Diego
Sono passati un po’ di giorni. Sono uscito con Frank, ho rifiutato di telefonare a Francesca, la ragazza con cui mia mamma e mia sorella hanno cercato di farmi fidanzare. E ho passato alla correttrice di bozze il libro di Eugenio Maria Rastelli, togliendomelo finalmente da sotto il naso. Ci sarà ancora da discutere la copertina, ma intanto il grosso è fatto.
Guardo il quadro di Giulia appoggiato contro il muro e pianifico la mia prossima mossa. “Comprare un bisato da Aldo” è il nuovo proposito scritto in agenda. Se è una sfida le piace vincere facile. Comprare un bisato, o un’anguilla, non è poi così complicato a Venezia. Aldo è uno dei venditori fissi dei banchi del mercato di Rialto, specializzato in bisati. I suoi non vengono dagli allevamenti delle valli di Comacchio, e neppure dai fondi melmosi e inquinati dalle parti di Porto Marghera, ma dalla foce del Brenta. Sono un po’ cari ma valgono il loro prezzo, e questo è senza dubbio il periodo dell’anno migliore per comprarli: solo in estate, prima che si ributtino in mare, le anguille hanno infatti quel bel colorito argenteo sulla pancia che mio padre mi ha insegnato a cercare.
Giulia
Mi sveglio presto perché il pesce buono sparisce subito. Per strada la foschia mattutina confonde i confini dei palazzi e non si capisce dove finisca la pietra e dove inizi l’acqua. Venezia sembra sospesa, come i castelli delle fiabe, un’isola che galleggia su una nuvola. Le calli sono deserte, lungo il tragitto incontro solo qualche runner che corre su e giù per i ponti, gli auricolari alle orecchie e lo sguardo concentrato di chi non si può concedere distrazioni. Il mercato del pesce è in fermento già da un po’, i pesci esposti brillano come gioielli e si agitano sui loro letti di ghiaccio. Intorno aleggia un odore di mare penetrante, di quelli che ti rimangono addosso sui vestiti e sulla pelle.
Il banco di Aldo è in fondo, sotto una colonna con il simbolo del sole. Il berretto blu d’ordinanza è calato all’altezza delle sopracciglia, i baffi selvaggi puntano all’esterno, simili alle ramazze degli spazzini, e vibrano felici appena mi riconosce: «Ma chi si rivede, la piccola Giulia!» mi saluta.
Per lui sarò sempre “la piccola Giulia”. Venivo al suo banco fin da bambina, assieme a mio padre, gli occhi grandi per lo stupore di fronte al groviglio di serpenti d’acqua nella bacinella. E lui si divertiva a farmeli toccare per assistere al mio ribrezzo, al mio naso arricciato per la pelle oleosa. Aldo è uno dei pochi ad aver conosciuto mio padre prima della morte di mia madre, a sapere che non è sempre stato solo un inaffidabile ubriacone. Me lo ricordo un giorno a casa nostra, quando ancora la mamma era viva, l’anguilla boccheggiante sul tavolo, noi tutti intorno, un po’ nauseati e un po’ curiosi. Aldo ci stava insegnando a pulirla con pochi gesti, senza esitazioni. Le sue dita grosse si muovevano agili con il coltello. La testa del pesce però gli era scivolata ed era rotolata a terra, dove il gatto – uno dei tanti che frequentavano casa nostra –, fulmineo, l’aveva afferrata e portata lontano. Aldo si era messo le mani nei capelli e aveva sbraitato contro il felino. Mia madre mi aveva abbracciato, cercando di farmi dimenticare la scena. Mio padre, giovane, senza barba, alto come un albero (e allora pensavo anche solido come un tronco), rideva, una risata calda molto lontana da quel ragliare rauco che, qualche anno dopo, gli avrebbe fatto venire l’alcol.
«Era ora che tu facessi vedere il tuo bel muso quaggiù!» mi apostrofa Aldo, bonario. «Vieni a dare due baci a questo pescatore puzzolente.»
Durante una delle visite al mercato, Aldo mi raccontò come decise di diventare un esperto di anguille. Sua madre aveva vissuto le ristrettezze della guerra, gli alimenti contingentati, la paura, le sirene dell’allarme aereo… Una volta aveva ricevuto in dono un’anguilla da un amico pescatore. Era contenta, ci sarebbe stato di che sfamare la famiglia per giorni. La stava pulendo nel lavello di una volta, quello basso e squadrato, dove faceva anche il bucato. A un tratto però aveva lanciato un urlo di rabbia. Aldo, allora un bambinetto di poco più di sei anni, era accorso all’istante e aveva trovato sua madre in lacrime mentre cercava invano di trattenere la coda del pesce, che scivolava sempre di più nel buco dello scarico. Di lì a poco l’anguilla era scomparsa del tutto.
Da quel giorno aveva giurato a se stesso che l’anguilla, e la povertà, non avrebbero più vinto in casa sua.
Aldo non può che essere un blu, il colore del mare, ma non un blu qualsiasi: la sfumatura dell’acqua della laguna veneziana, il blu cadetto. Un grigio con dentro del blu, il mare dipinto dal Canaletto. Un’acqua lontana dal profondo blu cobalto con cui di solito si dipinge l’oceano; un mare intimo, quotidiano. Imperfetto ma vero, a cui mi piace fare ritorno.
Il mio amico non mi vede da un bel po’. So che ha chiesto di me, che un giorno ha parlato anche con Teresa. Ha sempre rispettato i miei tempi e il mio silenzio, dando prova di conoscermi davvero.
In un attimo mi ritrovo stritolata dal suo abbraccio, dalla forza del suo affetto, da quell’odore così familiare di mare e sudore, di libertà e fatica. Di colpo ritorno bambina, a quella bolla dorata in cui tutto era semplice e bastava così poco per essere felice. Le mie barriere subiscono uno scossone. Potrei quasi cedere e scoppiare a piangere, appoggiarmi a lui e lasciarmi andare. Invece fisso lo sguardo negli occhi vitrei delle anguille moribonde, nella loro disperazione, e metto a tacere la mia.
«Come stai, Aldo?» gli chiedo ripristinando le distanze.
«Il sale conserva, no? Non vedi, sono un fiore!» e attacca a ridere con quel suo vocione da Babbo Natale. «Tu, piuttosto. Come te la cavi?»
Mi scruta con i suoi occhi arrossati dal poco sonno, dalla salsedine e, sospetto, da qualche bicchierino di troppo. Difficile mentirgli come agli altri. «Si va avanti» confesso.
Mi dà una pacca sulla schiena, di quelle che le madri danno per raddrizzarti e gli uomini per tirarsi su a vicenda. «Sei venuta qui, è già qualcosa. E ti meriti un bisato da favola!»
La sua manona rovista nel groviglio, afferra un’anguilla e la ributta nel bidone, ne accarezza un’altra… finché agguanta una bestia davvero notevole, per lunghezza e corposità. La stringe poco oltre la mandibola e me la mostra, la bocca che si apre e si chiude in affanno.
«Questa è la regina delle anguille. Sentirai che tenera.»
Annuisco e lui in un sol gesto, fluido ed esperto, la appoggia sul bancone e la decapita con il coltello. Il corpo del pesce oscilla ancora un po’ e poi cessa di muoversi.
«La farai in umido?» mi chiede, cominciando a pulirla.
«Non ho ancora deciso.»
La fa scivolare come un tubo da giardino dentro a un sacchetto che poi mi porge. Quando lo prendo le sue mani non lo mollano. «Giulia, tuo padre non sarebbe stato in grado comunque di aiutarti e quel marito che ti ritrovi non ci ha neppure provato…»
Penso allo sguardo appannato di papà quando sono andata a trovarlo l’ultima volta. Aveva di nuovo bevuto e parlava di mamma come se fosse ancora viva, a me come a una bambina.
«Ex marito, ma non è stata colpa sua. Comunque è stato meglio così Aldo, davvero» taglio corto.
«Certe cose bisogna farle uscire, togliersele di dosso. Sono come la sacca della bile del merluzzo: se ti dimentichi di staccarla, quando la cuoci si aprirà e spargerà il suo gusto amaro ovunque.»
Stringo le labbra. «Ti ringrazio, ma sto bene così.»
Molla la presa sul sacchetto e scuote la testa, prendendo a brontolare tra sé. Io resto in attesa. Alla fine si toglie il cappello e si passa una mano in mezzo ai ricci argentati. «Sei sempre stata una bambina cocciuta, ma arriverà anche il tuo momento. In tal caso… sai dove trovarmi.»
Mi sale un groppo in gola, non mi rivedrà tanto presto. Mi pizzicano gli occhi e, prima che noti la mia commozione, lo ringrazio e mi volto per andarmene, scontrandomi con un cliente. Solo che non è un cliente qualsiasi. È lui: l’uomo che ha comprato il mio quadro.
«Buongiorno Giulia.»
Rimango interdetta nel sentirlo pronunciare il mio nome, ma poi ricordo che è scritto sull’insegna del mio laboratorio: NUVOLE BY GIULIA MORO. Mi fa un certo effetto che mi chiami così, in modo informale, come un parente, un amico oppure un…
«Oh, lei è quello del quadro» cerco di ricompormi, «ha poi deciso dove appenderlo?»
«Io… non ho ancora deciso a dir la verità. Pensavo in salotto…»
Immagino il dipinto che raffigura il mio orgasmo in salotto e arrossisco all’istante. «Non so se è un quadro da salotto.»
«Perché, lei dove lo metterebbe?» Ha socchiuso gli occhi, scrutandomi con attenzione.
Ridacchio, cercando invano un sostegno in Aldo, che, gomiti appoggiati sul bancone, sembra gustarsi la scena. «Non conosco casa sua, quindi non saprei proprio…»
«Potremmo farci un salto, anche adesso, così mi dà un consiglio» propone.
Non perde tempo, eh? Guardo di nuovo verso Aldo e lui mi strizza l’occhio. Deve averlo notato anche l’uomo del quadro. L’imbarazzo mi fa diventare le orecchie incandescenti. Racimolo tutta la compostezza che trovo: «Mi scusi, ma non ci conosciamo e mi sembra un po’ strano andare a casa di un estraneo».
«Che ne direbbe allora di approfondire la nostra conoscenza con una colazione?»
Mi prende il panico. E ora? D’impeto brandisco il sacchetto con l’anguilla come uno scudo: «Devo portarla a casa altrimenti con il caldo si rovina…».
«Te la tengo io al fresco» si offre Aldo, quasi strappandomi il sacchetto di mano.
I due uomini si sorridono, scambiandosi un muto segnale. Maledetta complicità maschile.
«E colazione sia» capitolo. «Ma una cosa veloce, che poi devo aprire il laboratorio.»
Ancora mi stupisco di aver accettato. Non ho neppure voglia di fare colazione. Ma c’è qualcosa in quest’uomo, o meglio, nel modo con cui i suoi occhi grigi si appoggiano su di me, che mi spinge a conoscerlo meglio.
«A proposito, io sono Diego» mi dice allungando la mano.
Gliela stringo un po’ impacciata e poi lo seguo. Andiamo verso San Stae, muovendoci fluidi e silenziosi, i nostri corpi che si appaiano e si spaiano istintivamente, seguendo il movimento sinusoidale delle calli. Diego si ferma in un bar affacciato in un campiello. Sopra di noi gli scuri si spalancano uno a uno, gli sbadigli della città che si risveglia.
Ci sediamo a un tavolino esterno e subito il cameriere viene a prendere l’ordinazione: a quest’ora siamo gli unici clienti. Un caffè nero per me e un cappuccino per lui. Un biscotto per me e un krapfen per lui. Minimalismo contro barocco. Sorridiamo del contrasto.
«L’anguilla l’hai presa per il pranzo o per la cena?» rompe il silenzio Diego, passando direttamente a un tu che mi destabilizza tanto quanto aver sentito prima il mio nome dalle sue labbra.
Fingo indifferenza: «A dir la verità non ci ho ancora pensato. Più che altro avevo voglia di fare un giro al mercato e salutare un vecchio amico». Sono fatti miei, non so perché gli racconto queste cose, ma la mia lingua si è messa in moto prima che potessi fermarla.
«Conosci bene il pescivendolo?»
«Era molto amico di mio padre.»
«Era?»
«Con il tempo le cose a volte si guastano» minimizzo. Se mi impegno forse riesco a mantenere un po’ di controllo. «E tu cosa volevi comprare al mercato?» Non ha nessun pacchetto con sé, qualunque cosa desiderasse acquistare è ancora su uno dei banchi della pescheria.
«Facevo solo un giro» mi risponde evasivo. «Hai mai provato a dipingere i pesci esposti sui banconi?»
«Non riesco a ritrarre cose morte.»
«La morte è l’unica cosa che riesce a spaventarmi, diceva Oscar Wilde.»
«Non è perché mi fa paura. Le creature senza vita non mi dicono niente, non emanano nessuna vibrazione. Ho provato a dipingere un colombo morto una volta, ma non sono riuscita a rendergli giustizia, sembrava finto.»
Arriva la nostra colazione e la conversazione si fa più leggera. Vengo a sapere che Diego vive da solo alle Zattere con la gatta Mercedes, “che tendo a viziare”; che non è sposato, “temo di aver costruito una tana molto maschile”; che è nato a Venezia; e infine che si occupa di editoria, “attacco alle nove” dice controllando l’orologio. È un po’ troppo sicuro, come se fosse abituato a raccontarsi, a parlare di sé.
«E così lavori con i libri, ma esattamente cosa fai?»
Appoggia la tazza. Una linea sottile di schiuma gli incornicia le labbra dandogli un’aria infantile. «Dopo quindici anni che faccio questo lavoro mia madre ancora non ha capito di cosa mi occupo» fa un sorriso di complicità. «Analizzo e viviseziono il testo, entro nei suoi ingranaggi. Controllo se il ritmo funziona, se serve tagliare o aggiungere delle parti, se la storia fila bene e si legge piacevolmente.»
«E gli scrittori accettano che metti mano ai loro testi?»
«È un lavoro che faccio assieme a loro, non contro di loro. Abbiamo lo stesso obiettivo, quello di migliorare il libro in questione e renderlo più bello – e di conseguenza più vendibile. E poi non scrivo niente di mio pugno, non sono io a cambiare il testo, mi limito a suggerire all’autore dove e talvolta come intervenire.»
«Non si arrabbia mai nessuno?»
«A volte sì. Bisogna andarci con i piedi di piombo, con delicatezza. Non sottolineare gli errori, ma indicarli come punti per approfondire o migliorare il testo. E cercare di convincere gli scrittori a intervenire. Con alcuni si instaura una specie di magia, una sintonia tale per cui diventa un bel lavoro, un progetto condiviso che funziona. Con altri è come parlare al muro, prendono tutto sul personale e si offendono alla minima considerazione.»
«E in questi casi che si fa? Chi la vince?»
«Dipende dal peso dell’autore, dal contratto… Ma in linea di massima si scende a compromessi, cercando di portarli il più possibile verso di sé senza creare troppi attriti.»
Ammicco e prendo a torturarmi una ciocca di capelli: «Quindi sei un manipolatore seriale…». Poi mi mordo la lingua: cosa sto facendo? Lo sto provocando? Mi ricompongo e riformulo la domanda: «Cioè, manipoli i testi, la scrittura».
«Quando posso anche le persone» aggiunge, sorridendo sornione sotto i baffi di latte. «A volte è così semplice persuadere qualcuno a fare ciò che vuoi… basta fargli credere che sia lui a volerlo.»
Diego
Ho sempre adorato la parola “persuasione”, perché è composta da “per” più “suadere”. E l’idea che qualcuno provi a convincermi, con le maniere dolci, in modo “suadente”… Mi sembra quasi un potere soprannaturale.
«Per esempio» insinuo sporgendomi verso di lei, «scommettiamo che riesco a farti dire “mi piaci” in due minuti?»
Appoggia il cucchiaino sul piatto e alza il mento: «Ok».
Quell’aria di sfida mi piace sempre di più. Gliela immagino addosso mentre è intenta a spogliarsi, in modo lento e provocante, e mio malgrado mi eccito. Ora non resta che giocare.
«Qual è il nome di questo bar?» le chiedo.
«Al Covo…» risponde interdetta ricontrollando l’insegna.
«E cosa ne pensi?» le chiedo indicando i tavolini.
«Mi sembra carino» commenta cauta.
Mi lascio andare contro lo schienale e incrocio le braccia. «Ci sono riuscito!»
«Ma va’, dovevi farmi dire “mi piaci”!» esclama. Poi si tappa la bocca con la mano.
«Anche meno di due minuti» valuto, consultando l’orologio.
Giulia scoppia a ridere e per un attimo mi sembra che il velo che le incupiva lo sguardo in pescheria si sia un po’ alzato. Quando ride sembra una ragazzina, penso. E anche più libera.
«Però, sei bravo» conclude. «Quante volte hai usato questo trucco per fare colpo?»
«Non le ho contate» rispondo con sincerità. «Mi piace vedere una bella donna ridere. Ho l’impressione che tu sia una che non lo fa spesso.»
Incupisce di nuovo lo sguardo, prendendo a giocare con il cucchiaino.
«Mi piacerebbe avere l’opportunità di farti ridere ancora. Che ne diresti se…»
«Diego! Oh my God!» Un turbine di microfibra, tessuti fosforescenti, scarpe tecniche e coda di cavallo sbatacchiante mi sommerge. Sudore, profumo e lacca mi invadono le narici. Cerco di districarmi dall’abbraccio esuberante di… Seno prosperoso, broncio perenne, naso all’insù: «Ursula. What a surprise!».
«Diego, that’s incredible! I thought that you were… partito? Is it right?»
«Sì, è giusto, Ursula. Sono…» Avevo mentito spudoratamente all’americana. La situazione si era fatta troppo opprimente e mi era passata la voglia di averla tra i piedi. Così mi ero inventato la storia del trasferimento. A Sud, nientepopodimeno che a Lampedusa, per scongiurare anche l’idea di un possibile rapporto a distanza. «I had to come back, sono dovuto rientrare per… for a work» mento spudoratamente.
«But it’s a wonderful, una meraviliosa news, Diego!»
Per te, forse. Maledizione, proprio in questo momento dovevi ricomparire nella mia vita? Indico Giulia: «Ti presento…».
«Una conoscente» completa lei, alzandosi in piedi. «Che ora deve scappare. I’m late for work, sorry ehm, Ursula giusto? Nice to meet you» dice sbrigativa.
«Giulia, per favore aspetta. Dobbiamo ancora parlare del quadro» provo a fermarla.
«Magari un’altra volta» mi liquida. «Ora sei impegnato.»
Fine dei giochi. Non mi resta che seguirla con lo sguardo mentre si allontana verso casa.
«What does it mean “conosiente”? Is it like relative?»
Mi siedo e do un morso al mio krapfen. «No, Ursula. Non significa parente» rispondo controvoglia.