Giulia
Fin da bambina ho avuto una propensione per la malinconia. Passavo ore a guardare la superficie grigia della laguna, intonando il mio umore a quello delle acque. A volte crogiolarsi nella tristezza è quasi piacevole, ti fa sentire diversa dagli altri, unica. Ma devi saperne uscire indenne, vivere la malinconia come un abito che puoi indossare e svestire a tuo piacimento, altrimenti il gioco si fa pericoloso. Per me è stato a lungo così. Fino a poco tempo fa uscivo di casa con due gocce di profumo e un pizzico di tristezza che mi aiutava a catturare dei particolari, a riflettere sulle cose in modo diverso, utile per la mia arte. Ma c’è sempre stato un cielo luminoso sopra la mia casa buia, la speranza, il mio orizzonte felice era lì, a portata di mano, raggiungibile con un colpo di pennello o con un battito di ciglia. Poi, all’improvviso, tutto è cambiato e ora non ho più un cielo luminoso dove riparare. Per questo motivo L’impero delle luci mi è così caro, perché quel dipinto rappresenta ciò che ero prima.
Vado a vederlo almeno due volte l’anno. Ogni tanto mi trascino dietro Rita, più dedita ad ammirare i bei visitatori stranieri del museo che le opere d’arte. A lei il quadro di Magritte non dice nulla, preferisce le forme allungate di Modigliani oppure le geometrie folli di Picasso, di sicuro più in linea con i suoi istinti passionali.
Questa volta però ci vado da sola.
Mi lascio alle spalle l’Accademia con i suoi ridicoli figuranti in costume e proseguo dritta. La fondamenta pullula di gallerie d’arte e negozi di souvenir artistici. Minutaglie di vetro di Murano, quadri simil Miró, polveri e tinture, papeterie artigianale, sculture più o meno visionarie. Mi sento a casa.
Poco prima del museo mi fermo all’imbocco di una calle. Da una finestra si vede un pittore di spalle intento a ritrarre Venezia come se la vedesse attraverso una lente deformante. Il quadro è una grande esplosione di colori e architetture assurdi. Dietro di me si forma un capannello di persone, i bambini in prima fila in religioso silenzio. Il tempo sembra sospendersi e dilatarsi, e a poco a poco davanti a me la tela del pittore scompare, e io mi ritrovo di fronte a un altro quadro, in un altro laboratorio…
Avrò sì e no quindici anni, i capelli tagliati a maschietto, i buchi all’orecchio fatti da poco. Scappo qui quasi tutti i pomeriggi, appena finisco i compiti.
L’odore di acquaragia è penetrato nei muri e mi fa pizzicare il naso e inumidire gli occhi, ma non riesco a resistere alla tentazione di venire. Mi siedo per terra, su un davanzale, dove trovo posto, e osservo. Mio nonno usa tecniche diverse, è nella fase sperimentale: si riempie le mani di colore e lo lascia gocciolare, lancia secchiate di vernice, inserisce nei quadri piccoli pezzi di stoffa o di corteccia, strappa la tela… Ha gesti nevrotici, rabbiosi, i nervi del collo in tensione, le dita contratte. E parla da solo, sbraita, impreca. Ha un modo violento di rapportarsi con l’arte, come se fosse una lotta: è lui contro il proprio corpo, che vuole trattenere l’idea, l’ispirazione, impedirgli di uscire.
A nessuno tranne me è consentito varcare la soglia di questo tempio della pittura. «In noi l’arte scorre come lava, è un fuoco che non potremo mai spegnere» mi ha detto una volta. E suonava più come una maledizione.
Da mio nonno ho imparato a guardare il mondo in modo diverso, a leggerne i colori, le forme. E a sforzarmi di riprodurre ciò che è invisibile. Da lui ho imparato a saper aspettare, e a considerare il pennello come un’estensione della propria mente.
«Giulia, non ti avevo vista» mi dice. Si è seduto, le spalle curve, ansante. Si ferma solo quando ha finito, e solo allora sembra riconnettersi con il mondo.
«Voglio farti vedere una cosa» mi dice. Mi avvicino. Puzza di vino: una bottiglia vuota è rotolata nell’angolo, a fare compagnia alle altre.
«Oggi ho usato un materiale nuovo» solleva una ciotolina piena di un liquido rosso scuro. «Toccalo» mi invita.
Intingo l’indice e poi lo strofino con il pollice, per sentire la consistenza del liquido. Mi sembra troppo viscoso, per poter rendere bene. Poi guardo il dipinto, e mi accorgo che l’ha usato con parsimonia, solo per alcuni dettagli importanti: il fuoco, una ferita, lo sguardo di un lupo, il riflesso della luna.
«Annusalo» mi esorta il nonno.
Porto le dita alle narici e sussulto. L’odore è dolce e metallico. Sangue.
«Dove l’hai preso?» gli chiedo orripilata, incapace di distogliere lo sguardo dalla ciotola.
«Non ho ammazzato nessuno, stai tranquilla: viene da un pezzo di carne che ha comprato tua nonna.»
Lo fisso, incerta.
«Santa bambina, devo fartelo vedere?» si alza e va nel piccolo bagno adiacente. Torna con un pezzo di carne molle, marrone e maleodorante. «Volevo rendere quelle sfumature più intense. Secondo te si capisce che è sangue?» mi chiede lanciando il pezzo di carne a terra, sopra le bottiglie.
Si risiede, e mi fa cenno di mettermi accanto a lui. Fianco a fianco, guardiamo il dipinto in silenzio. Il nonno aspetta, sa che sto riflettendo, che ho bisogno del mio tempo. È uno dei pochi che mi conosce davvero.
«Non si capisce che è sangue» inizio, «ma comunque fa una certa impressione. Non so se è perché me l’hai detto, però. Dovevi chiedermelo prima.»
«Già, vero. Ti andrebbe di provare a usarlo?» mi propone.
E anche se mi fa un po’ schifo, anche se quella stanza puzza di mille odori, corro a prendere una tela e inizio a dipingere, utilizzando anche quel nuovo colore. Perché ha ragione mio nonno: il fuoco dell’arte mi scorre nelle vene.
Attraverso la finestra il piccolo gruppetto muto di cui faccio parte segue l’artista mentre aggiunge sbuffi di pittura, corregge un’ombra, un riflesso sull’acqua. Le sue spalle ripetono i movimenti della mano, la testa si inclina per guardare il dipinto da una diversa prospettiva, i piedi, divaricati, rimangono fermi e ben piantati a terra, come a trarne energia. È una danza, un rituale. Quando alla fine posa il pennello si volta e, sorpreso dalla nostra presenza, fa un inchino rigido e impacciato.
I rumori tornano a occupare lo spazio e il gruppetto si disperde a poco a poco, ed è quando l’ultima coppia lascia la calle che lo vedo, appoggiato a una colonna. La maglietta tecnica appiccicata dal sudore, i capelli scarmigliati, il sorriso sbilenco. Diego, ancora lui. Che coincidenza.
«Corri?» gli chiedo, pentendomi subito della domanda. È più che ovvio che corre, che ha corso fino a poco fa. Che probabilmente lo faceva anche assieme a Brigitta, o Pamela o come diavolo si chiamava quella Barbie americana che ci ha interrotti al bar l’altra volta.
Sorride del mio impaccio. «Mi aiuta a scaricare la tensione.»
«E corri con l’americana?» Vorrei rimangiarmi la domanda, che suona fin troppo interessata, ma ormai è troppo tardi.
«No, mi piace correre da solo. E Ursula è solo un’amica.»
«Da come ti ha abbracciato non sono certa che lei la pensi allo stesso modo.»
Alza le spalle: «È un problema suo. E tu cosa fai da queste parti? Spii la concorrenza?».
«Touché. Sono quadri geniali, l’idea della visione deformata mi piace, ma non fanno per me.»
«Troppi colori, immagino.»
«E troppi dettagli.»
«In effetti le tue opere lasciano più spazio all’immaginazione, suggeriscono anziché dire.»
Ma che bravo, ha preso appunti durante la visita al mio laboratorio. Un po’ mi compiaccio di tutta questa attenzione. Ce ne stiamo per un attimo impalati a guardare il quadro, mentre un silenzio imbarazzato cresce intorno a noi.
Dopo un po’ mi faccio coraggio: «Vado al Guggenheim, comunque».
«A vendere una tua opera?»
«Magari!» sorrido. «Faccio un giro, rivedo qualche dipinto. Prendo spunti» invento. «A proposito di quadri, hai appeso il mio?»
«Non mi sono ancora deciso, aspetto sempre un tuo parere…» Si fa più vicino e, non so se per sbaglio o con intenzione, sfiora il mio avambraccio con il suo. Osservo le nostre braccia, la peluria che si tocca prima della pelle, un’impalpabile frizione luminosa. Un brivido mi attraversa e alzo gli occhi trovando i suoi ad aspettarmi, le pupille dilatate fin quasi a mangiarsi l’iride. Faccio un passo indietro, evitando altri contatti: «Magari un’altra volta». Mi strofino nel punto in cui mi ha toccato e fingo di guardare l’ora. «Ora devo proprio andare.»
«Ti aspetta qualcuno?»
«No, ma ho poco tempo, dopo devo riaprire lo studio e…»
«Posso farti compagnia?»
Diego
Ok, l’uscita non è stata delle più felici, visto come sono conciato e dato che devo pure rientrare in ufficio, ma non me la sento di lasciarci così, vorrei… mi piacerebbe poter stare ancora un po’ con lei.
Lo sguardo di Giulia è sceso sulla mia mise, di certo non adatta a una visita al museo, ma neppure troppo impresentabile, sudore a parte. Siamo in estate e i turisti vanno in giro conciati peggio di così, mi dico.
Le sue labbra si incurvano in un lieve sorrisetto di scherno: «Fa’ come vuoi… l’entrata è libera».
La precedo facendomi notare da Sergio, il custode del museo e amico di Frank. Ci ho bevuto qualche ombra assieme e lo status di “compagno di sbronze” mi regala l’ingresso, invece Giulia sceglie di pagare regolarmente facendo la fila. «L’arte va mantenuta» mi ricorda con una lunga occhiata di rimprovero. Con l’investimento sul suo quadro ritengo di aver già fatto la mia parte.
La attendo nel cortile disseminato di sculture e passo il tempo leggendo le targhette che descrivono le opere. Poi il profumo di gelsomino è come un richiamo e mi fa voltare nell’attimo in cui entra nel cortile. La guardo avanzare, il mento alto, i capelli che rimbalzano a ogni passo, un sorriso incerto sulle labbra. Noto come le sue mani si aprono e si chiudono, nervose, come i suoi occhi cercano e rifuggono i miei, e mi viene in mente una sola parola, che si accende davanti a me come il neon dell’installazione di Mario Merz nel cortile del museo: Desiderio.
“Desiderio” è un altro dei vocaboli che ho collezionato nel tempo. Deriva dal latino de-sidus, ovvero la mancanza di stelle, ed è riferito a quella sensazione, a metà tra il piacere e lo spaesamento, in cui brancoliamo nel buio senza alcun riferimento, l’orizzonte una distesa confusa di nuvole, nell’attesa che una manciata di stelle ci mostri la direzione. È la bonaccia di Tristano, è l’inseguimento di Achab in cerca di Moby Dick, è lo sguardo oltre la siepe di Leopardi e la guardia di Drogo sulla fortezza Bastiani… è una nostalgia, una mancanza febbrile. È una pressione che sfocia in ossessione, che occupa tutto. Il desiderio non è come un bisogno, non sempre si può soddisfare pienamente. Può trasformarsi in una pulsione, in una spinta infinita.
Giulia mi affianca e incrocia le braccia: «Non ho intenzione di farti da guida, se vuoi puoi farti un giro in autonomia».
Il mio incanto evapora. Non sarà una battaglia facile, ma non ho nessuna intenzione di ritirarmi. «Preferirei venire con te, non sei tenuta a parlarmi».
Scuote la testa e si avvia. La seguo.
Si ferma di fronte a un quadro di Kandinskij, Paesaggio con macchie rosse. Io guardo lei, non il dipinto. Vedo i suoi occhi che seguono i colori, inquieti. Non lo sta studiando davvero, sta pensando ad altro. Credo si sforzi di fare queste tappe intermedie prima di arrivare a L’impero delle luci per me, per fingere che sia una visita normale.
«Non è il tuo preferito, vero?» la pungolo.
«Però ha dei dettagli interessanti.»
«Il rosso, per esempio» suggerisco.
Si sistema la borsa sulla spalla. «Non è un colore che uso, non più.»
«Perché?»
«È il colore della vita» ribatte brusca, e prima che possa chiederle altro si avvia verso un’altra sala.
Mi chiedo cosa possa averle fatto la vita, per avere timore anche solo di rappresentarla. Questa donna è un rebus, una sfida continua.
La prossima sosta è davanti a un quadro senza titolo di Salvador Dalí. È un piccolo dipinto che mostra il corpo di una donna nuda, di spalle, mollemente adagiato in una piana sconfinata. La pelle è aperta in due punti, il volto e il costato, da cui escono interiora che assomigliano a ingranaggi, il braccio è sollevato da un filo allacciato a un ramo. La donna sembra depredata, esposta in un modo crudele.
«Non si può dire che sia un’opera allegra» commento.
«Però l’anima della donna, così messa a nudo, è libera.»
«Ma ormai non le serve più, visto che è morta» osservo.
«Potrebbe avere vita propria…»
«Solo se credi in queste cose. Credi in Dio?»
«Non lo so. Una volta avevo molte certezze, ma ora ho la testa piena di dubbi. Tu?»
«A volte. Quando le cose vanno particolarmente bene. Mi dico che ci deve essere un disegno, un motivo, un’origine a tanta felicità e bellezza.»
«Curioso, di solito la fede si fa sentire nei momenti di difficoltà, non di felicità.»
«Quando fa più comodo» concordo. «Ma la mia non è proprio fede. È solo una sensazione di inferiorità rispetto alle meraviglie del mondo.»
Si appoggia una mano sul cuore, con fare teatrale: «Wow, artiglieria pesante. A cosa devo l’onore di tanta profondità? L’arte tira fuori il meglio di te?» mi provoca, sorridendo.
In effetti ho cercato di impressionarla, è più forte di me.
«Non credo sia merito dell’arte» insinuo.
Mi lancia un’occhiata esasperata: «Per piacere, non dirmi che sono la tua musa ispiratrice. Non lo potrei sopportare».
Riprendiamo a camminare e finalmente siamo di fronte al quadro giusto. Se l’è tenuto per ultimo, la furbona. C’è un po’ di gente intenta ad ammirarlo, perciò aspettiamo il nostro turno, di lato. Giulia non finge neppure di interessarsi ad altri dipinti, tiene la testa china, come per evitare di gettare all’opera un’occhiata di sghimbescio. Sposta il peso da un piede all’altro, e la gonna le dondola sui fianchi, come una campana.
Quando il campo si libera lei avanza, si piazza in posizione centrale e alza la testa. Un sorriso lento si forma sulle sue labbra e lo sguardo si fa vago, sognante.
«Così è questo il tuo preferito» mormoro.
Sussulta: «Cosa te lo fa pensare?».
«La tua reazione. Si vede dal modo in cui lo guardi.» Chissà se ha mai guardato qualcuno così, mi domando.
Giulia arrossisce, ma continua a mantenere gli occhi sul quadro.
«Cos’ha di speciale?» indago.
Sospira: «È un dipinto che appartiene al mio passato».
È evidente che non abbia voglia di parlarne, ma io non mi do per vinto. «È legato a un momento triste o felice?»
Si morde le labbra e sposta l’attenzione dal dipinto alla finestra. «A un momento in cui tutto era diverso. Io, ero diversa.»
«Giovane e sognatrice? O solamente innamorata?» azzardo.
«Piuttosto… ingenua e felice. Con il tempo, con le ferite della vita, si acquista una consapevolezza che è come un coltello. Strato dopo strato taglia le tue protezioni, spunta tutte le attenuanti che ti sei concesso. E alla fine ti trovi più sensibile, più vulnerabile.»
Un’ombra le vela lo sguardo. Provo a dire qualcosa per sdrammatizzare: «Ora sei tu a scomodare i massimi sistemi».
«Ma senza doppi fini, a differenza di te.»
«Chi me lo assicura?»
Ridacchia, adesso più leggera. «Nessuno, in effetti.»
Restiamo per un po’ così, affiancati a fissare il dipinto. Non parliamo, ma non è come prima, di fronte al pittore. Ora è come se i nostri corpi continuassero a dialogare, a scambiarsi messaggi silenziosi, perfettamente consapevoli uno della vicinanza dell’altro.
La suoneria del mio cellulare interrompe il momento. È Alessandro, il direttore editoriale, che mi chiama per l’acquisizione di un nuovo autore.
Ci salutiamo in modo un po’ affrettato, lei è in ritardo per l’apertura del suo laboratorio – anche se non crede di avere la fila, «Ma mi piace mantenere le promesse» – e io sento che non è il caso di spingere oltre, per oggi.
Parto di corsa, le gambe pesanti, che non vogliono mettere distanza.