Sonni e risvegli

Giulia

Qual è il colore del vento? Me lo sono chiesta spesso, guardando dalla finestra i panni stesi prendere vita, gli uccelli planare e sfruttare la scia, le creste del mare alzarsi e scontrarsi una con l’altra. Verrebbe da pensare a un grigio arrabbiato, quando il vento è quella melodia nervosa che precede una bufera; a un bianco burro, quando investe un bosco e lo fa cantare con dolci fruscii; a un azzurro tenue, quando scolpisce le nuvole o accarezza i campi di grano; e infine a un nero pastoso, quando assedia le case e urla, e flagella. Mescolo le tonalità, cercando la giusta combinazione, ma non sono soddisfatta. A volte sono i colori a scegliere il soggetto. Li sento fremere sotto le dita, vibrare nei tubetti, esplodere di vitalità quando li spremo sulla tavolozza. Creano, in nuce, idee ed emozioni. Si armonizzano con l’istinto, con quel caos di pensieri inconsapevoli che si agita dentro di me. E decidono loro cosa ritrarre.

Il pennello scivola morbido sulla tela. Con un po’ di terra di Siena bruciata tratteggio un occhio, la palpebra socchiusa, l’estremità all’ingiù. Poi il pennello ha uno scarto brusco e se ne va nell’angolo sinistro, e con il blu oltremare abbozza le linee squadrate di una finestra. La finestra diventa una parete magenta e l’occhio si fonde nella sagoma di una persona, al di là del vetro, che scruta all’interno. È un occhio che racchiude un mondo, come quello del lupo di Pennac. Un occhio che mi guarda e che ancora una volta mi pone la stessa domanda. A cui non ho intenzione di rispondere.

All’accendersi delle prime stelle appoggio il pennello sulla tavolozza e mi stendo sull’amaca. Le palpebre si fanno pesanti e mi lascio cullare dalle tenebre. Il vociare della gente giù nella calle non arriva qui sull’altana, dove il silenzio è rotto solo ogni tanto dal grido stridulo dei gabbiani. Mi appisolo nella brezza fresca. Quando mi sveglio il vento ha girato in uno scirocco umido e pesante. Mi scuoto e torno dabbasso. Apro il frigo in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti, ma i ripiani, illuminati dalla luce spietata del neon, sono vuoti. Mi sono dimenticata di nuovo di fare la spesa.

Con lo stomaco che brontola come una zampogna mi spoglio e indosso il pigiama, rassegnata anche stavolta ad andare a letto senza cena. Apro la finestra per chiudere gli scuri, e lo vedo: un fagottino appeso al cavo agganciato alla casa di fronte. Tiro l’estremità, azionando la carrucola che serve per i panni, e scopro che Teresa ha pensato a me: il fagottino profuma di pane appena sfornato. Il cigolio del marchingegno attira l’attenzione della mia vicina, che si affaccia dalla finestra del salotto.

«Ti sei dimenticata di nuovo di fare la spesa, vero?»

«Mi conosci troppo bene. Per fortuna ho un angelo custode.»

Teresa scuote la testa e la massa di capelli bianchi segue il movimento come una marea. «Se sapessi che film sto guardando ora, non penseresti al Paradiso.»

Sorrido. «Cary Grant o Clark Gable, questa volta?»

L’inconfondibile musica del Dottor Živago precede la sua risposta.

«Sul serio? Omar Sharif?» le chiedo sorpresa.

«Sono conquistata dal suo fascino orientale» mi risponde facendomi l’occhiolino.

Lascio la mia vicina al film e mi dedico al goloso fagotto, accompagnata dagli archi del Tema di Lara. Quando la tv di Teresa si spegne, ritorno in camera, sazia ma ancora inquieta. Mi appoggio al davanzale di pietra e mi perdo nella città. Le luci delle case si spengono una dopo l’altra, come attori che escono di scena. Venezia si specchia immobile nell’inchiostro dei suoi canali. Rimaniamo solo io e il cielo, a guardarci negli occhi come amanti.

Il nero è il colore della notte, delle ombre, di tutte quelle cose che si nascondono dietro a esse. È il colore degli anfratti bui delle foreste, di chi guata silenzioso. È il colore di ciò che è sospeso. Da bambina pensavo fosse il colore dei grandi, e un po’ forse anche del proibito. Era il colore di alcuni pomeriggi sonnacchiosi, e di ciò che si celava dietro la porta chiusa dei miei, un groviglio di gemiti e mistero. Ma stanotte è il colore del mio respiro, profondo e turbato.

Diego

Mercedes mi salta sulla faccia, leccandomi con la sua lingua rasposa. La puzza di pesce del suo alito non è l’odore più adatto a darmi il buongiorno. La spingo via – ignorando il suo miagolio di protesta – e controllo l’ora in preda al panico: le nove passate, ma come diavolo ho fatto a dormire fino a… Poi noto i segnali: la stanza invasa dai vestiti, le grida dei bambini e il suono della palla che rimbalza sui masegni dalla finestra socchiusa, e mi rilasso. È sabato, non devo andare in redazione. Non ci sono urgenze, le bozze del thriller norvegese sono partite ieri. Posso godermi il weekend in santa pace.

Mi stropiccio la faccia e avverto i peli della barba spuntati nella notte. Alcuni sono grigi, è per questo che ultimamente mi rado ogni giorno. Anche se Frank dice che alle donne piace il sale e pepe. Un giorno proverò a non usare più il rasoio, magari durante una settimana di ferie, in modo da superare il momento in cui non sono né carne né pesce, né ricrescita selvaggia stile uomo vissuto, né barba folta e curata stile hipster. Mi alzo e faccio partire una playlist, la voce calda di Norah Jones mi riappacifica con il mondo.

Mercedes richiama la mia attenzione strusciandosi sulle mie gambe. Visto che non le do retta attacca anche a mordicchiarmi e a miagolare. Sembra una sirena impazzita, non la smetterà finché non le darò i suoi croccantini puzzolenti. Maledetta gatta. Le riempio la ciotola e subito lei mi ignora, concentrata sul cibo.

Finalmente posso pensare a me. Accendo la macchinetta del caffè e scelgo una cialda intensa, dal nome “brasil mix”. L’aroma avvolgente mi stuzzica le narici, ma appena sto per avvicinare la tazzina alle labbra suona il cellulare. Lo metto in modalità silenzioso ignorando la chiamata e mi dedico al caffè, ma so già che è una causa persa: poco dopo infatti il telefono fisso comincia a squillare all’impazzata. Mia madre è come Mercedes.

«’Giorno» biascico.

«Che allegria. Disturbo?»

«No mamma, tu non disturbi mai.»

Una pausa, forse ha percepito la mia nota sarcastica. Ma mia madre ha una considerazione di sé troppo alta, perciò si convince che io sia contentissimo di sentirla e mi chiede, in tono gioviale: «Hai programmi per il 10 giugno?».

«Un mezzo impegno con Frank, perché?» rispondo cauto. Sospetto un tentativo di manipolazione.

«Oh, se è solo mezzo… Vengono a pranzo Luisa e Giorgio con la famiglia. Non puoi mancare.»

Chiudo gli occhi e conto fino a tre prima di risponderle con tutta la ragionevolezza che si può avere appena svegli di sabato mattina e senza aver bevuto il caffè: «Mamma, sono stato da te anche mercoledì. E ho visto Giorgio domenica scorsa, siamo andati ad Asolo con i bambini, ricordi?». Io di certo non l’ho dimenticato: i gemelli di mio fratello correvano a perdifiato su e giù dalle colline, non riuscivo a riacciuffarli. «In più mi sembra che non ci sia nessuna ricorrenza» aggiungo mettendo le mani avanti.

«E qui ti sbagli» insinua.

Un piccolo gemito di insofferenza si fa largo nella mia gola. Cerco di soffocarlo. Sarà il sesto anniversario del restauro della casa, oppure il primo anno di apparecchio dei miei nipoti, oppure il complemese di Matilde o…

«Sono dieci anni dalla morte di papà» sentenzia con tono grave.

Ammutolisco e quasi avverto il rumore delle sue labbra che si distendono in un sorriso di soddisfazione.

Maledizione, me n’ero dimenticato. Probabilmente per via del lavoro, di quel thriller che mi ha fatto dannare, mal tradotto com’era. Oppure per via di Ursula, quella bionda americana che mi ha presentato Frank e che, dopo la seconda notte assieme, si è dimostrata troppo invadente, tanto da costringermi a mettere le distanze. È la prima volta che mi dimentico della morte di mio padre, realizzo. E una subitanea ondata di senso di colpa mi invade.

«A che ora?» mormoro guardando con nostalgia la mia tazzina di caffè ormai freddo.

«Per le dieci, così prima facciamo un salto al cimitero.»

«D’accordo…»

«E… Diego?»

«Sì, mamma?»

«Vestiti carino, per una volta.»

«Ciao mamma.»

Avrà sicuramente invitato a pranzo la figlia di qualche sua nuova amica o una conoscente di Luisa e Giorgio per cercare di combinarmi un appuntamento. Ma non le darò soddisfazione. Almeno nell’abbigliamento potrò ritagliarmi un briciolo di autonomia.

Prendo un’altra cialda e mi sforzo di dimenticare mia madre e le sue macchinazioni. Mi avvicino alla bifora che affaccia sul canale della Giudecca. Il traffico di vaporetti e barche da trasporto è intenso. Sulla riva una famiglia di giapponesi sta cercando di farsi un selfie con il Molino Stucky sullo sfondo. Giro il cucchiaino mescolando il caffè. Vago con lo sguardo sulle ciminiere di Porto Marghera, confuse nella foschia dell’orizzonte, e intanto penso a quale parola potrebbe inaugurare questa giornata. Sfoglio il mio archivio mentale e pesco “personalista”. Suona meglio di egoista o di egotista. E poi ho sempre amato i filosofi francesi. Da buon personalista non voglio essere un uomo oggetto – vittima di mia madre, della gatta, delle mie paranoie –, ma voglio essere padrone della mia vita e dei miei desideri. Questa sarà una giornata dedicata solo a me.