Giulia
L’attrito delle setole sulla pelle mi provoca strani brividi e il giovane pittore se n’è accorto. Credo anzi che un po’ ci giochi. Ha dita lunghe e magre, che si muovono come meduse, allungandosi e ritirandosi. Lo guardo in volto: peletti ispidi gli escono a casaccio dal mento, nessuna ruga ai margini degli occhi. È davvero troppo giovane per me. Eppure.
Una striscia di blu mi attraversa la pancia lentamente, facendomi vibrare.
Sono stata io a chiedere che non usasse il lattice, che dipingesse direttamente sulla pelle. Volevo avere i colori addosso, dappertutto. È un modo per avere l’illusione di possederli, di farli miei, per sentirli ancora più vicini. È stato sempre un mio piccolo desiderio segreto.
Il pittore mi ha chiesto se avevo delle preferenze, prima di cominciare, ma io avevo fretta di allontanare il suo sguardo dal mio corpo nudo, così esposto. Al mare non riesco a mettermi in topless, figuriamoci in una situazione in cui, nude, siamo solo in tre. Perciò gli ho detto solo di non usare il rosso.
Ha alzato un sopracciglio: «Solo il rosso?».
«Sì.»
Si è morso le labbra, incerto se chiedere perché, ma poi si è limitato a scrollare le spalle. «Quale tipo, di rosso?»
«Solo quello caldo.»
«Ok» ha borbottato, ma non so se ha capito.
Qui, nella sala dell’Accademia delle Belle Arti, il silenzio è rotto solo dai fruscii dei pennelli degli studenti pittori, dallo sciacquettio delle setole nell’acqua, dal respiro profondo della professoressa, che sorveglia la situazione. Le altre due modelle sembrano quasi addormentate, probabilmente non è la prima volta che posano, mentre gli alunni che non partecipano osservano muti. Nell’aria c’è un mix di concentrazione e imbarazzo. E un forte odore di acrilico.
La bodyart è il primo punto della mia lista di cose da fare, ed è perfetta: è come un battesimo, o un rito propiziatorio. Gli indigeni si dipingono la pelle prima di andare a caccia, o nel rituale di passaggio verso l’età adulta. In questo modo cambiano, acquistano energia. È come se indossassero un’armatura.
Il pittore sta insistendo particolarmente in un punto del seno destro, le labbra leggermente socchiuse. Arriccio le dita dei piedi, vittima delle sensazioni. Poi cerco di ricompormi, mi schiarisco la voce e lui si blocca, emette un sospiro e riprende in un altro punto meno critico.
Sta dipingendo un paesaggio, una strana laguna palustre e selvaggia, fatta di specchi d’acqua immobili e di vegetazione arruffata. Usa un blu guado naturale, che sa di profondità e di segreti, e un terra verde di Verona molto materico, un po’ granuloso sulla pelle. Il tutto combinato con delle pagliuzze di ocra e un po’ di bianco biacca, che dissemina qua e là con veloci pennellate, una sul fianco destro, una vicina all’ombelico, dannato ragazzo, e una sulla punta dell’orecchio. Ma, nonostante si diverta a stuzzicarmi, si capisce che sa il fatto suo, che ha un disegno in testa. Utilizza quei colori per schiarire, per dare l’idea della vita in questo paesaggio di acqua e di terra, in mezzo alla confusione della natura.
«Ecco fatto. Sei bellissima» sussurra circa due ore dopo. Per dimostrarmelo mi avvicina uno specchio in cui mi guardo per intero. I miei seni sono delle isole abbracciate dal mare. Se gonfio i polmoni sembra quasi che l’acqua della laguna si muova.
Mi sembra che questa seconda pelle mi proietti in avanti. Mi dia una nuova possibilità.
Sono la donna cannone poco prima di essere lanciata.
Un girino a cui sono appena spuntate le zampe posteriori.
Il germoglio di un fiore pronto a scoppiare.