Introduzione

Cosa sta succedendo? A cosa stiamo assistendo, in parte affascinati e in parte abbattuti? Al prolungarsi, in un modo o in un altro, di un mondo stanco? A una benefica crisi di questo stesso mondo, in preda alla propria vittoriosa espansione? Alla sua fine? All’avvento di un altro mondo? Cos’è insomma che ci sta accadendo, alle soglie di questo secolo? A che cosa non riusciamo a dare un nome preciso in nessuna delle lingue conosciute?

Consultiamo i nostri padroni: banchieri riservati, tenori mediatici, insicuri membri di comitati importanti, portavoce della «comunità internazionale», presidenti indaffarati, nuovi filosofi, proprietari di fabbriche e di patrimoni, uomini di Borsa e di consigli di amministrazione, politici chiacchieroni dell’opposizione, notabili delle città e delle province, economisti dello sviluppo, sociologi della cittadinanza, esperti di ogni genere di crisi, profeti dello «scontro di civiltà», importanti capi della polizia, della giustizia e della «penitenzieria», valutatori di utili, esperti di rendimento, compassati editorialisti di grosse testate, direttori delle risorse umane; tutte persone che non sono affatto di poco conto, e che dovremmo preoccuparci di non considerare come tali. Cosa ne dicono tutti questi dirigenti, tutti questi opinionisti, tutti questi responsabili, tutti questi «acchiappagonzi»?

Ci dicono tutti che il mondo sta cambiando a una velocità vertiginosa, e che, per non finire in rovina o per non morire (per loro è la stessa cosa), dobbiamo adattarci a questo cambiamento oppure diventare, nel mondo che verrà, soltanto l’ombra di noi stessi. Dicono che dobbiamo energicamente impegnarci in questa incessante «modernizzazione», accettandone le inevitabili sofferenze senza battere ciglio. Dicono che, considerato il duro mondo della concorrenza che ogni giorno ci mette alla prova, bisogna ormai percorrere il cammino in salita della produttività, della riduzione dei bilanci, dell’innovazione tecnologica, della buona salute delle nostre banche e della flessibilità del lavoro. Nella sua essenza, ogni concorrenza è sportiva: in sintesi, questo significa che, senza attardarci troppo in coda al gruppo, dobbiamo cominciare a prendere parte all’ultima fuga alle costole del campione di turno (un asso tedesco, un outsider thailandese, un veterano britannico, un nuovo cinese, senza contare lo yankee, sempreverde...). Tutti devono pedalare: modernizzare, riformare, cambiare! Qual è l’uomo politico che in campagna elettorale potrà fare a meno di proporre una riforma, un cambiamento, una novità? La disputa tra maggioranza e opposizione prende sempre più una forma che può essere riassunta nel modo seguente: quello proposto dall’altro non è il vero cambiamento, è un conservatorismo appena ritinteggiato, il vero cambiamento sono io! Basta guardarmi per averne la certezza. Io riformo e modernizzo, le nuove leggi fioccano ogni settimana. Basta con la routine! Abbasso gli arcaismi!

E allora cambiamo.

Ma che cosa si deve cambiare, nello specifico? Il cambiamento deve essere incessante, ma la sua direzione, a quanto pare, non cambia. Conviene allora adottare in fretta tutte le misure che la congiuntura ci impone, in modo tale che i ricchi possano continuare a diventare sempre più ricchi e a pagare meno tasse; in modo tale che, a furia di licenziamenti e di piani sociali, gli effettivi delle imprese possano diminuire; in modo tale che tutto quello che è pubblico possa essere finalmente privatizzato e contribuire così non tanto al bene pubblico (categoria particolarmente «antieconomica») quanto alla ricchezza dei ricchi e al mantenimento, ahimè costoso, delle classi medie che, dei suddetti ricchi, costituiscono l’esercito di soccorso; in modo tale che le scuole, gli ospedali, gli alloggi, i trasporti e le comunicazioni, questi cinque pilastri di una vita decente per tutti, possano prima di tutto essere decentralizzati (è un passo in avanti), poi posti in un contesto di concorrenza (è cruciale) e infine abbandonati in pasto al mercato (è decisivo) permettendoci così di non fare più confusione tra i luoghi e i mezzi dove e grazie ai quali si educano, si curano, si alloggiano e si trasferiscono i ricchi e i benestanti e quelli dove sgobbano i poveri e i loro consimili; in modo tale che gli operai di origine straniera, che spesso vivono e lavorano qui da decenni, possano vedere i propri diritti ridotti a zero, i propri figli maltrattati, i permessi di soggiorno annullati, e possano veder riprendere contro di loro le violente campagne di «civiltà» e dei «nostri valori»; e in modo tale che le ragazze possano uscire per strada soltanto a capo scoperto, scoperto come tutto il resto, preoccupate di dover affermare la propria «laicità»; in modo tale che i malati mentali possano essere messi in galera per sempre; in modo tale che gli innumerevoli «privilegi» sociali con cui si arricchisce la plebe possano essere smantellati; in modo tale che possano essere imbastite sanguinose spedizioni militari in Africa per far rispettare i «diritti dell’uomo», ossia i diritti dei potenti che fanno a pezzi gli Stati e che, combinando occupazione violenta ed «elezioni» fantasma, mettono ovunque al potere valletti corrotti pronti a consegnare nelle loro mani tutte le risorse del paese.

Quelli che all’improvviso cominciano a opporsi al frazionamento dei propri paesi, al saccheggio operato dai potenti e ai «diritti dell’uomo» che lo accompagnano, qualunque siano le loro ragioni, anche se in passato sono stati utili alla «modernizzazione» o anche se in passato sono stati servitori compiacenti, saranno portati di fronte ai tribunali della modernizzazione e se possibile impiccati.

Questa è l’invariabile verità del «cambiamento», l’attualità della «riforma», la dimensione effettiva della «modernizzazione». Per i nostri padroni, è questa la legge del mondo.

Questo piccolo libro intende contrapporvi una visione delle cose leggermente differente, che riassumeremo qui in tre punti:

1. Sotto gli interscambiabili nomi di «modernizzazione», «riforma», «democrazia», «Occidente», «comunità internazionale», «diritti umani», «laicità», «modernizzazione» o altro, riscontriamo soltanto lo storico tentativo di una regressione senza precedenti, la quale tende a conformare lo sviluppo del capitalismo globalizzato e l’azione dei suoi servitori politici alle regole delle loro origini: il liberalismo a oltranza della metà del XIX secolo, il potere illimitato di un’oligarchia finanziaria e imperiale, e il parlamentarismo di facciata messo in piedi, come diceva Marx, dai «procuratori del capitalismo». A tale scopo, si dovranno ricostituire i diritti degli imperialismi, i famosi «valori», e si dovrà distruggere senza pietà tutto quello che le forme organizzate del movimento operaio, del comunismo e del socialismo autentico erano riuscite a creare e a imporre su scala mondiale tra il 1860 e il 1980, costringendo il capitalismo liberale sulla difensiva. Questo è l’unico contenuto della «modernizzazione» in corso.

2. Il momento attuale segna, in realtà, gli albori di una ribellione popolare mondiale contro questo processo di regressione. Ancora cieca, ingenua, dispersa, senza concetti forti né organizzazioni durevoli, assomiglia per natura alle prime insurrezioni operaie del XIX secolo. Propongo quindi di affermare che siamo entrati nel tempo delle rivolte, in cui annuncia e si afferma un risveglio della Storia contro la pura e semplice ripetizione del peggio. I nostri padroni lo sanno ancora meglio di noi: tremano e, in segreto, rinforzano le loro armi, tanto sotto forma di arsenale giuridico quanto sotto forma di contingenti armati dell’ordine planetario. È urgente ricostituirci, o inventarci, i nostri.

3. Perché questo momento non finisca per ristagnare in eroici episodi di sconfitte di massa, o nell’interminabile opportunismo delle organizzazioni «rappresentative», dai sindacati corrotti ai partiti parlamentari, il risveglio della Storia dovrà essere anche il risveglio di un’Idea. La sola Idea in grado di ostacolare la versione corrotta e atona della «democrazia» – diventata la bandiera dei legionari del Capitale – e insieme delle vaticinazioni razziali e nazionali di un piccolo fascismo a cui la crisi offre un’opportunità a livello locale, è l’idea del Comunismo, rivisitato e alimentato da ciò che la vivace diversità delle rivolte, per quanto precarie, ci insegna.