando lei gli si accoccola addosso sul divano, accarezzandogli le spalle. È altrove.
All’alba la sente rivoltarsi nel letto: «Sei sveglio?».
«Ora sì» lui le sorride cercandola nella penombra. Ha lo sguardo spaventato, lo scruta seria e stanca.
«Se decidono di intervenire. Lì, in via Europa Nuova. Se ci vanno, parteciperemo anche noi?» gli chiede, stringendolo più forte del solito.
«Vedremo. Non ci pensare adesso» risponde lui, avvolgendola.
22
Il sole batte obliquo sul loro tavolo. Una ciotolina con del pinzimonio, qualche arachide, l’ombra delle bollicine di una birra che levitano improvvisamente verso la superficie.
Peppe gli strizza l’occhio, Marzio lo segue in silenzio. Si spostano con le bottiglie a un altro tavolino.
«Te l’ho detto che erano loro.»
Glauco Donati e Giovanna sono seduti al bar dall’altra parte della strada, una fioriera scherma parte dei loro visi, lasciando scoperta la coda di Giovanna, che ogni tanto si agita, come ridesse.
«Sta giocando al gatto e il topo, non va bene.» Peppe mastica un’arachide, ne fa rotolare un’altra tra le dita, è nervoso.
«Non lo so. Giovanna dice che…»
«Cosa ne sa? Marzio, ne sa meno di noi.» Marzio gli fa segno di tacere. Si sente una risata sguaiata, forse è Giovanna. Intravedono la sua testa oscillare, quella di Glauco piegarsi in avanti.
«Se Flavio già aveva dubbi sulla vostra presenza all’operazione, dopo questa, proprio…» borbotta.
«Ci andranno, quindi?»
«L’indirizzo corrisponde a un recapito già segnalato. Stasera ci vanno, ma senza voi due.»
Marzio lascia correre, non è il momento di discutere. Lo ha innervosito scoprire che Peppe stesse tenendo d’occhio Giovanna, lo irrita quel cordone di controllo, ma ancor di più dover ammettere che hanno ragione: la sua staffetta al bar con il nemico è indifendibile.
Quando si alzano in piedi, finalmente gli vede il volto. L’ha sempre osservato in fotografia, il dottor Donati, ora eccolo: ha le guance più scavate e un colorito livido, la chiazza violacea scintilla in prossimità del sopracciglio. È diverso da qualsiasi altro umano presente lì. C’è il sole, ma lui sembra proiettare ombre, ingrigito anche nel sorriso. Prende un braccio di Giovanna mentre lei si volta.
Peppe sta per scattare, Marzio lo blocca: Donati vuole soltanto salutarla, appoggia la guancia alla sua nell’imitazione di un bacio. Giovanna simula imbarazzo e accenna un sorriso a occhi bassi, non si volta a guardarlo mentre se ne va.
«Stanotte andranno in via Europa Nuova, faranno quello che c’è da fare e tu da Glauco Donati non ci torni più.» Peppe è perentorio mentre guida, Giovanna accusa Marzio con un’occhiata.
«Vanno senza di noi? E perché? Io non posso chiudere con Donati adesso. Si fida di me, ha promesso che mi darà un posto nel loro Ufficio Stampa.» Giovanna stringe il polso a Marzio, cerca un complice.
Lui non gliela dà vinta: «È pericoloso. Ci fermiamo qui».
Lei gli molla il polso, si appallottola contro il finestrino e guarda il mondo strisciarle davanti. Appoggia la fronte al vetro.
«Funziona così, da voi? Una rischia e gli altri si prendono il merito. Begli stronzi.»
Peppe inchioda, si volta e allunga un braccio agguantandole la testa: «Guardami in faccia, ragazzina. Guardami ho detto. Ne hai già combinate troppe. Cresci. Che è ora».
Giovanna si stacca la sua mano dai capelli, si morde il labbro per trattenersi. Non guarda Marzio e anche lui la ignora, si scaricheranno addosso i temporali soltanto dopo, a casa.
Mentre l’acqua bolle sul fuoco lei gli dice: «Schierati pure con lui, complimenti. Mai dalla mia parte, mai!».
Lui cerca di mantenere un tono neutro: «Non ti appoggio se non sono d’accordo con te. Non chiedermelo».
Lei diventa paonazza e soffia dalle narici: «Come se avessi alternative, come se gli avessi proposto io a quel porco di prenderci un caffè. Siete ridicoli».
Lui, sforzandosi di non perdere il suo aplomb: «C’è di buono che da domani non dovrai più sopportarci: né me, né il porco».
Allora Giovanna se ne va in cucina e sbatte la porta. Non ne emergerà fino a sera inoltrata, come dalla trincea.
Marzio affonda tra i cuscini, il siparietto da coppia piccolo borghese gli fa sembrare quella casa sul lago una gabbia. In camera, nella tasca dei jeans, ha il bigliettino che lei gli ha lasciato quella mattina ed è felice di non averlo letto. Voleva farlo in tutta calma, consumando quello che ormai è un rito, ora si sente patetico. Vede se stesso da fuori, a gambe incrociate sul divano, come un animale esotico vestito da ragazzo.
Il vecchio Sandro è finito all’ospizio, Giovanna fa le bizze chiusa in cucina, Peppe è diventato il galoppino di Flavio. La nuova resistenza è composta da Dinosauri impreparati, il Comandante li ha tagliati fuori dall’unica missione importante per prendersene il merito. Soltanto ora, completamente lucido, si vede disarmato di fronte a una farsa.
Il mondo, dalla finestra, vibra un’ultima volta: la luce del tramonto si addossa ai muri, dilata la profondità dell’acqua, arrossa le barche del piccolo molo, prima di spegnersi.
Contro quali mostri stanno combattendo? La Trinità ha più del settanta per cento dei consensi. Possono condurre i cittadini dove vogliono attraverso il Social e tanto basta. C’è un uomo nella penombra, armeggia con il motore della barca a torso nudo. Con ogni probabilità, ha votato per Demetrio. Anche i due vecchi che camminano a braccetto, lui con il giornale arrotolato a cannocchiale, lei con gli occhiali a farfalla: sono certamente trinitari. Si intravede la giovane cameriera dell’Hotel Fioroni sparecchiare il tavolo, con il suo naso storto e i capelli raccolti. Appare e scompare dal vetro, non è difficile immaginarla alle marce della Nuova Europa abbracciata a un miliziano. Avrà un profilo Social, delle revenues, un articolo contro la caccia alla foca condiviso per mettersi a posto la coscienza. Nessuno vuole essere salvato.
Mentre il sole gorgoglia contro il buio e affonda, una donna in un’altra città con dentro il suo bambino gli sembra l’unica immagine concreta a cui appigliarsi per continuare a vivere. Inseguire il suo destino biologico, esaurire il suo ruolo di padre e poi morire. Esistere come un albero o una delle anatre che stanno zampettando fuori dall’acqua, senza l’arroganza di imporre ordine al caos. Nascere umani è un privilegio indesiderato, perché accettarne la responsabilità? Venire al mondo come orso, scarabeo o come un fiore dell’ibiscus sul balcone, che esplode e muore nell’arco di un giorno.
Ha deciso: se questa notte l’operazione andrà come deve, domani saluterà Giovanna, Peppe, il Comandante, rinchiuderà in cantina tutti gli incubi, tornerà da Martina e imparerà a vivere a metà come fanno gli uomini, accettando metà dei compromessi.
Chiuso in camera, fruga nella tasca dei pantaloni. C’è arrivato sovrappensiero, si accorge del suo gesto soltanto quando ha ben saldo nella mano il biglietto di Giovanna.
Lo apre vorace, cercando la conferma definitiva alla sua decisione, pronto a deridere qualsiasi afflato amoroso. Una volta dischiuso, però, deve rileggere la frase e fare i conti con la delusione.
Gli infelici
hanno dimenticato che dietro le loro orecchie
ci sono le branchie
e non riescono a respirare.
23
Uno, due, pum. Di nuovo il battere regolare contro il molo, nuove immagini iridescenti si avvicendano contro il buio. Non c’è più il mare, l’isola è lontana e lui non è l’unico con gli occhi aperti nell’oscurità. Sa quando Giovanna non sta dormendo per via del suo respiro. Da sveglia è misurato e nervoso, appena si abbandona soffia profondo, senza difese.
È impossibile pensare di prendere sonno mentre da qualche parte, in un seminterrato di Milano, è in corso l’operazione. Immagina il palo fare un cenno con il braccio al Comandante, squadre di Dinosauri trottare su per la via con i passamontagna porpora. Le armi che lui ha recuperato in Svizzera appese ai fianchi, appoggiate agli avambracci, strette nei pugni.
«Dormi, Giò?»
Giovanna si volta indecisa senza rispondere. Marzio cerca la sua mano sotto il lenzuolo ma lei la ritrae come se si fosse punta.
«Oggi volevo proteggerti. Anche Peppe. Quando mi ha avvisato che eravate usciti insieme ho temuto che, non lo so. Poi c’era tutto il nervosismo per l’operazione, è un momento così.»
«Adesso mi è passata, davvero. Ma non devi cercare di proteggermi. Io non sono la tua bambolina.»
«Mai detto.»
Giovanna ha qualcosa da dirgli. Sente le sue parole spegnersi in punta di labbra, poi di nuovo: «Pago credeva che avrei parlato, per salvarlo. Lui non l’avrebbe fatto. Ma io sono una ragazza, quindi sì. Tu pensi di dovermi proteggere, così Peppe. Avete paura che mi prendano e che io ceda. Ma non cederò. Sai cosa diceva mia mamma? Che sono un grillo».
«Un grillo?»
«Sì, era andata a Shanghai da giovane. Lì i grilli combattono. Li catturano, li ingrassano, e poi li fanno lottare. Quando li appoggiano sulla piattaforma potrebbero scappare, no? Basta saltare via, quello ti aspetti da un grillo. E invece no, loro puntano il nemico, gli vanno incontro con coraggio e poi lo attaccano.»
Ridono incerti, la voce rimbalza sul soffitto. Coprono la bocca con le mani.
«Io lo so che sei forte. Che sei un grillo.»
Marzio le si avvicina e sente che il suo corpo è ancora rigido. Lentamente Giovanna gli si distende contro, tiepida. C’è ancora un disagio vago tra i loro due organismi. Lei gli appoggia la fronte nell’incavo della spalla, respira due volte sbuffando sul suo collo.
24
Li arrestano quando già albeggia. Prima di tutto arriva un fracasso simile a un boato. Poi, mentre saltano a sedere sul letto, dei colpi indistinti al viso, sul collo, alle labbra.
Infine le voci, che grugniscono frasi rimasticate come «T’abbiamo preso, porco» o «Ci divertiamo con te, troia».
Li trascinano giù per le scale tirandoli dalle braccia, uno per ogni lato. Giovanna, dietro di lui, non grida.
Li scaraventano fuori dall’uscita sul retro, la ferita più dolorosa è quella del sole, che già splende. Marzio prova a coprirsi gli occhi e si becca un colpo agli stinchi. Scioglie con la saliva il sapore del sangue.
Li caricano su un furgone viola delle Milizie. Anche gli interni sono viola, l’occhio sinistro di Marzio non distingue più i colori, ma con il destro intravede le facce da ragazzini dei trinitari. Soltanto le barbe segnano il confine con il mondo adulto.
Uno di loro legge da un tablet, incespicando: «Con l’autorità conferitami dallo Stato quale capo delle Milizie, vi dichiaro in arresto secondo il protocollo della Nuova Europa».
Giovanna ha la testa inclinata in avanti, capelli sfocati sopra il viso, la sagoma del suo corpo coperta da uno in divisa melanzana.
«Potrete richiedere una difesa dopo essere stati interrogati. La difesa vi sarà concessa se cadrà la presunzione di colpa, come disposto dal decreto antiterrorismo.»
Il furgone prende una buca, dai vetri oscurati è impossibile distinguere il paesaggio, scoprire dove siano diretti. L’autista accelera.
«Le Milizie si assumono il compito di informare i vostri famigliari quando sarà necessario. Fino ad allora siete tenuti a rispondere in maniera esatta e senza alcuna ambiguità ai quesiti che vi saranno posti in sede d’interrogatorio.»
«Eta grilo» Marzio la cerca con gli occhi. «Eta grilo!» dice più forte. Una mano gli si appoggia sulla bocca e ha l’impressione che Giovanna abbia finalmente alzato la testa e che lo stia fissando. Ne intuisce l’ovale bianco del viso ma i lineamenti sono come mescolati da un pennello.
«Eta grilo ne timu», piccolo grillo non aver paura, le ripete a voce più bassa, quando gli hanno finalmente levato il palmo dalle labbra.
Spera che lo abbia compreso, che si ricordi qualche parola di esperanto. L’auto prende una buca e vede la sua testa ondeggiare in su e in giù. Non distingue più i suoi occhi.