Cioccolato e desideri

Giulia

Do uno strattone rabbioso al filo e prendo due mollette e un panno. Qualcosa è successo, oggi, di fronte a quel quadro. Non so se sia stata colpa del dipinto o di Diego, con le sue domande e i suoi silenzi, con quel suo modo di fare al contempo arrogante e acuto.

Altro strattone, altro panno umido.

Quel suo modo di fare che mi agita. Che mi attrae. Che mi fa allontanare. Che mi fa desiderare.

La carrucola cigola, protestando, e la maglietta che cerco di appendere mi scivola dalle mani e cade, plana per due piani e atterra a mo’ di tappeto volante sui masegni. Mugugno un’imprecazione.

«Su, su, ti toccherà solo rilavarla» mi apostrofa Teresa dal suo balcone.

Incrocio il suo sguardo e mi sforzo di sorridere. «Non è una buona giornata.»

«Solo per una maglietta?» incalza la mia vicina, ridacchiando. Il suo buonumore è insopportabile.

«L’ho rivisto.» Riprendo ad armeggiare con la carrucola per non guardarla in faccia.

«Ah, è lui il colpevole allora. Cosa ti ha detto il tizio del quadro per farti arrabbiare?»

Teresa ha capito subito a chi mi riferivo. Gli uomini ormai sono una rarità nella mia vita.

«Ma niente…» mi cade una molletta dalle mani e sfiora un passante che alza il capo e mi urla di stare più attenta.

Mi siedo sopra al cesto dei panni e mi prendo la testa tra le mani.

So che Teresa è ancora lì, indecisa se venire da me o aspettare sul balcone che mi passi. E so che la mia è una reazione esagerata, ingiustificata. Eppure più ci penso, più i suoi occhi grigi mi appaiono davanti, e il mio stomaco si aggroviglia.

Perché adesso? Diego non è previsto, non è contemplato. Non posso lasciargli spazio, non posso permettere che questa strana corrente che scorre tra noi diventi qualcosa di più. Sta già mettendo in discussione i miei paletti, i confini che ho tracciato per continuare ad andare avanti con la mia vita.

Ingoio una lacrima che, caparbia, è riuscita a farsi strada sul mio viso. Sa di sale e di sogni. Scuoto la testa. Diego mi ricorda che ho un corpo. Che ho un cuore. Che ho delle emozioni. Mi mette ansia, mi rende vulnerabile. Mi fa sognare il cielo di Magritte.

Ma la cosa deve finire. Vorrei non continuare a imbattermi in lui. Sembra quasi che frequentiamo gli stessi luoghi.

Suona il campanello. Alla fine Teresa ha deciso di venire.

«L’avevo fatta per la festa della parrocchia, ma ho pensato che sarebbe servita più qui» mi dice poco dopo, esibendo una torta al cioccolato. Appesa a cavallo del braccio ha la maglietta che mi è caduta prima.

«Non dovevi, e poi hai il diabete, le torte ti fanno male» le dico prendendole il dolce dalle mani.

«A te no. E comunque la vita è una sola, e bisogna viverla.»

«Morirai sotto una cortina di zucchero.»

«O così o mentre creo uno dei miei centrini. Tanto prima o poi…»

«Tocca a tutti, certo. Ma per alcuni il “prima” arriva troppo presto, no?»

Mi afferra un polso con una delle sue mani nodose. Ha una presa d’acciaio. La torta trema e rischia di cadere.

«Smettila, Giulia. È un tarlo, che ti mangia dentro…» Con l’altra mano mi accarezza una guancia e asciuga una lacrima traditrice. «Devi aprirti, lasciare che il mondo ritorni a te. Questo tizio, sai, potrebbe non essere una cattiva idea.»

Mi scosto. «È meglio se mangiamo la torta» borbotto e tiro su con il naso. Non ho più voglia di parlare di Diego.

Gli occhi liquidi di Teresa restano incollati ancora un po’ ai miei, poi lei sospira e va in cucina a prendere un coltello e due piattini.

Il cioccolato fa miracoli, come sempre. Se abbinato a Teresa, poi… Dopo un assaggio lei si alza e va a finire di stendere i miei panni. Al tocco delle sue mani magiche la carrucola non cigola. La osservo da qui, mentre il cesto a poco a poco si alleggerisce come i miei pensieri, boccone dopo boccone.

Diego

«Non ho problemi mamma, e non ho nessuna intenzione di andare dal medico.»

«Però il figlio di Pierina, quello che lavora alle Poste, aveva difficoltà a urinare, ha fatto gli esami e gli hanno trovato un brutto male. Il dottore gli ha detto che avrebbe dovuto controllarsi prima, che a quarant’anni…»

«Non ho difficoltà a fare la pipì e non ho ancora quarant’anni.»

«Be’, trentasette non sono neanche più trenta.»

Quando si tratta di me, mia madre vede sempre il bicchiere mezzo vuoto. Se ho la ragazza, non può essere quella giusta e con ogni probabilità mi tradisce. Se non ho la ragazza, sono un caso disperato che mai le darà un nipote. Se mi ammalo, sono con un piede nella tomba. Se sto bene, di certo covo qualche malattia silente che esploderà all’improvviso.

«E poi, insomma, devi tenerti da conto, da quelle parti. Devi essere sicuro che funzioni tutto bene. Manchi solo tu all’appello» rincara, rinfacciandomi per l’ennesima volta che sono l’unico figlio a non averla resa nonna. Come se i nipoti le mancassero.

Sospiro: «Mamma, ma ci hai mai pensato che forse io non ho nessuna intenzione di mettere al mondo dei figli? Che sto bene così?».

Posso sentire il rumore delle sue mascelle che scricchiolano anche attraverso il cellulare.

«Parli così perché non sai cosa ti perdi. E poi nessuno rinuncia ad avere una famiglia. Anche se in effetti, con il lavoro che fai…»

Ecco, adesso mi dirà che non ho un impiego ben retribuito, che con le potenzialità che avevo avrei potuto fare chissà cosa, che ero la sua scommessa e l’ho delusa…

«Ma Francesca viene da una famiglia ricca, magari può mantenerti lei. Dopotutto adesso è di moda fare i casalinghi.»

Allontano il cellulare dall’orecchio per un attimo, preso dalla fortissima tentazione di riattaccare. Ma non si riattacca alla propria mamma, perlomeno non a una mamma come la mia, me la farebbe pagare fino alla fine dei miei giorni, la conosco. Perciò recupero tutta la mia pazienza e le rispondo: «Non sono interessato a Francesca, te l’ho già detto e ripetuto».

«Sempre così voi figli, ingrati. Ci si fa in quattro per risolvere i vostri problemi, ci si preoccupa e voi ci ripagate in questo modo. Mi faranno santa, anzi, martire, intitoleranno pure una via a mio nome. Va’ va’, torna dal tuo ridicolo gatto grasso…»

Continua a sproloquiare ma quasi parlando da sola, il volume del suo brontolamento si fa sempre più basso.

«Ciao mamma» le dico, poi sfioro con il dito il display e finalmente oso chiudere la conversazione. Getto il cellulare sul divano. Non ne posso davvero più. Guardo Mercedes, spaparanzata su uno dei cuscini, incurante di tutto. Mi avvicino e le accarezzo la pancia come piace a lei. «Ti hanno dato di nuovo della gatta grassa» mormoro. Apre solo mezzo occhio, mentre dal suo corpo inizia a sprigionare calore e un placido gorgoglio. «Ma a me piaci così come sei.»

Si dice che i felini siano in grado di assorbire la negatività di noi umani. Spero proprio che sia così, che Mercedes riesca a prosciugare tutta la frustrazione che mi ha invaso dopo la telefonata di mia madre.

Lo sguardo mi cade sul quadro di Giulia che ora è appoggiato su una mensola della parete di fronte. Rivaluto la mano che stringe il lenzuolo, la curva del polso, le vene in rilievo, l’ombra del corpo che si intravede a margine del ritratto. A me non sembra che il dipinto comunichi disperazione, ma eccitazione, coinvolgimento, desiderio.

Preso da un raptus vado a prendere gli attrezzi e lo trascino in camera da letto. In breve lo appendo sopra alla testiera. Mi stendo sul letto al contrario, per rimirarlo. E poi la mia mano destra scende verso il basso e si infila sotto la cintura. Nella mia mente prende vita a poco a poco la visione di Giulia qui, nel mio letto. Immagino di essere io a eccitarla, sopra di lei, a strapparle sospiri, gemiti. A farle arcuare il corpo sfiorandola. Chiudo gli occhi e mi abbandono alla fantasia.