Diego
Ogni autore si comporta in modo diverso con l’editor e con la casa editrice che lo pubblica. Nei confronti del proprio libro gli scrittori hanno atteggiamenti ambivalenti, che vanno dal temibile istinto di protezione dei cigni, notoriamente combattivi in difesa della propria prole, a quello di mamma coniglio, quasi indifferente agli occhioni e alle morbide orecchie pendule dei suoi cuccioli. Nel tempo sono riuscito a comporre una sorta di casistica dell’autore-tipo che trova quasi sempre corrispondenza.
Il pulcino, timido e ingenuo. Durante il primo incontro questa tipologia di scrittore parla sottovoce, le orecchie gli si imporporano se gli faccio un complimento. Al secondo incontro è conciliante, sorride e annuisce, quando gli evidenzio le parti del testo da sistemare. Mi venera come un oracolo. Il libro esce in libreria, va bene, anche grazie al fatto che lui è così vulnerabile e vero. Così il timido pulcino rompe il guscio, rinforza le ali, la voce… e inizia ad atteggiarsi. Nuovo libro, nuovo incontro con l’editor: l’autore si trasforma come il bambino degli Incredibili in un demone sputafuoco arrabbiato e contrario, per statuto, a tutto ciò che verrà proposto.
Poi: il castoro, pignolo fino all’esasperazione. Pretende il timbro della SIAE, il contratto in doppia lingua, contesta riga su riga, per partito preso, esige l’inserimento di nuove e assurde voci – la possibilità di riservarsi i diritti per un’edizione thailandese; l’inserimento obbligatorio di una sua foto nelle copertine di tutte le edizioni; la sua presenza fisica in tipografia per sorvegliare personalmente le fasi di stampa. Controlla i refusi e le correzioni venti volte, cambiando idea altrettante volte. Si consulta con amici “esperti”, che spesso fanno solo confusione. Manda WhatsApp a tarda notte, lambiccandosi su sedicenti problemi che vede solo lui. Giorno per giorno verifica la comunicazione sul web, le presenze del suo libro nei portali, si accerta che sia distribuito in tutte le librerie d’Italia – coinvolgendo una pletora di amici-spie o addirittura presentandosi lui stesso, sotto mentite spoglie, davanti al commesso a chiedere del proprio libro. Calcola tutto e cerca di controllare tutto. E poi va nel panico alla prima recensione negativa.
E ancora: l’oca starnazzante. Il suo libro venderà come la saga di Harry Potter, questo autore ne è convinto: «Guarda quanti “Mi piace” ottengo su Facebook, quanti follower ho su Instagram». Però il suo testo deve restare così, non devo azzardarmi a cambiarlo perché “sono io, così è autentico, con i suoi pregi e difetti”. Esce il libro e le reazioni sono tiepide; lo scrittore scopre che non lo pagano per presentare la sua meravigliosa e imprescindibile opera, ma anzi spesso deve rimetterci il tempo e la benzina e a volte il pubblico è composto solo dai parenti del libraio. Inizia a capire il mondo dell’editoria. Quasi che un serpente gli sussurrasse all’orecchio, gli si insinua però un pensiero in testa: “Non sono io, siete voi”. Così cambia casa editrice, perché “io valgo molto, ma voi non sapete valorizzarmi”. Il genio incompreso, dopo l’esperienza in trasferta, ritorna quasi sempre al pollaio ferito e a coda bassa.
Il pavone. È stato un pulcino e anche un’oca, ha all’attivo diverse pubblicazioni. Sa tutto del mondo editoriale. Si concede poco, fa presentazioni solo se lo pagano e molto – e quindi ne fa poche, pochissime –, è diffidente e si circonda solo di lettori e amici che lo amano e lo venerano. Le altre opere che pubblica la sua casa editrice non lo convincono: “I miei libri sono diversi, arrivano, c’è dietro un lavoro che gli altri non hanno”. Si fa pregare, vuole il tappeto rosso. E non ringrazia, mai. Tutto gli è dovuto.
Infine, il saggio gufo. Appartiene a una specie in via d’estinzione, merce rara. È franco, amabile, generoso. Capisce che si lavora in tandem, che le case editrici e gli autori hanno lo stesso obiettivo: far leggere la sua opera a più persone possibili; ama i libri, legge ed è informato sul mondo editoriale e sa che ciascun volume è una creatura da accudire, che all’inizio non cammina da sola, che bisogna rimboccarsi le maniche per emergere dal maelstrom delle novità. Non rinfaccia, non fa telefonate inopportune, tratta tutti con gentilezza e una dose di ironia, sa bilanciare modi e tempi. Si rende disponibile. È un buon conversatore e sa parlare anche di altro, oltre che di se stesso e del proprio libro. È l’autore con cui di solito divento un po’ amico, quello a cui rispondo anche se mi chiama dopo le otto di sera. Quello che rende questo lavoro speciale.
Esattamente l’opposto dello scrittore che è seduto davanti a me ora, intento a lisciarsi l’ascot viola che fa pendant con il fazzoletto del taschino. L’inarrivabile, l’unico Eugenio Maria Rastelli mi ha appena ribadito, con un grande panegirico di parole, che non ho capito un’acca del suo libro. L’ha fatto con garbo, certo, ma il succo non cambia.
Ci riprovo: «Vede Eugenio, in questo punto il protagonista si contraddice. Prima ha sostenuto fino allo sfinimento di odiare le folle, di non amare il palcoscenico, mentre qui dice che non vede l’ora di potersi esibire davanti al pubblico, che è il coronamento del sogno di una vita…».
Niente, la logica non funziona. Finge di non ascoltare, di non capire. Fa il superiore. Per lui rappresento solo un passaggio obbligato per la pubblicazione, ma non necessario per la sua scrittura. Se potesse, farebbe come Baricco e bandirebbe tutti gli editor del mondo, tanto i suoi testi nascono perfetti.
Sospiro. Ok, la devo prendere più larga, tornare ai complimenti. «Questa parte invece mi ha molto colpito, il dialogo tra Donato e la signora Tirelli è sarcastico, ma al contempo molto raffinato…»
Si toglie gli occhiali, avvicinandosi alle bozze. L’ho agganciato. Ora tutto sta nel continuare a blandirlo, fino a fargli mangiare la pillola nascosta in questa ruffianaggine. Lo faccio sempre anche con Mercedes: avvolgo la medicina nel carpaccio di salmone.
In realtà il libro di Rastelli ha qualche pregio: alcune pagine sono brillanti, peccato siano soffocate dall’eccessivo manierismo del resto. Ma venderà, come hanno venduto bene i suoi libri precedenti, nonostante tutto. Ormai basta solo il nome.
Quando se ne va, convinto di aver scritto l’ennesimo capolavoro, mi affloscio sulla scrivania. Ho bisogno di uscire con Frank, di farmi una birra o una donna. Meglio entrambe.
Frank mi richiama appena esco dalla doccia, il dito mi scivola sullo schermo due volte prima di riuscire ad accettare la telefonata.
«Non posso oggi, sono di corvée al giornale.»
«Anche stasera?»
«Finardi della Nera ha il nonno molto grave…»
«Ce l’aveva anche il mese scorso.»
«Aspetta, ho una chiamata sulla linea interna.»
Lo sento rispondere al capo. Una sequela di sì, hai ragione, mi sono dimenticato di quell’intervista, me ne occupo io, non ti preoccupare. Il solito Frank troppo disponibile, troppo impegnato. E proprio per questo perennemente frustrato.
«Eccomi. Ti dicevo di Finardi, e Colombo ha telefonato che gli è salita la febbre.»
«Sempre il fine settimana sta male, quello.»
«Insomma tocca a me stasera. E devo ringraziare Ivana che fa la notte. Possiamo vederci domani sera?»
«Vada per domani, dài. Che si fa? Andiamo al Lido?»
L’ultima volta abbiamo bevuto una cosa all’Excelsior e ho rimorchiato Simone, una svedese bellissima, lunga e filiforme come una modella.
«Lidia non vuole.»
Lidia è la fidanzata storica di Frank. Stanno insieme dai tempi del liceo, lasciandosi e rimettendosi insieme a singhiozzo. Lei vorrebbe un futuro, un fidanzamento classico che coronasse in un bel matrimonio in chiesa. Lui ha una fifa blu dell’anello e di tutto quello che comporta.
«Lidia non lo saprà mai» insinuo.
«Quella ha occhi dappertutto. Conosce mezza laguna, figurati se non viene a saperlo. Come l’altra volta.»
«Ma tu non hai fatto niente di male, l’altra volta.» Nonostante Helga, una rossa da paura, si fosse seduta al nostro tavolo assieme a Simone, Frank non le aveva dato corda. Si era limitato ad alzare un po’ il gomito – la fortuna di abitare sull’acqua è che poi non devi guidare per tornare a casa – e, a un’ora relativamente umana, se n’era andato.
«Vero. Ma sa che tu hai portato a casa la svedese. E non le piace l’idea che ti accompagni a rimorchiare.»
Ciao, mi chiamo Diego, istigatore di fidanzatini innocenti.
Sospiro sconsolato: «E allora che si fa? Birra al pub in campo Santa Margherita? O stecca da Mario?».
«Birra. Dopo dieci ore di lavoro, avrò sicuramente bisogno di alcol.»
Non mi resta che dedicarmi un po’ a me e alla casa. Faccio ordine a singhiozzo, intervengo solo quando ce n’è bisogno. E direi che il segno l’abbiamo già passato da un po’: i piatti nel lavello potrebbero parlare, tanto sono pieni di vita, e i miei vestiti hanno finito per colonizzare ogni superficie disponibile. Comincio dalla cucina quindi, e poi attacco con il resto. Con il piumino in mano, lancio brevi stoccate da scherma ai ripiani.
«Marie Kondo, mi fai un baffo!»
Mercedes, spiaggiata sulla mensola sopra il letto, segue i miei movimenti con le palpebre a mezz’asta, in una posa indolente.
«Gatta grassa e inutile» l’apostrofo.
Si volta di schiena, agitando appena la coda.
«E pure permalosa» aggiungo.
Finito di sistemare contemplo la mia opera, soddisfatto. Non sono di sicuro un perfezionista, e casa mia non è una reggia, ma se non altro ora è sufficientemente ordinata e confortevole. Il problema sono i libri: onnipresenti in ogni stanza, attirano un sacco di polvere e la mia battaglia con il piumino per debellarla è persa in partenza. Ma non potrei mai restare senza libri. Come per i miei quaderni, mi piace circondarmi di parole, sapere di avere mille storie che mi fanno compagnia, racchiuse in piccoli scrigni di carta. Muti, i libri conservano segreti e avventure, drammi e sogni. Un potere incredibile e silenzioso.
Ripongo le armi da casalingo ed esco a fare la spesa. La corsa mi ha messo un certo appetito e i libri, quando si tratta di sfamare il corpo e non lo spirito, purtroppo non sono di alcuna utilità.