Amici e altri rimedi

Giulia

La campanella suona due volte ma so già che non sono entrate due persone nello studio. È Margherita, Rita per le amiche. L’unica in grado di far impazzire una semplice campanella. D’altronde si dice che il postino suoni sempre due volte e Rita, che ha sempre notizie per tutti, è come una postina. Il problema è che consegna spesso posta indesiderata e non si può cestinare in automatico, come con il computer.

«Tesoroooo» urla da sotto. Sospiro, rimettendo su la moka, il caffè che ho già bevuto non basterà a sopportare la verve di Rita. Soprattutto di sabato mattina.

«Non sarai ancora a letto eh, pigrona!» mi apostrofa.

«Smettila di urlare Rita, svegli tutto il palazzo! Sono di sopra.»

La sento salire le scale di legno come una furia, neppure ci fosse un incendio. Poco dopo fa la sua apparizione fasciata in un abito vintage anni Sessanta di un giallo canarino che mette in risalto le sue curve esagerate. Si abbassa gli occhiali da sole in tartaruga e mi aggredisce: «Perché diavolo non rispondi al cellulare?».

«Forse perché non l’ho ancora acceso? Anzi» le rispondo picchiettando sul display buio del mio telefono, «temo di essermi dimenticata di metterlo in carica.»

Rita si toglie le scarpe col tacco e si issa sullo sgabello con malagrazia. Le unghie dei piedi hanno uno smalto zebrato.

«Tesoro, sei proprio una causa persa. E se avessi avuto bisogno di te? Tipo ieri sera, dopo la cena con il nuovo stagista?»

E questo qui da dove salta fuori? Non riesco a tenere il conto delle sue conquiste. La mia faccia perplessa dev’essere eloquente, perché Rita scende subito nei dettagli: «Quello con i capelli rossi che assomiglia al principe inglese…».

«William o Harry?»

«Ma Harry, no? Se ti ho detto che ha la chioma rossa… L’altro poi è pelato!»

«Un adone insomma.»

«Be’, ha il suo fascino cara, lascia stare, e poi si sa che i rossi…»

No, non voglio sapere quale dote sessuale nascosta abbiano gli uomini dai capelli rossi. Ma Rita non mi lascia nella mia beata ignoranza.

«Ce l’hanno di alabastro.»

«Certo, come no» ribatto ridacchiando.

Mi scocca un’occhiataccia: «È cosa risaputa. E comunque ieri sera ho avuto modo di verificare…» e si prodiga in una descrizione molto accurata della notte di sesso selvaggio appena trascorsa. Tutti dettagli non richiesti, naturalmente, ma tant’è, Rita bisogna prenderla così. Arriva quando meno te l’aspetti, e ti rovescia addosso la sua vita fuori dalle righe. È invadente e prolissa. E un filo scurrile nei suoi racconti, ma capace di un affetto straripante e incondizionato. Se potesse, ti salverebbe dal mondo intero. E poi non sempre è necessario ascoltarla. A lei basta un volto amico che annuisca ogni tanto. Mentre adesso fingo di ascoltarla, ad esempio, mi concentro sulle fusa della moka, che mi mettono sempre di buonumore, o sulla danza curiosa delle sue sopracciglia, caratteristica che mi fa sempre sorridere. Me ne sono accorta da bambina, quando giocavamo a carte o a dama e le sopracciglia ribelli di Rita tradivano le sue intenzioni. Siamo cresciute come sorelle, anche se siamo cugine di secondo grado. Siamo sempre state molto diverse, io più lunare, soggetta a sbalzi d’umore, in grado di aprirmi del tutto solo nell’arte, Rita più solare e sfrenata, con tante amicizie sparse in tutto il mondo e il cuore libero e condiviso. Se fosse un colore sarebbe il giallo, quella tonalità canarino che indossa oggi, un colore diretto, luminoso, a volte troppo sfacciato. Bella come un girasole, e come il fiore incline a voltarsi tutto il giorno, inseguendo l’estro della passione. Io e Rita siamo così diverse eppure così unite, in grado di trovare un equilibrio tutto nostro.

«Ma mi stai ad ascoltare?» mi richiama all’ordine.

«Certo, dove eravamo, ai baffi di Magnum P.I.? No, aspetta, al culo di Matt Bomer.»

«Quello era almeno dieci minuti fa. Invece ti stavo raccontando della nuova amichetta del mio capo, un’americana molto procace che parla come Heather Parisi e…»

Rita è felicemente bisex, e talvolta sospetto anche un po’ ninfomane, ma sembra che la cosa non le dia problemi, così come il fatto di non essersi ancora fatta una famiglia alla soglia dei quarant’anni. Vive in una piccola mansarda a Castello e lavora alla reception di Palazzo Grassi, dove sfodera l’unica abilità spendibile in ambito professionale che la sua estrema facilità agli incontri le ha fatto sviluppare: la scioltezza nel parlare diverse lingue.

Solo lei sa darmi uno strattone ogni tanto, per trascinarmi fuori dal torpore. Esattamente ciò che si accinge a fare ora, intuisco dal suo sguardo.

«Stasera potremmo andare in quel nuovo locale di Treviso di cui mi hanno parlato…»

Mi limito a scuotere la testa.

«Dài Giulia, esci per una volta, torna a divertirti! Quanto tempo è che tu e Stefano vi siete lasciati?»

Di colpo ripenso al suo volto svuotato, allo spazzolino ancora da buttare in bagno. Alla foto che ho rimosso da sopra il comò, quella che ci mostrava abbracciati e sorridenti.

«È andato via di casa più o meno da un anno e mezzo. Ho firmato le pratiche del divorzio tre mesi fa.»

«Dunque, facendo i debiti calcoli… sono quasi due anni che non vai a letto con qualcuno?»

Alzo le spalle: «Fossero quelli i problemi».

«Be’, anche il corpo ha le sue necessità, Giulia. Forza, questa sera rispolveri gli abiti da fighetta e vieni con me. Non serve che rimorchi qualcuno. Beviamo qualcosa, facciamo quattro salti in pista, raccogliamo un po’ di sguardi lascivi e ce ne andiamo. Ci divertiremo, come ai vecchi tempi.»

«I vecchi tempi sono passati e, davvero, Rita, non ho proprio voglia di uscire.»

Lei stringe le labbra, frenandosi. I suoi orecchini pendenti smettono di tintinnare. Abbiamo fatto simili discussioni tante volte e sa che sono una causa persa.

«Ok, sarà per un’altra volta allora» capitola rassegnata.

Il campanello alla porta mi avverte che è entrato un cliente. Uno vero, questa volta. Do a Rita un bacio sulla guancia e scendo nello studio: la mia giornata lavorativa è cominciata.

Diego

Corro verso Punta della Dogana con le mie nuove scarpe da running. In discesa, sui ponti, mi sembra quasi di volare. Nella testa mastico le mie due nuove parole. Le ho rubate allo scrittore norvegese di thriller – o meglio, al suo pessimo traduttore. Alla fine sono riuscito a salvare qualcosa, dopotutto. “Serendipità” è la prima, un vocabolo inventato a fine Settecento da Horace Walpole e tratto dalla fiaba The Three Princes of Serendip. Serendipità è la capacità o la fortuna di imbattersi in una felice rivelazione mentre si cerca altro. Mi succede spesso al lavoro, durante le noiose fasi di editing. Mentre leggo e rileggo una frase che non gira, sistemando e puntellando, ecco che riemerge dal nulla un ricordo dimenticato, oppure mi si apre una riflessione parallela, come un pop-up nella mente, che mi porta a una straordinaria rivelazione. Altre volte mi capita quando vado in magazzino a prendere una bottiglia di vino. Trovo oggetti dimenticati che credevo persi per sempre e, come quando mi sono imbattuto nel primo albo dell’Uomo Ragno che mi regalò mio padre, finisco per trascorrerci pomeriggi interi.

La seconda parola è “melancolia”, una forma di pessimismo invincibile che paralizza, che induce uno stato di profonda sfiducia nel mondo. Stato che può sfociare anche nella depressione. Forse mio padre era melancolico, penso superando in volata un altro ponte. Altrimenti perché si sarebbe lasciato consumare così in fretta dalla malattia, senza neppure provare a lottare?

Più tardi scriverò serendipità e melancolia nel mio quaderno delle parole preziose. Colleziono termini che mi incuriosiscono, che hanno un suono che mi piace o che mi fanno vibrare qualcosa dentro fin da quando ero bambino. Alcuni sono armonici, con una musicalità al loro interno che cattura la mia attenzione, come le cose luccicanti per le gazze ladre. Una volta mi innamorai della parola “levità”. Mi sembrava che il suo suono richiamasse la leggerezza, il volo. Che fosse una parola impalpabile, difficile da imbrigliare anche sulla carta, una parola che voleva sempre scappare via, essere libera.

Ho riempito più di una dozzina di quaderni con i miei vocaboli preziosi, quaderni tutti uguali, con la copertina nera. Li conservo nell’ultimo scaffale in alto della mia libreria. È bello alzare lo sguardo e sapere che sono lì.

Arrivo alla Punta della Dogana con la maglietta appiccicata alla schiena. Mi fermo a riprendere un po’ di fiato sotto la statua della Palla d’oro. Sopra di me i due atlanti soffrono per il peso del mondo. Un mondo volubile e capriccioso, che la statua dorata della dea Fortuna controlla con facilità.

Io ho sempre avuto una quantità sfacciata di fortuna, come direbbe mia madre. Ci ho sguazzato come un maiale nel fango, cercando ogni volta altre pozze da conquistare. Ho preso e preso, senza mai mettermi troppo in gioco. Nel lavoro, ma soprattutto nella sfera sentimentale… Non mi sono mai fermato, non ho mai messo radici, non ho neppure provato a conoscere abbastanza una donna da imbastire con lei una relazione seria. Non fa per me, io non sono il tipo da grandi traguardi, da certezze, da figli. Sono un po’ come questa statua della Fortuna, una banderuola che gira e che girerà all’infinito senza trovare pace. Giorgio e Luisa, i miei fratelli, sono quelli perfetti, solidi e affidabili. Io levito, e non mi appoggio. Forse ho troppa paura di scendere a terra.