1
«In molti mi avete chiesto cosa diventeremo, ora che ogni cosa prende forme nuove. Quali princìpi non cambieranno, quali invece andranno definitivamente persi. Non sono io a dover dettare la nostra legge, ma voi. Ci siamo legati mentre, fuori, ci davano la caccia. Abbiamo condiviso la voce che parlava alle nostre coscienze, è diventata il nostro canto. È quella voce che seguiremo anche oggi. Ci ha parlato quando l’intero Paese sembrava aver scelto la violenza, l’odio, la discriminazione. Ha continuato a illuminarci mentre il Social divorava le vite di chi amavamo assorbendo in silenzio il loro cuore, la loro mente. Nell’ora buia della prigionia mi sono ricordato di voi. Ripetevo a mente i vostri nomi, uno per uno. La notte ripassavo i vostri volti e questo mi ha dato la forza di continuare a lottare. Morire per i propri amici non è il più grande atto di amore? Domani nessuno di noi andrà incontro alla morte. Siamo tanti, l’Unione europea è dalla nostra parte e io vi dico: “Dinosauri, attacchiamo”. Possiamo vincere. Questa mala pianta che è cresciuta tra la nostra gente va estirpata alla radice. Il sangue si lava con il sangue. Sogno una democrazia in cui nessuno si senta lasciato da parte. Sogno una classe politica che metta sul tavolo la propria coscienza. Sogno un cambiamento che possiamo costruire insieme. Non abbandoniamo il campo nell’ora della vittoria. Cancelliamo il passato. Costruiamo il domani.»
L’applauso spacca le pareti e volteggia intorno alle orecchie di tutti. Giovanna batte mollemente le mani, per non dare nell’occhio. Marzio, invece, osserva la scena senza muovere un dito.
Flavio assorbe l’ovazione, immobile. Si è sistemato il colletto, dopo il discorso, e ora è lì, ingessato, il foglio stropicciato in mano. Si deve essere accorto di loro – o di Peppe, in piedi in fondo alla sala. Qualcosa, nell’aria, sembra essersi rotto. L’incresparsi di un’onda che parte dal suo corpo lungo e si dirama frastagliata.
Quel convegno ridicolo è un appuntamento fisso, di pomeriggio, gli ha spiegato Peppe. Da un mese, alle diciassette, Flavio raduna un centinaio di Dinosauri per la «motivazione». La santa messa dei ribelli. Prima interviene lui, poi tocca a Rita.
Eccola alzarsi in piedi, prendere la parola. Il Comandante rimane a fissare il fondo della sala, inebetito.
Peppe bisbiglia qualcosa a Marzio, appoggia una mano sulla spalla anche a Giovanna e le fa cenno di uscire con un occhiolino.
La nuova roccaforte dei Dinosauri è una vecchia scuola accoccolata tra il bosco e il lago. Qua e là, fuori dalla finestra, si scoprono spolverate di neve destinate a ghiacciare sulle sterpaglie. Un’aria gelida, costante, fa tremare le tapparelle, insinuandosi nell’intercapedine con la finestra. Allora anche i vetri vibrano e Giovanna ci passa la mano. Il suo palmo è vento ed energia.
Flavio li raggiunge quasi subito. Allampanato, tormentando la sciarpa con le dita, cammina come se le gambe scattassero a molla, è arrossato: «Perché siete qui? Perché li hai portati?».
Parla con Peppe mantenendo una distanza di sicurezza come fosse contagioso. Giovanna appoggia di nuovo la mano sul vetro. Un gesto bambino che la tranquillizza.
«Dovete andare via subito. Peppe, mi ascolti?»
«E dove? In Svizzera? Ci porti tu, Flavio?» Marzio cerca il suo sguardo a testa alta, stringe la rabbia in tutto il corpo. La tensione gli tende le spalle.
Giovanna cova il desiderio dello scontro, vorrebbe vederli esplodere uno contro l’altro. Bestie selvatiche. Vincerebbe Marzio, Flavio ha troppa paura. Anche ora che avanza, si blocca di fronte a un confine invisibile. La frontiera del suo terrore è a un metro da ogni corpo nemico.
«Sono qui per chiarire la mia posizione» è Marzio ora a retrocedere: «Siamo, qui».
Ecco che Flavio sembra accorgersi di lei. Le lancia uno sguardo distratto. È il suo modo di farle sapere che la disprezza. Il vetro continua a vibrare sotto le sue mani, tanto che Giovanna ha l’impressione che la superficie collasserà. Attende lo schianto, la liberazione dal silenzio che le calpesta il cervello.
L’aria, fuori, sembra rarefarsi
Rita emerge dalla penombra come uno spettro e li osserva con la sua testa spinosa. Non parlerà fino a un cenno di Flavio. C’è un ordine arcaico anche nei Dinosauri, una gerarchia di maschi che reclamano il silenzio delle donne. Eccola, l’eroina del progresso, muta nell’ombra del suo superiore.
«Rita. Non mi vieni a salutare?» La voce di Giovanna è aguzza, vagamente roca. Non se la riconosce.
Rita trasalisce, allunga le braccia sui fianchi. Le sembra improvvisamente minuscola, come si svuotasse un po’ a ogni passo avanti.
«Puoi chiedermelo di persona, ora.» Giovanna si ascolta, dà più tono alle parole: «Domandami se ho tradito. E chiedimi di Flavio, che cos’ha fatto lui. Sono qui apposta».
Tacciono tutti. C’è uno strano imbarazzo di fronte al suo risveglio. Peppe si osserva le unghie, Marzio assottiglia le labbra, come se Giovanna avesse infranto un precetto.
Lei sente calare una profonda stanchezza ma non la vuole assecondare: «Avete scritto “vivi o morti”. Siamo vivi. Avete timbrato un ordine. Eseguitelo, siamo qui».
«Zitta tu. Abbiamo già sbagliato una volta, a darti retta.» Flavio parla con lei ma resta rivolto verso Marzio, come se la sua sola presenza lo mettesse a disagio. La rabbia le inumidisce gli occhi, si morde l’indice per non cedere.
Rita avanza calma, con una compostezza nuova. Sembra una regina, pensa Giovanna, sentendosi stupida. Le è sempre più vicina, seria ma non minacciosa. La abbraccia in silenzio. La stretta arriva inaspettata, è calda, sente l’impegno dei suoi muscoli, il suo cranio lanoso spingere.
«Sistemeremo tutto, Giovanna. Te lo prometto io» le bisbiglia.
Mi sbagliavo, questo è il potere, pensa Giovanna.
I tre uomini che le guardano perplessi ora le sembrano pupazzi spiumati. Rita avanza verso la porta, senza voltarsi. È certa che i maschi la seguiranno e infatti succede: uno dopo l’altro le vanno dietro, tacendo.
2
Conosce persone di due tipi: quelle convinte che gli uomini siano a immagine di Dio e quelle certe siano figli delle scimmie. Nella tensione tra il Dio e la scimmia si genera l’umano, aggrappato con un braccio all’animale e con l’altro al cielo.
Glauco Donati, nato a Erba, professione medico. Non dovrà mentire quando gli chiederanno le generalità. Nessuno gli domanderà se si senta più Apollo o più macaco, né lui si sentirà in dovere di specificare.
Si sono dovuti fermare già due volte e ritornare indietro. Via Regina è pattugliata da branchi di Dinosauri spalleggiati dai manifestanti. Li ha visti soltanto da lontano: uomini, donne, ragazzi, vecchi.
Improvvisamente tutti sono diventati paladini della giustizia: fanno ronde nelle piazze alla ricerca dei miliziani, bloccano le auto chiedendo i documenti. Spezzano le tessere dei nemici. Si vocifera di esecuzioni, ma è certo sia una leggenda. Ne parlava piagnucolando Ingrid, la cuoca: «Ci faranno fuori come topi». Non crede arriveranno a questo punto. Attraversare poche decine di chilometri sembra un’impresa titanica. Sante, però, giura ci sia un battaglione di ragazzi su, in Alto Lago, che li lascerà passare.
È la terza falsa partenza in una settimana, ogni volta il percorso si interrompe per un nuovo posto di blocco, transenne inattese. La moto che li precede torna indietro, accende e spegne i fari, come sbattendo gli occhi. Significa: «Fermi tutti, andate via».
I ribelli hanno costruito barricate con quello che hanno trovato: grate, sedie, frigoriferi, pezzi di lamiera. Sembra la versione terzomondista di un quadro di Delacroix. Qui la Libertà non cavalca cadaveri sbandierando il vessillo blu, bianco e rosso ma sventola uno stendardo con un brontosauro nero in campo rosso. Contrada del dinosauro.
Vorrebbe una di quelle bandiere, Glauco, da lacerare in sfregio. Le reliquie sono buone solo per le profanazioni, il sacro esiste solo per essere ingiuriato. La storia stessa dell’uomo, in fondo, ha inizio dal sacrilegio di Adamo.
Valicare una frontiera con l’appoggio di Dinosauri alleati, ciò somiglia al peccato originale. Una cacciata dall’Eden senza conseguenze, portandosi dietro la testa che tutti reclamano – quella di Demetrio, che dorme con la bocca spalancata, deglutendo all’improvviso con uno schiocco.
Passare indenni per cinque anni di mistificazioni al fianco dell’Incaricato, gloriarsi di essere un minuscolo ingranaggio di quella distruzione che continua a girare, perpetuando l’orrore. E non provare nulla: questo lo sconvolge. Caino dominerà l’istinto del peccato. Ma in lui non ci sono spinte interiori, sensi di colpa. È andata così.
Nel computer ha un archivio di fantasmi. Dopo Luigino e la ragazza thailandese ha ampliato la collezione.
La parola «bruciati» gli fa spavento. «Carbonizzati», ancora peggio. Nei loro hard disk, trasfigurati in pixel, i volti dei prigionieri dissoltisi nell’incendio al Breda. Qualcosa di umano che c’era, pensava, odiava, parlava e adesso è come se non fosse mai venuto al mondo. Dissolto, polvere tu sei. Si stanno portando via l’ultima testimonianza del loro passaggio.
È stato Sante a insistere. Fosse stato per lui e Morena, avrebbero distrutto tutto quanto: video delle confessioni, clip sulle torture, report di ogni forma. L’attenzione dell’Incaricato per quei materiali gli è sembrata uno strascico della sua angoscia da tradimento. Ha smangiato un sorriso e gli ha chiesto: «Hai portato tutto?».
Un’insistenza molesta, che si è fatta viva più volte, a ogni carico e scarico dei furgoni.
«Occupatene tu, degli archivi.» Li chiama così, come se parlasse di vecchi schedari.
Sorseggiando un amaro nella stanza di Demetrio, l’Incaricato ha ribadito la presenza di un doppiogiochista tra i miliziani.
«Ce ne sono sempre stati, di qua e di là» ha chiuso la questione Demetrio, ma Sante ha annuito scrutando un punto lontano, oltre la parete. Vederlo preoccupato lo angoscia, le responsabilità gli piombano sulle spalle come meteoriti.
Nel loro blindato ci sono solo uomini. Visto da fuori, sembra un minivan come tanti, l’ha deluso quell’aspetto mediocre. Quello delle donne, invece, è a tutti gli effetti un pullmino comune, ma loro lo credono a prova di proiettile. Li precede un furgone FedEx di spedizioni. Nel vano merci, in agguato come tigri, quindici miliziani scelti. A seguirli, a poca distanza, un’auto con cinque dei loro soldati in borghese. Non corrono pericoli, dunque.
Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco, per far loro luce.
Tuttavia sapere che Sante ha preferito non prendere posto con loro e si è annidato tra i soldati, nel camioncino che li precede, lo inquieta. Vorrebbe chiedere al driver di fermarsi per fare pipì e scappare come uno scolaro dallo scuolabus.
3
La mattina presto Rita l’ha svegliata e portata in cucina per una colazione veloce, pane e marmellata. Un caffè diluito.
È una vecchia mensa riallestita a refettorio. Odore di cibo liofilizzato, le accende sensazioni sepolte. Asilo, un abbraccio.
I tavoli segnano una geometria fitta e fastidiosa. Gabbia. O è lei che si sente in trappola ovunque, messa al muro dallo sguardo di Rita. Gatta.
«È tutto sottosopra perché tra poco succederanno cose grosse. Hai visto le proteste? Dobbiamo aspettare. Non sai quanto ho pensato a te, quanto!»
Le prende la mano, il suo palmo è umido e freddo, come l’interno di una mela. Giovanna non si fida di tutto questo trasporto. I gesti di Rita tradiscono sempre un livore segreto.
«Facciamo che quello che è stato è stato. Dobbiamo essere uniti adesso, tutti insieme. Sei d’accordo?»
Giovanna annuisce. Un dettaglio alle spalle di Rita la nausea. Uno dei ragazzi, in cucina, ha estratto dei sacchetti da un contenitore bianco, in polistirolo. Bolle rigonfie, un miasma in cui oscilla una poltiglia scura. Venature violacee striano la superficie.
Rita si volta, corruga la fronte, poi torna a rivolgersi a lei stringendole più forte la mano: «Dobbiamo essere pronti, pronti! Cambieranno tante cose, se tutto va bene. Se tutto va come deve andare, le cose prenderanno un altro verso, vedrai».
Le sembra un oracolo che gioca con previsioni nebulose, sempre vere. Una cartomante. Un’imbrogliona.
«Non è il momento delle divisioni. Non per me, non per voi. Dobbiamo farci trovare pronti.»
Pronti. Pretaj in esperanto. Giovanna mastica la parola camminando dietro a Rita.
Attraversano i corridoi. I ragazzi con la mitraglietta si raddrizzano, la mano appoggiata alla cintura. Non hanno divise, la maggior parte di loro indossa un parka o un giubbotto di pelle. Li accomuna solo la spilla con il brontosauro ora al bavero, ora al taschino. Come quelle dei finti punk della sua scuola, pensa alla sua amica Clara. Le sue risate, le sembra di sentirle. Preservatrici. Se mi vedesse ora, riderebbe?
Non sa più nulla di lei. È strano immaginarla allattare, spingere una carrozzina, Supermamma Teen. Non è passato poi molto da quando i loro desideri coincidevano, dai tempi in cui erano in simbiosi. Zampettare come un granchio tra i suoi tentacoli di anemone. Urticanti. Protettivi. Poco più di un anno e segue a passo sghembo la regina dinosaura; è un’altra, non ricorda niente della sé di prima.
Tra un anno ancora chi sarò? si domanda. Penserà alla Giovanna di oggi come a una stupida? Alla subalterna che ha sofferto più di tutti e si ritrova lì, dietro a una che non è mai scesa in campo. Troverà una nuova strada? Pollicino. Detesta autocommiserarsi, ma ora prova una struggente tenerezza per se stessa. È una sensazione bella, piena. Ma c’è altro, dietro. Qualcosa di feroce, che stenta a focalizzare. Più fastidioso del ricordo di Clara, più forte della pietà nel vedersi friabile. È una tremenda nostalgia di sé, una sirena accesa in un punto lontano del cervello. C’è una Giovanna che grida, da qualche parte, finalmente la sente. La voce le è familiare, come se la udisse da sempre. Il corpo di Rita di fronte a lei la innervosisce. Ogni sua parola le suona artefatta, ingannevole.
Sono fuori e il sole sferza le fronde di alberi magri. Marzio non la vede. È seduto poco distante, intorno a lui i ragazzi della baita. Ridono tra loro, non si sono accorti di come il grande Cesare fissi avanti, pensoso. Il silenzio è il primo dei suoi comandamenti. Le fa l’effetto di un bambino, la giacca che indossa gli pende sulle spalle. È dimagrito molto.
L’energia di quel grido che le cresce dentro, vorrebbe trasmettergliela. Andrebbe lì a scuoterlo, se potesse, per dirgli che lei c’è. È tornata.
Pretaj, pronti. Non è più tempo di guardarsi indietro.
4
Il convoglio li raggiunge qualche ora prima del tramonto.
L’hanno mandato a chiamare, ma Marzio era già lì dall’ora di pranzo, abbarbicato con Carlo su una minuscola cengia erbosa.
Ha lasciato i compagni, Giovanna, Peppe, per concedersi del tempo su quel piccolo spiazzo da cui ha l’impressione di vedere senza essere visto. Si è preso qualche ora per completare un quaderno che sta compilando da quando sono arrivati. Ha scritto ogni cosa a penna nera, ha cancellato con tratti pesanti, ha strappato pagine e riscritto. Vuole lasciare una traccia e anche un testimone: Carlo sarà la sua voce, se la situazione precipitasse sarà lui a raccontare il loro percorso. L’arresto, Flavio che li riconosce guadagnando la libertà, la fuga dal carcere con l’aiuto di Sandro.
E anche i giorni che ne sono seguiti: il vagabondaggio, i sostegni mai arrivati. La condanna e tutto quel silenzio.
Ora che ha un po’ di ragazzoni a spalleggiarlo sembra che quella frase – «vivi o morti» – non sia mai stata scritta. Ma non si illude, negli occhi da rospo di Flavio galleggia sempre un astio malcelato.
Dal suo angolo ha potuto seguire l’arrivo del convoglio.
Prima si è avvicinato un furgone FedEx, poi, poco distanti, due minivan seguiti da un’auto di grossa cilindrata. I tre Dinosauri alla barricata li hanno fermati e hanno chiesto all’uomo alla guida di scendere. Un parlottare fitto, che gli è sembrato complice. Hanno aperto la sbarra e fatto passare soltanto il furgone, che si è inoltrato nel piazzale e si è arrestato di fronte a una ventina di uomini e donne.
C’è stato, allora, uno strano movimento.
L’auto in coda ha improvvisamente ingranato la retromarcia e si è fiondata indietro, scapicollando a tutta velocità giù per la strada, rischiando di sfondare il guardrail e finire nel lago, scheggiando il paraurti e infine arrestandosi. Un vociare concitato di echi sempre più prossimi: dalla china sono comparsi una cinquantina di Dinosauri con le armi puntate, che hanno circondato prima l’auto, poi i due van. Da allora, la situazione è come congelata.
La luce ha iniziato a calare, le ombre ad allungarsi. Nessuno si è mosso dentro i veicoli, nessuno ha fatto nulla fuori. Di tanto in tanto qualche nuovo dinosauro si è avvicinato, ha dato un cambio, si è aggiunto al gruppo. Il cielo si è macchiato di viola.
Marzio li ha raggiunti dopo un gran pezzo, a passi cauti. Carlo gli si è avvicinato e si è stirato tutto per raggiungere il suo orecchio: «Secondo me è gente importante. Ci hanno detto di fare andare avanti il furgone e di tenere gli altri fermi qui».
Si sta alzando il vento ora. Il suo rumore lontano, profondo, inizia a mischiare le voci. Il boato di una decina di spari dietro le barricate, poi solo il graffio dell’aria. Marzio si volta, raggiunge i Dinosauri che stanno piantonando i due minivan.
«Stiamo prendendo le generalità, come ci ha chiesto il Comandante Flavio» gli spiega un ragazzo giovanissimo, che stringe male l’impugnatura del mitra. «Ma anche un ordine di Cesare vale uguale» aggiunge, complice.
C’è una testa che sporge dal finestrino, confabula a voce roca con un dinosauro. È un’appendice nera, mobile, parlante, di cui non distingue i lineamenti. Armeggia con alcune tessere che il dinosauro osserva inerte, mentre quello dentro il minivan sembra preso da una smania di spiegarsi, di raccontare.
«Glielo ripeto? Glauco Donati nato a Erba, professione medico. Vede, qui. Abbiamo le tessere d’identità, solo queste. L’Incaricato ha tutto il resto, è sul furgone che è entrato. Ha tutto lui, chiedeteglielo.»
Marzio strizza gli occhi per metterlo a fuoco, lo sguardo fruga nell’ombra alla ricerca degli occhiali, della macchia sul sopracciglio. Il buio però sembra mangiarsi i dettagli.
Carlo lo affianca di nuovo, lo tira per la manica, senza parlargli fino a che non si sono allontanati.
«Ho visto una cosa, non ci credevo ma sulle facce io non mi sbaglio mai. Vicino a quello lì, c’è un uomo con il cappuccio, la sciarpa tirata sul naso. Avvicinati e guarda anche tu. Secondo me è Demetrio.»
Prima che Marzio possa controllare, il cono bianco delle torce striscia sull’asfalto, proietta ombre lunghe che si avvicinano tra sussurri maschili, parole smozzicate. Flavio avanza preceduto da una decina di Dinosauri con le armi puntate.
Al suo fianco c’è un uomo che Marzio deve aver già visto. Ha una camminata animale, un oscillare sinistro del corpo che sembra mutuato da un predatore.
«Scendete uno alla volta, lentamente» ordina un dinosauro, mentre Flavio contempla la scena in silenzio.
La luce sbava il suo contorno, si appoggia al piccolo uomo che lo affianca, scintilla sul cranio coperto da una peluria sottile, cesellata all’indietro, taglia il viso all’altezza dei baffi, minuscoli e aguzzi, che appuntiscono anche il sorriso. Soltanto lo sguardo dell’Incaricato resta avvolto dall’ombra.
5
La sala in cui li fanno entrare, a tarda notte, ha lo stesso odore della scuola di dottrina. I catechisti, qui, hanno le armi.
Le avevano anche allora, pensa Glauco, ricordando il terrore suscitato dalle vecchie con grossi nei sotto il naso, i preti mancati con voci di donna che belavano la storia di Caino e di Abele, di Abele e di Caino.
Si accoccola a terra con gli altri: ora li perquisiranno, identificheranno, sopraggiungerà Sante e dirà: «Tutto bene, possiamo andare». Demetrio si sta cacando sotto, come ogni piccolo duce. Il cappuccio non gli copre che la cima delle orecchie ma lui insiste a tirarlo avanti il più possibile. Sembra indossi una cuffia da nuoto, occhieggia spaurito chiunque si avvicini, scatarra nel fazzoletto raschiando la gola.
Fa freddo qui. I Dinosauri hanno giacche di pelle pesanti, sembrano la caricatura di una banda criminale. Alcuni hanno il viso coperto dal passamontagna rosso, il logo del dinosauro cucito o disegnato a pennarello nero. Non tutti, strano. Giocano ai partigiani ma li faranno passare dall’uscita sul retro.
«Dottore, sono irritato?» Demetrio si scopre una porzione di collo. Glauco dilata la stoffa con gli indici. «Mi gratta tutto, forse è l’orticaria. La sento su tutto il corpo, mi gratta dappertutto.»
«Non è rosso. Forse è un infarto.»
Demetrio si paralizza, non deve aver colto il tono, l’ironia.
«Scherzo.»
«Che cazzo di battute.» Bofonchia un «coglione», forse, ma Glauco ha le orecchie sintonizzate sullo scambio fitto di due, un giovane uomo e una ragazza, che li piantonano dalla porta. «Le donne» riesce a cogliere, «prima le donne», e poi «borse, scaricare».
Ha l’impressione che Morena, da qualche parte in un’altra stanza, possa proiettare raggi dagli occhi e osservarlo. Sarà furiosa? Impaurita? Se la prenderà con lui, bersaglio della sua frustrazione. Quando arriveranno a destinazione le dirà: «È andato tutto bene», le darà una pizzicata al fianco e l’astio muterà di forma.
Flavio, il comandante orbo, sembra averlo riconosciuto. Non ne è sicuro, ma crede di aver intercettato un suo sorriso complice.
È in gamba, non lo pensa di molti. Ha saputo guidare una divisione, si è guadagnato la libertà e ora eccolo qui, tornato ad arrestarli e poi sorridergli. Spende bene le sue carte. Questo gioco a guardie e ladri inizia a piacergli perché sono tutti guardie – tutti ladri – e si riconoscono.
Quando arrivano a prelevarlo, Demetrio fatica ad alzarsi. Lo aiuta un moro con un accento campano e mellifluo: «Presidente» gli bisbiglia «i comandanti di questa divisione vorrebbero incontrarvi. Potreste seguirmi?».
Il corpo del presidente è vetusto di mille anni, devono tirarlo in due per le braccia. Demetrio li segue docile come un condannato. Non c’è nulla di nobile, virile, presidenziale nella felpa col cappuccio, nel passo a singulto. Glauco lo spia in apprensione, temendo crolli a terra. Lo immagina esplodere come un vaso di terracotta, un’impressione così viva da stupirlo quando non accade. Il suo spirito gli è complementare: si sente addosso una vitalità da adolescente che non avvertiva da tempo. Sarà l’adrenalina. O forse un presentimento di vittoria, che si porta addosso dall’arrivo.
Si è appisolato durante il viaggio: al risveglio tutta la paura era passata, come quando nella Bibbia un angelo annuncia la salvezza.
Li conducono in refettorio in fila indiana. Hanno chiesto loro di camminare con le mani sulle spalle di quelli di fronte, sembra un trenino di Capodanno, Maracaibo.
Dall’altra parte della stanza accede un serpente come il loro, ma di umane – i capelli infuocati di Morena sbatacchiano a destra e sinistra, dietro di lei Ingrid la cuoca. Cerca il suo viso ma la Vespa Rossa evita a forza ogni contatto. La sua attenzione è tutta per i tavoli apparecchiati, poco più in là. Qualcuno ci ha già mangiato: smozzichi di pane, ciotole, bicchieri unti di labbra.
Anche il tavolo a cui si siede Glauco è sporco, allinea le briciole con la mano a coltello. Gli versano del brodo con un mestolo, gli porgono un cucchiaio.
«C’è del pane, per favore?»
«Ma certo, adesso arriva» gli sorride il ragazzone che li sta servendo.
Ora Morena lo cerca. Se ne accorge quando si è quasi scodellato tutto il brodo, il liquido ruota caldo nello scarico dell’esofago.
E lei, la pelle tesa sullo spigolare degli zigomi, le cave delle orbite nere, rotte, fa cenno al tavolo alle sue spalle, indica il nulla.
Glauco la raggiunge in punta di piedi, tagliando la stanza in diagonale. Coppie di Dinosauri a ogni angolo: di marmo, sorvegliano il suo passaggio, sorride in saluto a ognuno di loro.
Avvicinandosi a Morena, lo infetta quell’odore. È metallico e pungente, vagamente dolciastro, accende ricordi. La Thailandia, una piccola stanza fumosa, bolle gialle nella brodaglia. Segue l’inclinazione della testa rossa e ne individua la fonte. Un piatto fondo abbandonato sul tavolo alle sue spalle. È ancora sporco: strisce brune e qualche petalo malva scuro, grumi e frattaglie.
«Sante?»
«Tu l’hai visto, Glà?» Morena glielo domanda inghiottendo un cucchiaio di brodo. Di tanto in tanto le scatta il mignolo: il cucchiaio trema, il liquido si rovescia.
«Torna al tuo posto, dài» sbuffa Morena osservando il napoletano che ha prelevato Demetrio puntare verso di loro a passo deciso.
Il ragazzo appoggia una mano alla spalla di Glauco, con l’altra scherma la bocca: «Il presidente chiede di voi, vi vorrebbe vedere».
Glauco annuisce, simulando un’aria corrucciata e complice. Gli va dietro sfilando di fronte alle maschere allarmate dei suoi compagni di viaggio. Alla porta li blocca un improvviso silenzio. Il napoletano si volta e si raddrizza.
Al centro del refettorio, sgranato dai colpi del neon, ora c’è Flavio. Di fianco a lui, una ragazza con i dread fosforescenti. Ha la testa abbassata su un foglio, ma sa a memoria ciò che sta leggendo: li fissa uno per uno recitando come un robot.
«Il tribunale dei Dinosauri si è riunito e ha pronunciato la sua sentenza. Sarete divisi in due gruppi: i colpevoli e i collusi. I collusi avranno diritto a un confronto con i giurati per spiegare perché si trovassero sui veicoli che abbiamo bloccato. Per i colpevoli, invece, è già stato emesso il verdetto. Ogni vostro bene è stato confiscato e ora è proprietà dei Dinosauri. I vostri documenti sono stati ritirati e sono proprietà dei Dinosauri. Tra tre giorni da ora avranno luogo le vostre esecuzioni.»
6
Cosa fa di un corpo un organismo? Il respiro, il martellare del miocardio? Colonie di batteri che si contendono digestione e macero? Forse un cervello elettrico. Percettivo.
Di un organismo un uomo? Si dice animo in esperanto, quasi come in italiano. Il granello irriducibile, la speranza di riconoscere in ognuno l’ombra della matrice. Forse.
Forse a legarci è la paura della morte. La consapevolezza che accadrà. Il punto che intravediamo al termine del periodo. È più di un istinto di sopravvivenza: è la certezza della fine a renderci fratelli di sangue.
Dev’essere così, si dice Giovanna.
Ognuno la prende come può. Demetrio è al centro dell’aula magna, a pancia in su. Loro tutti intorno: in piedi, a gambe incrociate, abbarbicati su minuscole sedie scolastiche. Lei è appoggiata alla parete: ruvidità gelida che le alita sulla nuca. Marzio, dal lato opposto, guada lo spazio a vista. Si muove da lei al capo politico senza il maglione, senza la camicia, senza i pantaloni.
Demetrio indossa calzini neri alla caviglia e boxer sintetici bianchi, il torace ventaglia rapido. I suoi arti, intermittenti, angolano geometrie sghembe. Sembra un grosso neonato. O un insetto.
Non ha preso bene la condanna. Entrato boccheggiando, si è sbottonato immediatamente la camicia, ha chiesto una sedia. Si è seduto. Ha domandato dell’acqua. Ha bevuto.
Si è denudato un pezzo alla volta domandando scusa: «Ho bisogno di un attimo». Ha richiesto la presenza del dottore ed eccolo arrivare.
Glauco Donati diventa una figura concreta, strappato all’oscurità del corridoio e restituito alla luce. La sua pelle oscilla tra i toni del lime e dell’ocra.
Sente che Marzio la sta osservando. La sua attenzione è tattile. Giovanna si scruta i piedi, le unghie, non vuole che la scopra godere. Non c’è niente di nobile nell’euforia che prova.
Non se ne vergogna, ma Marzio la detesterebbe. A volte ha l’impressione che siano separati e uniti da un fossato. A gridarsi frasi, ognuno dal suo argine. Forse è lei a temere se stessa, a proteggersi preservando la voragine. Preservatrice.
Anche lui vive questa scena patetica come un piccolo risarcimento? Anche a lui questi due sembrano Stanlio e Olio macabri, angosciati per ciò che gli sta per accadere? Quale giustizia è più vera del contrappasso?
Il dottor Glauco Donati ausculta il torace del presidente ma la mano gli trema. Sbatte il fonendo contro le costole, i pettorali sfiatati, e si ritrae con una smorfia. Ha recuperato un sacchetto di carta. Glielo appoggia alla bocca: Demetrio lo gonfia e lo prosciuga. Gli arti si distendono, ora è finalmente calmo.
Nella stanza aleggia un silenzio irreale: ogni respiro è di troppo. Giovanna deve tossire ma non può. Il fiato e il cuore annodati nel petto, ingorgo. Ha già provato quella sensazione: la morte di Pago, quello sparo, un’esplosione ovattata, un’eruzione senza via d’uscita, come se troppa vita potesse ucciderla.
Infine tossisce. Due volte, prima piano, poi con un colpo deciso, prolungato.
Glauco Donati si volta d’istinto verso di lei ma non sembra riconoscerla. Scruta lo spazio, imbambolato, torna a guardarsi intorno.
Giovanna è certa che l’abbia vista: sta simulando. Lo avverte come un pipistrello con gli ultrasuoni. Sa che tra due secondi non resisterà e tornerà a voltarsi nella sua direzione. Lo attende come fosse anche lei un chirottero, un vampiro.
Uno.
Due.
Glauco, incerto, lancia uno sguardo solo, rapidissimo, all’angolo in cui è accucciata. Le creature della notte si riconoscono sempre al buio. Si sentono, prima ancora di vedersi, appese a testa in giù al ramo più alto.
7
«Hanno troppa fretta di ammazzarli.»
Quando Marzio parla di temporeggiare, di interrogare, di analizzare il contenuto delle borse, di indagare legami, geometrie, moventi, Giovanna sembra non sentirci più.
Lo guarda, certo, annuisce, certo, ma poi si allontana, come se riconoscesse soltanto il sangue, la sua eco gorgogliante. L’ha sentito avvicinarsi come lo fiuta un lupo, una preda, quella mattina gli ha detto di sentirsi elettrizzata e aveva gli occhi di un tempo – non so cosa mi stia succedendo – c’era in lei un presentimento famelico.
Anche ora, quando dice «fucilazione» cerca di celare una strana scintilla nelle pupille, che la incendia. Non c’entra con la vendetta, ma con il fascino dell’Apocalisse, con il bisogno di punire se stessi, macchiarsi per essere risarciti.
«Sante dell’Oro, l’Incaricato. Hai presente?» lei annuisce succhiando una striscia di liquirizia. «Io l’ho visto con Flavio, l’Incaricato, ieri sera.» Marzio prende a battere il perimetro della stanzuccia avanti e indietro: «Ce li ha portati lui, qui. Devono avere un accordo. Forse l’hanno sempre avuto, no? Ti sembra folle? E ora prima fanno fuori Demetrio e la sua corte, prima chiudono questa storia. E l’Incaricato? Sante dell’Oro, dove l’hanno cacciato? Libero? Troppo facile così».
Giovanna gli si avvicina come se non avesse parlato, come se lui non fosse un cervello in un corpo ma solo spalle, bocca, mani. Ha addosso una vecchia tuta sintetica, le sta larga e il suo corpo sembra quello di un ragazzino – minuscolo, informe – tira Marzio a sé per la camicia, lo trascina sulla branda cercando di baciarlo, affannandosi per aprirgli ogni bottone, spingendo contro di lui il suo minuscolo bacino.
Ha una forza che lo eccita, riesce a spingerlo indietro e poi riprenderselo, la sua bocca lo assorbe, ma a toccarla si avvertono la scalinata delle costole, lo scontro rigido dei femori. Prova a tenerla ferma su di sé ma lei si strofina aggressiva, lo schiaccia contro il materasso: ora ha gli occhi chiusi e le labbra tese, è concentrata su un pensiero lontano, che spinge a forza contro il suo sesso.
Quando è già buio, hanno spento la luce e del piacere resta l’involucro vuoto, lei si ridesta, gli stringe la mano con dita gelide e mobili. Si è fatta ossuta, è come accarezzare uno scheletro, pensa Marzio, vergognandosi un po’. Riesce a intravedere come una linea i suoi zigomi e il baluginio di una piccola luce, umida, nei suoi occhi, quando inizia a parlargli sottovoce.
«Quello che è stato, quello che è. Marzio, io sono stanca e anche tu. Non sei stanco?»
«No, non ora.»
«Tu credi di no, ma lo sei. Io ti vedo. Stai crollando. Forse siamo davvero alla fine. Non trascinarla troppo, questa storia. Non tirarla per le lunghe. Se si deve chiudere, lasciala chiudere. Poi ce ne andiamo, io e te.»
«E dove?»
«In Cina.»
«Proprio in Cina?»
«Sì, voglio vedere la muraglia. E la Città Proibita. Poi torniamo e ripartiamo. Per il Marocco, la Medina, attraversiamo i mercati e ci compriamo le spezie. Lavoriamo un po’ e ogni tre mesi vediamo una città, un posto nuovo. Voglio vedere il mondo, il bello e il brutto. È strano, secondo te? È strano non averlo fatto prima. Vivere ogni cosa. Assaggiare tutto.»
Le accarezza la testa con l’indice e il medio, fa scivolare le dita sul suo collo, segue la fossa vellutata delle clavicole.
«Marzio?»
«Oh?»
«Dormi?»
«No.»
«Sta succedendo come in quel libro. Gianna e Neri. Avevano arrestato Mussolini, ricordi?»
«Demetrio non è Mussolini.»
«Ho quasi finito di tradurlo. Io. Io ero sicura che ci sarebbe successo qualcosa del genere perché era già capitato a loro. Erano tra quelli che l’hanno arrestato. Ti sembra folle? A me no. Sembra una cosa stupida, a dirla così. Ma cosa ne sappiamo, di tutto, cosa ne sappiamo? Chiudi questa storia appena puoi e poi ce ne andiamo, okay? Chiudila prima che puoi. Me lo prometti?»
«Buonanotte.»
8
Quando si desta albeggia e la temperatura si è abbassata ancora. Trema mentre infila il cappotto di Marzio, sgattaiola in corridoio. Presa da un dubbio, riapre la porta dello sgabuzzino allestito a camera: lui non c’è. Le viene da ridere, come può non essersene accorta?
Fuori incrocia qualche ragazzo armato che fa il turno di notte. Quando passa, questi ammiccano come la riconoscessero. La traditrice.
Dovrebbe tingersi, tornare bruna. Cerca se stessa quando incrocia uno specchio. È disabituata ai suoi nuovi colori. Ciocche sbiadite, biancastre: orchidea. Estranea. Dovrebbe scurirsi.
Segue le voci a tentoni, trova i vertici dei Dinosauri in aula magna. Marzio, Flavio, Rita, Peppe. Alcuni dei ragazzi di Marzio, recuperati in baita. Quel Carlo.
Altri di Flavio: due di loro hanno un lampo di selvatico negli occhi, nelle movenze. Un alone disumano, inafferrabile. Crede di riconoscerne uno, il suo sguardo le sembra lo stesso dell’infiltrato a casa di Donati. Anche lui accenna uno strano ghigno quando la vede.
Rita è l’unica a sorriderle davvero. Striscia contro il muro. È un gatto, una bestia invisibile.
Stanno scoprendo il contenuto di una ventina di borse, trolley, grosse valigie. Uccelli saprofagi sulla carcassa: le spalle curve, le bocche piegate in una smorfia di affamato disgusto. Ogni ronzare di cerniere un brontolio, un’esclamazione, fino a quando anche lei si avvicina e spia oltre le loro spalle.
È strano rivedere i contanti, sembrano i soldi finti dei suoi giochi di bambina. Ce n’è una quantità difficile da valutare a occhio nudo. Quattro grandi valigie ne sono zeppe, le mazzette schiacciate una sull’altra, come il bottino di una rapina. Flavio fa ruotare gli occhi guasti, in imbarazzo: «Franchi svizzeri? Quant’è il cambio?».
«Non chiedere a me» fa uno dei due selvaggi, esaminando un centello in controluce. L’altro è poco più in là, le mani affondate in un altro borsone.
Peppe si avvicina loro a passo svelto: «Guardate».
Piccole sacche scure contengono oro: lingotti grandi come una mano, ma anche braccialetti, collane, penne, orecchini, fermacravatta dorati. Il ragazzo si guarda intorno spaesato e colpevole, si appoggia al muro irrigidito.
Si è tenuto qualcosa, pensa Giovanna, gli esamina svelta la forma delle tasche, ma nessuno bada a lui. Marzio si è seduto a terra, pallido. La osserva come se si accorgesse soltanto adesso di lei. Un sorriso con gli occhi pesanti.
Peppe, invece, le fa un cenno con la mano. È di fianco a un cubo di plastica pieno di hard disk: «Questi vanno fatti passare uno per uno, Giò».
Rita si intromette garbata e perentoria: «Li mandiamo in reparto».
«Siamo in ospedale?» la prende in giro lui, ma Rita non ride. Si accarezza un dread. Osserva il cumulo di bagagli, gingilli, banconote, vestiti. Mucchi di oggetti scintillanti che sembrano strappati a un museo. A un bazar.
«Entro sera spediamo un furgone a Milano.» Rita parla ad alta voce, come lo dicesse a tutti, ma fissa Flavio in attesa della sua risposta.
«Dobbiamo catalogare il materiale, prima, stendere un inventario.» La voce di Marzio è rancida di sonno. I corpi si irrigidiscono, si spegne ogni brusio.
«Non è necessario» sentenzia Flavio e Marzio ha uno scatto rabbioso. La voce resta tranquilla ma il suo corpo tradisce uno spasmo violento, poi una fiacchezza inattesa: «Si deve catalogare tutto. Non possiamo perderci dei pezzi. Tutto, una cosa per volta. Non è roba nostra, Flavio. È dei Dinosauri».
«Ma certo, facciamolo. Ha ragione Marzio, un bell’inventario. Appena gli altri si svegliano formo una squadra, in un paio di giorni si fa tutto» chiude Rita, persa nell’osservazione di un grosso anello dalla pietra amaranto.
«Vi dà una mano anche Giovanna, vero Giò?» È Peppe a spingerla avanti toccandole una spalla. Lei annuisce mentre Flavio si allontana, seguito da Marzio.
Rita non la guarda: «Anche Giovanna, sì. Giusto così».
Il sonno buca la veglia. È tutto un ripiegarsi, stendersi. Giovanna si accuccia in un angolo, annusa il bavero del cappotto. Ha l’odore di Marzio, un vago profumo da uomo appoggiato su un alone primitivo. Si chiede di che cosa sappia lei e un’improvvisa nostalgia per Pago le inumidisce gli occhi. Ha dimenticato il suo odore insieme alla bolla della sua faccia, mescolata come un quadro cubista. Ma custodisce ancora la sua piuma in una tasca segreta della borsa.
9
Li trattano da prigionieri per tutta la giornata e Glauco si sente un pesce rosso nella boccia. Aveva letto che i pesci, girando in tondo, perdono il senso dei confini e credono di nuotare dentro l’infinito. Lui invece ha questa impressione, forte, di sbattere sul vetro. La bolla della morte ha già iniziato il suo lavoro di cristallizzazione? Lo sta avvolgendo nella sua crisalide.
Morena, al contrario, lotta rabbiosa. Ha aizzato le donne: una notte di grida, spallate alle porte, inni trinitari ululati in branco, sui quali dominava l’urlo stregonesco della sua Vespa Rossa.
Li hanno riuniti a colazione, una tazza di latte e le facce sfigurate dal terrore. A pranzo non è andata meglio: lineamenti deformi, irriconoscibili. Si sente fluttuante, un ectoplasma che appare e si dissolve. Tra poco lo diventi, pensa e non ride.
C’è quel secondo sé che vigila su di lui, intatto. È una parte profonda, una rete neuronale attiva in un meandro del suo encefalo che brilla, fiaccolando rassicurazioni: non lo faranno. Non li possono ammazzare, passerebbero dalla parte del torto.
Violazione dei diritti umani, assassinio di Stato, si tirerebbero contro la Vecchia e la Nuova Europa. L’Italia intera. Un’orda sbavante di inumani che vuole abbeverarsi alla loro giugulare, risate gracchianti chine sugli smartphone, in attesa di vederli agonizzare. C’è anche questa Italia delle barricate, affamata, pronta a mordere chi era amico. Non esiste.
Si è ritrovato ad accarezzare Demetrio, ieri notte, come una madre. La pietà di Michelangelo. Scena patetica che avrebbe evitato, ma quello gli singhiozzava nella manica del maglione, e poi gli ha affondato tutta la faccia nella spalla inumidendo la stoffa di lacrime, filamenti di saliva.
«Falle stare zitte» ripeteva, tappandosi le orecchie, «falle tacere!»
A pranzo Morena ha smozzicato il pane, sdegnosa, gli occhi ripiegati sul piatto. Forse ha saputo che sta per abbandonarla.
Sono arrivati due ragazzoni, hanno accennato a un trasferimento imminente: «State pronti». Per Demetrio, quindi anche per lui. Il medico segue il paziente, uniti non gli accadrà niente.
Quel secondo Glauco che abita il suo cranio ha un’ipotesi che sembra reggere: raggiungeranno Sante. Non può averli «venduti», come dice Demetrio, «fottuti» come ringhiano gli altri. Non avrebbe senso. Li caricheranno, medico e paziente, su un’auto che si inerpicherà per il lago e poi oltre, verso il confine. Passeranno dogane e controlli e lì, appena entrati in Svizzera, saranno raggiunti dall’Incaricato. Il suo ghignare ironico sotto i baffi aguzzi, le piccole mani nervose, il loro legame innaffiato come una pianta di fagioli.
Dio ti osserva, protegge suo figlio – è una parte ancora più profonda di lui a parlare, forse dalla cella in cui alberga la fede.
10
È tarda notte quando li svegliano. Li caricano su un furgoncino scassato, dai sedili si sbriciolano strisce di spugna.
Il ragazzo alla guida indossa un passamontagna rosso, non li guarda nemmeno nello specchietto. Lasciano il portellone aperto, nell’attesa li punge un’aria affilata. Demetrio, color senape, si appende alla maniglia.
«Dove ci portate?»
Quello con il passamontagna non risponde. Ha dita sottili, delicate, potrebbe essere una donna. Se vedesse i suoi occhi.
«Abbiamo il diritto di sapere.»
La testa si inclina. Copre la bocca con il palmo, una risata androgina.
Accende il motore solo quando lo raggiunge anche un altro, a volto scoperto. È alto, longilineo ma non esile, taglia la luce obliqua dei lampioni con spalle affilate. Glauco ne indaga la sagoma fino a che questo non si affaccia.
«Bravo, scalda il motore. Cinque minuti, ci raggiungono e partiamo.»
È lui. Marzio non si volta verso il dottore ma è come se lo fissasse con lo stesso sguardo sganciato in caserma. Sente qualcosa forarlo all’altezza dello sterno. È un’allegria inattesa, che lo infiamma. Dove c’è Marzio, c’è Giovanna.
Ieri notte non si è sbagliato: era la sua piccola farfalla che ora lì, vicino, vive, respira. L’ha creduta un abbaglio, accartocciata in un angolo, smunta. Come lo fissava mentre soccorreva Demetrio, come gli è sembrata dispiaciuta, bramosa di un cenno di saluto. Deve avere un ingranaggio inceppato nella testa, un bug che ha annientato la sua immagine, il suo rabbuiarsi. Ha cancellato tutto e lei ora riemerge, lampante.
La userà per salvarsi.
Giovanna è in debito con lui: si ricorderà della sua firma per farla uscire. Avrà memoria del loro caffè? Di come l’ha risparmiata durante le torture, rifiutandosi di sfiorarla.
Guarda fuori cercandola, ma nel cortile c’è solo un grosso cane che sonnecchia.
Marzio sale, batte la portiera, finalmente si volta.
«La trasferiamo per metterla in sicurezza» dice secco a Demetrio, come se Glauco non esistesse.
11
«Non sono i soldi la vera ricchezza. Guarda.»
Uaifai è sulla quarantina ma se non fosse per i solchi al bordo degli occhi sembrerebbe un ventenne. Ha poca barba. Prato sfoltito. Giovanna fissa lo schermo senza capire. Una cartella, migliaia di file.
Uaifai picchia sulla tastiera, genera una finestra nera, inserisce un codice. Le sembrano gli anni Novanta, gli hackeraggi visti nei film. Dagli amplificatori del pc si dipana un grattare simile al rumore dell’acqua. Un rubinetto. Si arresta, ora dei passi, il suono secco di piatti su un tavolo. Di legno.
«Siamo a Firenze» la guarda complice Uaifai. «Senti? Stanno preparando il pranzo. Sarà bionda o mora?»
«Come?»
«Quella che sta apparecchiando il tavolo.»
«Che ne so? Bionda.»
«Io dico mora.»
Uaifai digita rapido. Si apre una nuova finestra: pixel quadrati, poi un’immagine. Si definiscono in video i contorni di una cucina minuscola, le tende rosso scuro. Un vecchio si muove incerto. Appoggia le forchette, le fissa. Inverte le posizioni.
«Abbiamo perso in due. Visto che reality show? Guarda qui: old, promilizia, allerta bassa, pensione, poker. Che combo.»
Le mostra i tag sotto il video. Ogni parola chiave apre a migliaia di profili, si può stringere per area geografica, isolare chi ha webcam attive, selezionare i livelli di allerta. Il Social.
«Negli hard disk ho trovato dei file con i codici. Milioni di accessi alle case dei cittadini. Un clic e controllano tutti. È il Social, si connette alle webcam, puoi comandare la casa in remoto con gli home assistant, guarda qui. Mi connetto al suo Trinity, aspetta.»
Uaifai batte sulla tastiera. Le luci si spengono nella casa del vecchio. Lui appoggia la padella in cui frigge qualcosa, alza la testa, sconcertato.
«E questa roba? A chi andrà? Te l’hanno detto?» Uaifai lo chiede fingendo noncuranza. Voltato verso lo schermo la spia con la coda dell’occhio.
«Appena Marzio torna, lo capiamo.»
Una squadra è di qua, l’altra nella stanza attigua: i ragazzi di Uaifai, le dinosaure di Giovanna.
Le ha chiesto Rita di supervisionare la catalogazione. Conteggiare il denaro, stilare una lista dei materiali elettronici, archiviare i supporti cartacei, catalogare gioielli, suppellettili, lingottini. Disposizione di Flavio.
L’inattesa fiducia che le hanno accordato è stata sbugiardata subito. Nella stanza, il mitra a tracolla, si sono presi il proprio spazio i due ragazzi selvatici di Flavio. Controlli di routine. Si aggirano infastidendo le sue catalogatrici. Ricordano alle femmine che le armi le hanno loro, le marcano strette. È un gioco fuori tempo massimo e lo sanno. Le sue otto donne possono disarmarli e sbranarli. Lei stessa potrebbe.
Rita è già passata un paio di volte a vigilare sui lavori. Le ha offerto un caffè, conciliante, dopo quella nottata burrascosa.
Li ha svegliati lei, sedendosi sul letto. Leggera. «Marzio. Marzio. Devi scortare Demetrio. Hanno mandato gente a cercarlo.»
Una squadra dell’Unione europea, ha detto: in incognito, gente dell’intelligence. Francesi e tedeschi, intermediari, hanno fatto visita a una dinocaserma. «Chiedono di Demetrio, pretendono notizie sugli sviluppi.»
Né Marzio, né Flavio vogliono intromissioni, questi strani arrivi, movimenti, rischiano di trasformarsi in nuove alleanze. Quanto ci metterebbero a trovare un compromesso con Demetrio, farlo tornare al suo posto?
Però Flavio è rimasto e Marzio è dovuto andare.
A Giovanna resta la distanza, come una corda che si tende. Sente sempre un’ombra addosso. L’assenza del corpo di Marzio, l’impossibilità di toccarlo, trattenerlo: teme possa dissolversi.
È quel libro sugli amanti, si dice, mi resta sempre addosso. Sono Gianna, Neri, le coincidenze che scandiscono ogni giornata.
È un caso, non devo darci peso, si ripete, però… Però cosa farebbe se lui non tornasse? Se scomparisse come Neri, o peggio.
Ritorna sempre un’immagine: una porta che si apre, una donna bionda che stringe un figlio. Marzio tra loro. Martina come ultima meta. Come può credere che le ragioni del sangue sottostiano alle sue? Finita questa violenza, bruciate le passioni, esauriti i pericoli, lui tornerà un padre. Raggiungerà la Madonna Addolorata in un monolocale di Milano, la bambina santa con i suoi cromosomi. Questo strappo la annienterà e allora avrà perso tutto. Lui si sarà ricomposto mentre lei, frammentata, non potrà più riadattarsi alla sua famiglia, al Quartiere.
Uaifai si è irrigidito davanti allo schermo. La sua sagoma è scura contro la luce del display. Sullo schermo c’è un’immagine che le è familiare ma ha una stortura, come fosse sporca.
È il video del suo tradimento, quello apparso nelle stories delle Milizie. Lei, ma stavolta ha un’altra faccia: zigomi bassi, labbra distorte da un sottile prognatismo.
È Giovanna a premere invio. La ragazza si anima. Guarda in camera, indecisa. Non l’ha mai vista prima. Ha grandi occhi scuri.
Uno schiocco di labbra, scrolla le spalle. I capelli sono decolorati, tagliati sghembi come i suoi. Guarda in alto e ripete delle frasi modulando la voce. Nei Dinosauri – dai Dinosauri. Tossisce, riprova. Stringe molto le a, in una maniera che la mette a disagio. Un sorriso asimmetrico, ritorna a sillabare. La attraversa il motivo di quell’imbarazzo: ha la sua parlata. Sembra la sua parodia.
La ragazza guarda dritta in camera. C’è qualcuno a intervistarla, è un’altra donna. Chiede, indirizza, suggerisce. Quando sospira le ricorda Morena.
«Cos’è questa roba?» Giovanna soffoca il rigurgito di vittoria, lo ricaccia giù. Impassibile.
«Quando entri nei Dinosauri ti fanno il lavaggio del cervello. Cercano di farti fare di tutto. Vogliono persone fragili.»
12
In tre sono pochi, in quattro sono troppi. Lo sconosciuto a cui Marzio deve obbedire è pallidissimo, ha capelli sottili e sfibrati che oscillano a ogni passo. Polsi piccoli, ma un ventre tondo e gonfio, ondeggiante.
Lo chiamano Carioca, lui puntualizza: «General Carioca» e poi aggiunge una ghignata larga, aspra, che a Marzio ricorda un abbaio. General Carioca è l’uomo mandato da Milano, il dinosauro che si accerterà che Demetrio venga protetto fino a quando si deciderà che cosa farne.
«Erano a Como» ha spiegato «e non erano gli unici. Cercano Demetrio. Ci raggiungerà una delegazione dell’Unione europea, diplomatici, nei prossimi giorni. Questi gli stanno preparando il terreno, arrivano come mosche. Dall’Unione, ma credo ci sia dietro la Cia» ha aggiunto con naturalezza, come fosse piombato sulla terra da un vecchio film di spionaggio.
Dopo mezza giornata da apolidi, li hanno alloggiati in un appartamento poco sopra Colico. La sera, Marzio ha acceso la stufa a legna come si faceva una volta. Gli è sembrato che in quel gesto si mischiassero devozione e ribellione. Si stava occupando della salute di Demetrio e insieme gli stava regalando un’illusione crudele di salvezza. Come quando, a lui, avevano offerto una doccia calda e una cena decente in prigione.
È sopraggiunto anche Glauco a scaldarsi, gli ha detto «grazie», sfoderando un sorriso.
Non gli ha risposto. È al limite del crollo. Il confine oltre cui tutto franerebbe lo risucchia verso di sé e deve sempre fare un passo indietro. Comportarsi come se Glauco non ci fosse è l’unico modo per non saltargli alla testa e spaccarla tra i palmi come un’enorme noce.
General Carioca gli piace ancora meno dei suoi prigionieri. Mal sopporta vederlo spegnere i mozziconi contro il muro, detesta non riuscire a dargli un’età, dover ridere sui suoi latrati. C’è un fastidioso contrasto tra la fragilità del suo corpo e l’arroganza ostentata in ogni frase.
«L’ho ammazzato io, il torturatore trap. A Porta Genova, l’abbiamo appeso a gambe all’aria. Piangeva, oh se piangeva. Gli ho detto: “La cosa peggiore è che hai obbligato i nostri uomini a morire con le orecchie piene di merda”. Ci pensate, no? L’ultima cosa che senti nell’ultimissimo cazzo di secondo, vorrà dire qualche cosa, no? Non dico Beethoven, ma neanche quella roba lì» ride, brinda da solo, lancia uno sguardo compiaciuto a Marzio.
Che cosa toccherà a questo cagnaccio sbiadito nell’ultimissimo cazzo di secondo? Cosa si aspetta di trovare, di carpire: quali dèi, quali fantasmi?
E lui, Marzio, quanti secondi ha ancora? Da tutto il giorno le mani gli tremano. La distanza dalla base, il trasporto di Demetrio, l’inquieta segretezza della partenza, Rita e Flavio che lasciano lui e un paio di ragazzi a gestire l’operazione: basta un passo indietro, allargare la prospettiva per sentirsi in pericolo, sospettare un agguato. Si pente di non aver preteso di farsi scortare da Carlo, da uno qualunque dei suoi ragazzi. Loro sono con Giovanna, si dice, è giusto così. E la immagina completamente sola, sdraiata sulla brandina, a torturarsi una ciocca di capelli mentre fa ondeggiare il materasso.
Dalla sua finestra si vede il panorama aperto e nebbioso del lago, un ingolfarsi di terra sull’acqua, superficie sommata a superficie, schermata dalla densità turchese dell’aria. Puntellata di luci umane, costellazioni artificiali che si accendono nella sera.
L’ultima immagine prima di morire, pensa, dovrebbe essere questa.
13
Uaifai ha radunato di fronte al monitor Rita e un magro gruppo di Dinosauri. Giovanna li scruta, non le sembrano umani: le ossa delle spalle, il bacino, un incurvarsi di vertebre. Il loro odore. Rita sbatte le dita sui dread, smarrita.
«Avete pensato a chi gestirà questa roba, adesso? C’è mezza Italia qui. Si entra in ogni casa» insiste Uaifai. «Chi lo controlla ha in mano il Paese.»
Maneggia la tastiera, si compone un’immensa scacchiera di volti che ruotano oltre lo schermo. Il Social.
Rita annuisce, mastica veloce il chewing gum: «Capiremo anche questo. Ci sono cose più urgenti adesso, Uà».
«Riattiveranno il Social per tutti entro la settimana. Ma chi, Rita? Sappiamo chi avrà questi accessi?»
«Ne parlo con Flavio.»
Forse è la stanchezza a scavarle i gesti. Ogni movimento di Rita è uno scatto, sembra aver perso il suo cauto controllo.
«C’è un’altra cosa.» Uaifai adocchia Giovanna: «Vi avevo detto che quel video mi puzzava. Guarda qua».
Sullo schermo si accende l’immagine della finta confessione: l’attricetta che imita Giovanna. Il silenzio di prima si svuota del tutto, come se Rita, Uaifai, i ragazzi non respirassero più.
C’è solo la parodia di Giovanna con le vocali chiuse, il sorriso sghembo, amplificata e distorta.
«Hanno fatto un deepfake. Ci hanno fotomontato la sua faccia, aspetta.»
Lo schermo si divide in due: ora a destra, in sincrono all’attrice, compare la confessione di Giovanna, i suoi lineamenti sovrapposti, mutuati attraverso il software.
Il colpo delle dita di Rita sulla tastiera, la sua voce, infrangono quella liturgia: «Bene, meglio così. Lo mostreremo a chi di dovere».
Giovanna la osserva voltarsi, muovere la testa come se le pesasse. «Ci sono tante cose da capire» aggiunge a mezza voce. Esce dalla stanza quasi zoppicando, come colpita da un dolore fisico.
Giovanna prova a addormentarsi, la notte, ma è impossibile. Ogni volta che chiude gli occhi, si aggrappa al cuscino, ha l’impressione di stringere un secondo corpo. È il petto scarnito dell’altra. Vede i suoi occhi scuri, sente la sua stessa mascella sporgere. Vorrebbe staccarsene ma è saldata al suo organismo da una forza segreta. Giovanna. Laura. Quando apre gli occhi ha l’impressione che l’altra sia lì, nella stanza. Accende la luce per potersi calmare.
Uaifai le ha mostrato stralci delle torture. I video pronti per le stories, i meme con i volti distorti dei torturati: occhi strabuzzati, come se sul dolore vincesse la sorpresa.
Conosce quella sensazione. Lo stupore del male. Scoprire che ci sono sempre stati confini e che ora vengono superati. Imparare che il corpo è una massa di nervi, elettricità, piaghe.
Una cartella con il suo nome, Uaifai l’ha scorsa fingendo di non averla vista. Si è limitata alle preview: piccole figurine allineate, una sé minuscola. Un ronzare lontano, il ricordo avanza felpato. È successo. Il rigurgito della memoria le ha imposto di fermarsi. Se avesse guardato anche un solo minuto di quei video non avrebbe più.
Vissuto. Pensato. Come un vaso che si infrange, scomposta in immagini.
Glauco Donati pesante, su di lei. La canna di un’arma, dentro. Risate e poi uno dopo l’altro. Non è mai successo. Riesce ancora chiudere a chiave certe porte.
Allora perché questa notte non riesce a frenare il tamburo del cuore? È per via Rita, del suo livore? Del sospetto che non smette di spingerle contro? Perché questa seconda lei che è un’altra – un’altra voce, un corpo distinto, due occhi scuri – per quale motivo se la sente addosso?
Deepfake, fonde il tuo viso a un altro: le sue espressioni rimbalzano sulle tue, clonazione digitale, fusione identitaria, inscindibile. Amalgamate, impastate e poi condivise: c’è anche una parte di lei nei video della confessione. Il suo aspetto, la crosta più superficiale di ciò che è.
Sotto quel guscio sopravvive Giovanna, radiocomandata dal Social, infiammata dalla morte di Pago, sbrecciata dai miliziani come un edificio sopravvissuto a un bombardamento. Dove va, questa Giovanna? Quali forze la determinano, calamitano le sue scelte, quali venti la spingono avanti, oltre, e quali ragioni? Esisto e ora lo so. Sentirsi presente a se stessa la calma, riesce a respirare a fondo, lentamente. Quanto è successo non è stato un modo per sfuggire al guscio del Social, a chi aveva scelto per lei? Un estremo, inconscio, istinto di sopravvivenza? Esisto e non devo dimenticarlo.
Immagina quando mostreranno il video a Marzio. Sa che anche lui, segretamente, la crede colpevole. Si concentra sulla gioia, la liberazione di quella prova che fuga ogni dubbio. La commuove immaginare di potergli dire: «Ora lo so, prima non lo sapevo». Di gridargli: «Non l’ho fatto, non sono stata io». Di dimostrargli di essere la Giovanna che non ha tradito.
Se spegne la luce, però, sente la sconosciuta ancora lì. Veglia sul suo sonno, il sorriso obliquo, accarezzandola.
14
È riuscito a parlare da solo con Demetrio. Ha lasciato passare la notte e ha atteso che Carioca la smettesse di alzarsi per pisciare, bere dal rubinetto.
Quando gli altri sono usciti a recuperare qualcosa da mangiare, Marzio ha raggiunto il presidente nella sua stanza.
Demetrio era steso sul letto, supino, torso nudo. Ha inclinato soltanto la testa, sbirciandolo di sbieco, poi è tornato a fissare il soffitto. Marzio si è seduto sul suo materasso e si è accorto che tremava.
«Voglio sapere degli accordi con il Comandante Flavio.»
Demetrio è rimasto immobile, un grasso tacchino, a fissarlo.
«Io posso decidere per te, oggi. Puoi essermi scappato, posso dire che è arrivato un gruppo di miliziani che ha fatto secchi tutti e ti ha portato via. Devo sapere quali sono gli accordi.»
Demetrio ha strizzato le labbra aride in uno sfregare di pelle. Nessun’altra reazione.
«Ti facevo più furbo. Spero che non ti capiti niente di brutto, presidente.»
Marzio aveva già raggiunto la porta quando Demetrio è scattato sul letto: «Possiamo parlarne».
Si è dovuto sorbire i suoi sproloqui, accennare a una trattativa, promettere molto e rivelare poco per scoprire che chi aveva di fronte era la marionetta vuota, disabitata della mano intelligente. Demetrio non sapeva nulla. Giurava di non conoscere Flavio, accennava alle parole dell’Incaricato – sempre lui, Sante dell’Oro – alla promessa del passaggio in un corridoio amico.
«Domani, dopodomani, la gente mi rivorrà. E se mi aiutate oggi, io ricambio il favore» la testa di Demetrio annuiva continuamente: «Trova qualcosa per scrivere, segniamoci un accordo. Lo firmiamo insieme. La gente mi vuole ancora bene. Se ci fosse il Social, tu mi seguivi? Possiamo stringere un patto noi due, vuoi cambiare questo Paese? Non sai che cosa vuol dire, non lo sai. Non dormo più, mi sono riempito di bolle, bolle rosse, il dottore dice che è un eczema. Davvero mi libererai? Dimmi “Sparisci” e sparisco, non mi vedete più».
Uscendo, Marzio ha avvertito una stretta allo stomaco, che non è riuscito a spiegarsi. Ha spalancato una porta sulla paura di un altro, da più di un’ora i suoi deliri gli trottano intorno come un carillon.
Vorrebbe giustiziarlo e proteggerlo, smembrarlo e prendersi cura di lui. L’ha obbligato a spiare lo scempio del suo corpo, si è voltato di schiena per mostrare le sue piaghe aperte come stimmate.
Possono convivere il candore e la ferocia? Possono fondersi la supplica e l’arroganza da generale? Gli è rimasto addosso un frammento infantile e capriccioso di lui, disarmato, a suo modo innocente.
Vaneggi. Ti fai abbindolare da una recita, si ripete ora, facendo avanti e indietro per il corridoio vuoto. Non c’è nessuno a parte il ragazzo di guardia, che gli lancia un’occhiata stanca. Dalle finestre una luce azzurra irrora lo spazio, il quadrante si dilata impercettibilmente.
15
C’è una felpa floscia che pende sulla sedia, le sue sneakers abbandonate in un angolo, gli oggetti che conteneva la borsa mescolati sulla scrivania: la piuma di Pago, un volantino accartocciato accanto a un portadocumenti a fiori, il pacchetto di chewing gum mezzo vuoto, aperto.
La piccola stanza sembra scomposta, ma Giovanna non si cura del disordine. Stende i fogli sulla brandina, le pare di intuire una geografia di parole, il sovrapporsi delle frasi che ha tradotto in italiano estraendole dalla grafia antica, in esperanto. Gli occhi le bruciano un po’, è la stanchezza.
Ha ingannato l’insonnia traducendo il paragrafo sull’arresto del Duce. Gianna incaricata dell’inventario dei beni, come lei, ma non si stupisce della coincidenza. Di cosa dovrebbe occuparsi, in fondo, una ragazza? Anche qui, quasi novant’anni dopo: stendere liste, mettere ordine. Catalogare.
La immagina com’è descritta: «malgranda kaj akurata», minuta e precisa, seduta a un grande tavolo con la testa china, concentrata, le piccole dita intente a battere sulla macchina per scrivere. Si interrompe, Gianna, si tocca una tempia, dubbiosa, per poi ricominciare. Nonostante sia giovane, pretende l’attenzione di tutti quando parla. Neri è lontano, sta scortando Mussolini, mentre lei è lì, circondata da uomini che la spiano, scettici. Volti sconosciuti appaiono alle porte, lanciano un’occhiata ai tesori. Gianna li osserva interrogativa. Richiudono.
Giovanna prende una pagina, in controluce traspaiono le frasi scritte sul retro. Parole che si mescolano. Lei, Marzio, di fronte a questa storia: lettori timidi, affacciati a un passato che sembra richiamarli. Sente l’eco delle voci di Gianna e di Neri, immagina i loro sussurri di notte, a distanza. Vuole credere che anche loro, come lei, muovessero le labbra pronunciando sottovoce il nome dell’altro, quasi potesse portare fortuna.
Allontana quel pensiero, sorridendo di sé, poi lo riprende. Lo tiene stretto, a occhi chiusi, come se le fantasie avessero un corpo. C’è ancora l’adolescente dei tempi di Pago, da qualche parte. Sotto la crosta, gli strati sedimentati uno sull’altro in questi mesi, sente ancora il tepore di un nucleo acceso, che credeva sopito, perso. Lo avverte così, a occhi chiusi, seduta su per metà un foglio, stringendo un’immagine che già inizia a sbiadire.
16
Demetrio gli ha ripetuto per tutta la giornata che è stata trovata una quadra. Tra lui e Marzio, nella sua stanza. Gliel’ha bofonchiato con un dito sulla bocca e gli occhi giubilanti: «Abbiamo fatto un patto. Abbiamo trovato una quadra».
A spiarlo adesso, con le guance gonfie per il reflusso e gli occhi opachi, a Glauco non sembra più così convinto. Sono sul sedile posteriore e li hanno obbligati a mettere le cinture. Ligi al dovere, non c’è che dire. Sarà che sfrecciano per quelle curve al tramonto, sarà che il lago è a mezzo metro dalla portiera. Meglio non rischiare.
Da bambino lo terrorizzavano i luoghi in alto, senza parapetto. Se ne teneva a distanza, i capogiri solo a guardarli. Come se la gravità potesse tirarlo a sé in un abbraccio rovinoso.
Non sa individuare il momento preciso in cui si è lasciato attrarre, ma è precipitato. L’incontro con Sante, si dice, è stato allora che ho capito. Ha avuto la certezza che fosse inutile resistere. Quella forza lo staccava dal suo spazio per trascinarlo verso la prateria più remota di sé, la catacomba nascosta sotto l’humus rispettabile, gli insegnamenti, le catechesi.
Dio è quel magnete che mi ha spinto verso il secondo me. Dio mi ha chiamato dalle profondità e ora sono qui, su questo minivan, perché si compia la sua volontà. Hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello.
Demetrio ha una mano gonfia e purpurea. Se la sta massacrando di nuovo. Le unghie stracciano la pelle.
Quello alla guida indossa ancora il passamontagna mentre al suo fianco c’è il dinosauro pallido che sentono ridere, ruttare, pernacchiare da un paio di giorni: General Carioca.
Pare non abbia sangue, gli ricorda una salamandra, un serpente albino. Dio ha deciso anche i loro destini? Sta tessendo quel momento con i suoi grandi ferri da maglia, infilando un punto dopo l’altro? Inanella le loro vite come fossero di lana e poi le disfa, aggomitola?
La camionetta si ferma. L’albino sfoggia un sorriso largo ma tradisce un’inquietudine: la palpebra gli trema. Anche l’auto davanti, guidata da Marzio inchioda. Ingrana la retro.
«Siamo arrivati, presidente.»
Demetrio agita la testa a destra e a sinistra. Hanno accostato in una piazzetta minuscola: a destra il lago, a sinistra la parete di roccia nuda. Il sole sta calando e la luce è flebile, giallastra. Non c’è anima viva.
Quando le mani bianche di Carioca aprono il portellone, Glauco sgancia la cintura di sicurezza. Passamontagna lo blocca con un gesto deciso: «Tu resti qui».
L’altro, intanto, ha cinto con un braccio il collo di Demetrio, che esce dal van affaticato come un vecchio. Aspettano che anche Marzio li raggiunga, incerto sulle sue gambe lunghe, le mani in tasca. Sembra contrariato, avanza a falcate ampie. Quando gli è di fronte, stringe una spalla al dinosauro albino, tirandolo da parte.
Demetrio ora picchietta le mani sulle gambe, occhieggia verso i due che stanno appartati, discutendo. Le guance si gonfiano e si svuotano, come fischiettasse. Ha la nausea, pensa Glauco.
Anche quello con il passamontagna si è irrigidito, stringe il volante facendo sbiancare le nocche. Di colpo scatta sul sedile, lancia una mano sulla maniglia ma non apre: Demetrio si sta allontanando. Arretra lentamente, come in attesa dell’istante perfetto. E poi deve essere certo di averlo trovato perché si volta, cammina più rapido, inizia una corsa con le gambe paralizzate.
La portiera si spalanca, Passamontagna mette fuori la mano, la spalla, la testa. L’aria entra, fredda, strofinandosi sulla macchia viola che Glauco ha in fronte, spannando i finestrini gocciolanti.
Gli spari dell’albino vibrano secchi nel silenzio. Il corpo di Demetrio fa ancora in tempo a muovere qualche passo, inconsapevole. Poi si ferma, la luce ora è vivissima e lui si accascia un po’ alla volta: prima sulle ginocchia, poi su un fianco.
Marzio resta immobile mentre l’altro si avvicina al sacco di carne. Lentamente, di malavoglia, lo raggiunge anche lui. Restano quasi un minuto chini sul corpo, senza toccarlo, come stupiti. Marzio allora toglie la sicura alla pistola, la punta sul fagotto, ed esplode un altro colpo.
Dio, da qualche parte, sta osservando quella scena. Il suo occhio incendiario passa su Marzio, scivola sull’albino, e infine inquadra Glauco. È certo che sia stata la sua pupilla di fiamma ad avergli prosciugato ogni emozione. Non riesce a percepire altro che il battito profondo, sul timpano, del proprio cuore.
Non si accorge né dei pantaloni bagnati, né della pozza che dalla sua scarpa si allunga sotto il sedile.
17
La mattina Giovanna lo trova seduto spalle al muro, come un bambino che si sia perso. Ma questo ha i capelli bianchi e gli occhi scaltri. La squadrano feroci, rabbiosi. Poi si acquietano.
«Ciao.»
Il vecchio si fa una gran ghignata. Ride a colpi, come tossisse: «Ciao».
Sandro accetta il suo aiuto per alzarsi, le ciondola dietro come un randagio. Finge noncuranza ma le fa le feste in mille modi. Le domanda di lei, di Marzio, di come si stiano mettendo lì le cose.
«Non bene. Ma nemmeno male.»
La imbarazza averlo intorno. Non sono intimi, hanno scambiato soltanto qualche parola al Breda, ma sente di conoscerlo. Eppure in lui, nella sua voce, non ritrova le parole del Libro degli amanti, non riesce a immaginarlo giovane.
Sandro vuole sapere tutto, la incalza con un’invadenza innocente, a suo modo affettuosa. Sa di Demetrio, dell’arresto dei suoi uomini, poi all’improvviso finge di esserne all’oscuro: «Ho tirato a indovinare».
I Dinosauri terminano il turno in piccoli gruppi, invadono lentamente gli spazi come minuscole api operaie. Ognuno agita le mani su una tastiera, sui caricatori, in mezzo ai volantini.
Dalla mensa emergono file ordinate di uomini e donne. Sandro li scruta, attraversa insieme a lei i corridoi posando gli occhi su ogni gesto. Ha l’impressione che il vecchio disprezzi ogni singolo scomparto di quel macchinario, ogni meccanismo del loro sistema. Forse invecchiare è questo, pensa Giovanna, osservare tutto dall’alto e non vederlo. Però ora il microcosmo dei Dinosauri imbarazza anche lei. Le sembrano inadeguati, cerca nelle frasi di Sandro una rassicurazione. Ci scopre solo biasimo: «Giocate a fare la guerra. Giocate e basta» mormora.
Vorrebbe essere nella stanza di Uaifai a elencare, catalogare, tenere il conto di quello che potrebbe sparire, ma Rita le ha chiesto di passare la giornata a fare da vedetta. Quella montagna grottesca di oggetti. I corpi cristallizzati in pixel nelle torture. Vorrebbe proteggere i filmati in cui è ritratta nuda, custodirli come spine dorate, riguardare all’infinito il prognatismo dell’attricetta che si è finta lei. Preservare dal tempo e dagli sguardi i video in cui… Non è successo niente.
«Li hai conosciuti, Gianna e Neri, tu?»
«Prima Neri, poi anche lei.» Sandro si prende del tempo, scruta il cielo, poi abbassa lo sguardo verso gli occhi di Giovanna: «Camminava sul ciglio della strada, con la sua bicicletta. Ero un ragazzino, lei mi ha sorriso, un po’ indecisa, come se volesse chiedermi qualcosa. Poi ha proseguito oltre, si è allontanata e non l’ho rivista mai più. Tutta quella tristezza, Gianna».
Sorride anche lui, senza nascondere la malinconia, Giovanna annuisce. L’immagine dei fogli affastellati nella borsa, sotto il letto. È come risvegliarsi: l’inchiostro che traccia le parole, la piuma che le ha regalato Pago, i pizzini con le poesie che ha conservato. Quelli masticati e ingoiati. Tutto, insieme, chiuso nel cuoio e mescolato nella borsa, è esattamente come lei e questo vecchio, uno di fronte all’altro. Molecole simili organizzate in schemi diversi. Le lettere che formano il senso, il passato stratificato sul presente. È meno di un pensiero: un sommarsi la colpisce come un ricordo.
Per un istante, che passa lasciandola confusa, le sembra di aver già vissuto questo momento, altrove. Lei, un uomo giovane e vecchio insieme che la scruta rimestandole dentro.
Peppe li raggiunge e si porta le mani alla bocca, nei capelli: «Sandro!».
Marzio gliel’aveva presentato ai tempi del vaccino, il Vecchio Immortale. È preso da una commozione insolita, che gli sta male addosso. Gli storpia i lineamenti come a un pupazzo.
«Marzio sa che sei vivo? Ah, quando ti vede! Pensavamo che… Sta tornando, credo, stai con me che gli facciamo una sorpresa.»
Peppe estrae lo smartphone, digita qualcosa. È strano rivedere i cellulari, Giovanna era certa non li potessero usare, e invece…
Peppe controlla su Maps, segue con l’indice il puntino blu intermittente che segnala un movimento lungo il lago.
«Eccoli qua, mezz’oretta e sono di ritorno. Pranziamo con Uaifai?»
Mentre raggiungono il deposito, lei evita di chiedergli se sia tornata la connessione, se abbiano già riattivato il Social. Non vuole che ne rida, che la guardi paterno. I suoi capelli lucidissimi oscillano a frotte mentre avanza.
Continuano a ballargli sul collo mentre Peppe prova ad aprire la porta, bussa, tira una spallata, mentre chiama Uaifai: «Apri, siamo noi».
La porta, però, resta chiusa. Nessuno si affaccia.
«Sarà già in mensa. Vive di pause, questo. Gli scrivo.»
Ma invece di digitare scrolla lo schermo, resta a fissarlo corrucciato, per poi ridere di gusto. Il momento si dilata in maniera imbarazzante. Ci vuole troppo perché lui si riscuota e le mostri il video di una moto guidata da un labrador.
«Chissà come le fanno ’ste stronzate» dice tra sé tornando, ipnotizzato, al display.
18
Non doveva andare così. Le nocche della mano destra sono sbucciate per i pugni tirati al cruscotto.
Il problema sono gli occhi, pesanti, galleggia nel dormiveglia. Hanno passato una notte a decidere che fare del corpo.
Loro, non lui: Flavio e Rita hanno impartito ordini a distanza a Carioca, come se Marzio non esistesse.
Un andirivieni da una stanza all’altra, un orecchio al parlottare di Carioca nella camera a fianco, uno al cortile, come si aspettasse di udire un gemito del cadavere. Nessuno ha osato spostarlo, né nominarlo: è rimasto fino al mattino nel bagagliaio come se non esistesse. Non si sono chiesti cosa farne, quasi che pronunciare la parola «corpo» o «Demetrio» lo potesse scuotere, riportare in vita.
Di tanto in tanto uno dei ragazzi bussava, chiedendo cosa fare con Donati, piegato con la testa nel cesso per l’intera serata. La cosa più semplice: nulla.
È sorto il sole in un silenzio irreale e il generale albino ha atteso troppo prima di ordinare il rientro con una piva che lo tramutava in un vecchio: «Flavio e Rita dicono di tornare immediatamente alla base in attesa di nuovi ordini».
Quello di fianco a Marzio non fiata, ha alzato il passamontagna e respira con la bocca aperta. Avrà venticinque anni, si vede che Demetrio è stato il suo primo morto. L’ha raccolto come una bestia velenosa, tenendolo a distanza.
«Tutto bene?»
«Bene, comandante.»
Dallo specchietto spia la faccia cadaverica del Carioca. È sul minivan che lo segue: la bocca larga e l’aria impassibile, forse avverte che Marzio lo sta osservando. Hanno ancora il corpo nel bagagliaio, la testa e il busto avvolti in una bandiera dei Dinosauri.
Si sono dovuti fermare già una volta per fare prendere aria all’altro zombie. Glauco Donati è sceso, ha boccheggiato come dovesse vomitare, ha soffiato conati a vuoto. Come non avesse già dato abbastanza la scorsa notte.
Marzio immagina le spiegazioni che dovrà al Comandante, una volta arrivato. In ginocchio, prostrato, al patibolo: il fiato di Flavio che gli soffia sulle orecchie, sul collo, il suo alito guasto che gli circonda la testa. Potrebbero attribuirgli nuove colpe, l’insuccesso del trasferimento, e allora cosa potrà dire?
La verità, che altro?
Carioca che contro ogni piano accosta, trascina giù Demetrio e gli dice che sta andando a morire. La loro discussione, la tentata fuga chiusa dallo sferragliare dei colpi.
Non potrà parlare degli occhi bianchi di Demetrio che ruotano verso il cielo, del rantolo e la mano tesa. Ma dovrà spiegare il suo sparo che interrompe quel trapasso. È stato Marzio a finirlo. Quel rimbombo gli vibra addosso come potesse ucciderlo a sua volta, il pizzicore al naso, non può giustificarlo, come può dire «ho provato pietà» e allo stesso modo come fingere «gli ho dato quello che si meritava»?
Arrivati alla vecchia scuola, i due all’ingresso gli chiedono i fogli di via, nonostante lo conoscano. Vogliono fare bella figura, pensa Marzio e gli mostra anche quelli del ragazzo che gli sta di fianco, improvvisamente ridestato dal torpore. C’è un’umidità densa, di pioggia imminente.
Li lasciano entrare lentamente. Carioca scende prima che il minivan accosti, si muove a gambe larghe verso il cesso.
Il compagno di viaggio di Marzio armeggia con lo smartphone, picchietta con l’indice e il medio sul display.
«C’è campo?»
«Hanno riattivato il Social, comandante. Non ha ricevuto l’ordine?»
Marzio spegne il motore, lo osserva spaesato. Questo ragazzino gli sta imponendo un ordine di altri. Ora toglie il passamontagna, si riavvia i capelli impastati.
«Questa notte. Il Comandante Flavio ha disposto la riattivazione degli smartphone. Il generale Carioca non l’ha avvisata? E un’altra cosa.»
Armeggia con il cellulare e glielo porge solo dopo una breve ricerca. È un messaggio di Flavio scritto in un italiano artefatto, come fosse un telegramma.
Marzio lo rilegge un paio di volte, scuote la testa.
«Non lo eseguite. Dov’è Flavio?»
«È partito per Milano, comandante. Ci ha inviato istruzioni dettagliate via mail su come fare tutto, anche gli accessi al profilo social delle Milizie. Abbiamo già ogni cosa pronta, non si deve preoccupare.»
Marzio estrae il suo vecchio Nokia, armeggia sui pulsanti alla ricerca del numero di Flavio. Il fischio della chiamata si allunga in un silenzio ruvido.
I due Dinosauri, intanto, stanno eseguendo l’ordine.
Si sono calati i passamontagna rossi sulla faccia e hanno spalancato il portellone del van. Marzio non prova nemmeno a fermarli, schiaccia il cellulare sull’orecchio, in attesa.
Del corpo di Demetrio ora si intravedono soltanto le gambe abbandonate e vuote, che dal parafanghi ricadono sulla strada.
I due ragazzi fanno un passo indietro, bisticciano indicando un angolo, schermando lo smartphone con la mano.
Poi si decidono, inquadrano e scattano.
19
La morte, da bambino, gli sembrava molto più densa e concreta di come, crescendo, è andata rivelandosi. Autodifesa dalla carne scarica, disadorna, la pelle afflosciata sulle ossa, la bocca abbandonata.
Negli anni Glauco ha imparato a immaginare il trapasso come un liquefarsi, la decomposizione uno sfogliarsi in attesa dello sfaldamento finale. Liberatorio, catartico. Un abbellimento che questa notte cede il passo alla vecchia compagine di corpi vuoti. Infilati dentro bare affastellate nei loculi, fotografie archiviate di fianco a un nome e cognome in bronzo, puntinate da una fiamma artificiale che trema – e fa tremare – nell’oscurità. O, peggio, organismi insepolti lasciati a marcire sotto un cumulo di torba. Così dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete.
Ha preteso di parlare con Giovanna ed è stato accontentato. Era certo che lei avrebbe opposto qualche resistenza, invece no.
«Arriva, dottore, arriva» gli hanno detto con un tono di sfottò.
Durante la lettura della sentenza, Morena non ha smesso di fissarlo. Gli occhi tondi, incastonati nelle orbite scure, le labbra secche, tirate al punto da scoprirle gli incisivi. Piccola bestia inquieta. Cercava di sfuggirle, ma lei lo ha inchiodato con quella fissità che non le è mai appartenuta. Hanno detto «processo» mentre si trattava di una recita, hanno ripetuto «condanna» per coprire la parola «vendetta». Hanno detto «fucilazione», per domani mattina.
Allora ha fatto chiamare Giovanna. «Un suo vecchio amico» ha assicurato «dite che la cerca il dottor Donati.»
Deve averla convinta, perché al termine del loro colloquio – breve ma eterno – l’ha vista mutare.
Appena entrata si percepiva il disagio nascosto dietro il paravento del suo viso. C’era e non c’era, come un fantasma di ossa e muscoli: eccola lì, di fronte a lui eppure anche da qualche altra parte, nelle caselle del ricordo, sommata a tutte le immagini di lei che ha visto e costruito nella fantasia.
Ha provato a prenderle la mano, che lei ha ritratto pronta, uno scatto involontario di paura. Allora le ha spiegato tutto quanto.
Da tempo desiderava poterle dare la sua versione dei fatti. Ha iniziato dal principio, da come si è sentito quando ha scoperto il suo tradimento, proprio a lui che con la Trinità aveva a che fare poco e niente, che è stato costretto da Sante dell’Oro a firmare il Manifesto genetista – e se tornasse indietro lo brucerebbe con le sue mani. Le ha spiegato come gli ultimi cinque anni e mezzo abbia vissuto all’ombra di Sante, una bolla che avrebbe voluto fare esplodere ma per un ragazzo fragile come lui, insomma per chi sarebbe semplice?
E poi Morena, che negli anni, nei mesi si è trasformata in quella che ha conosciuto. Una belva e lui, preda tra due fiere, ha fatto quanto poteva per sopravvivere, per mettere anche Giovanna al riparo da loro. Certo, ha sbagliato, ma si è sempre fermato un passo prima.
Quando Morena gli ha ordinato di farle certe cose, ad esempio, si è rifiutato di obbedire. Ha sempre chiesto di lei. Anche quando, Giovanna non lo sa, le sue mani hanno rischiato la cancrena, c’era lui pronto a guarirla.
Fosse stato per Glauco, quel filmato della confessione non l’avrebbero nemmeno girato. Sa di una copia negli hard disk, la può aiutare a ritrovarla per dimostrare la sua innocenza. Come non l’avesse già sostenuta abbastanza: il foglio di rilascio che le ha permesso di uscire dal Breda ha in calce la sua firma. Ha fatto quello che poteva per salvarla, dimenticandosi di come l’avesse tradito, ingannato, perché lui sa – e anche lei – cosa significhi non poterne uscirne, farsi travolgere dagli eventi.
Le ha aperto gli occhi su Sante dell’Oro ma lei lo guardava come se non capisse. Le ha ripetuto che quello ora scende a patti con loro ma è pronto a tradire qualsiasi accordo per un interesse minuscolo. Gli è stato accanto per anni e sa di cosa è capace.
«C’è una cartelletta» le ha spiegato «di pelle scura, con del materiale su di lui. Nella mia valigia, sai.»
Doveva usarla per distruggerlo. Gli è parso che gli occhi di Giovanna scintillassero, per poi spegnersi di nuovo.
«Proprio quella. L’avevi presa tu, ricordi? Nella mia vecchia casa. È stata mia, poi tua, poi mia di nuovo. Recuperala, è l’unica arma che abbiamo.»
Il passaggio al plurale è stato decisivo. Giovanna non ha saputo nascondere un sorriso complice, ha annuito veloce. Le ha chiesto una promessa, le ha fatto giurare che avrebbe interceduto per lui. Sorridendo, annuendo, ha risposto: «Farò quello che posso».
Ora che se n’è andata, che il buio ha riempito la stanza, la immagina parlare con il comandante Cesare, insistere. Eccolo guardarla comprensivo, poi più attento. Li immagina intorno al tavolo, con gli altri Dinosauri, Flavio a capotavola a riaprire la sua pratica, a battersi per lui.
L’altro Glauco, dal fondo del cervello, lo osserva chiedendosi se ci creda davvero.
«Sì» risponde il dottor Glauco Donati. «Io vivrò.»