Giulia
Non è proprio giardinaggio. A Venezia il verde è spesso nascosto tra i palazzi, in cortili piccoli ma lussureggianti, che non ti aspetti. Questo di oggi è più un lavoro a togliere, non a piantare o a curare. Io e Teresa siamo in ginocchio, intente a pulire la vera da pozzo al centro del campiello in parte a casa nostra. Vi crescono alcune erbacce e del muschio, nulla di eccessivo, ma tenere l’area curata ci piace. Spero che questo lavoretto serva a distrarmi. A riempire le ore. Il bacio con Diego di ieri pomeriggio è stato come un terremoto, ha fatto crollare parte dei muri che avevo eretto e ora sono bersagliata dalle emozioni, in bilico tra i ricordi che finora ero sempre riuscita a tenere a bada, a filtrare, mantenendo quelli dolorosi lontani, e le pulsioni del mio corpo, improvvisamente risvegliato dal letargo.
«In tempo di guerra queste foglie si mangiavano, sai?» mi dice Teresa strappando un’erbaccia cresciuta intorno alla vera da pozzo.
«Magari erano meno inquinate di queste.»
«Non credo fosse un problema, allora. Mia mamma diceva sempre che a quei tempi ciò che era gratis e commestibile si mangiava. Punto. Nessuno voleva essere magro come te.»
«Io non voglio essere magra. Mi capita.»
«Certo, a furia di saltare i pasti!»
Le lancio un’occhiataccia. Teresa a volte è peggio del Grillo Parlante. «Non lo faccio apposta a non mangiare, è che a volte ho altro per la testa.»
«Tu hai sempre altro per la testa.» Scuote il capo, strappando in un sol colpo un ramo d’erica con tutta la radice.
«Cioè ho sempre la testa per aria?»
«No, hai sempre la testa che pensa, che lavora. A volte mi sembra che ti lasci vivere, che non ci sei davvero, come ora ad esempio. Non sei qui con me, sei rimasta indietro, a pensare.»
Mi si inumidiscono gli occhi ma Teresa non può vederlo, sono dall’altra parte del pozzo, a rimuovere del muschio. «Tutto di me è rimasto indietro.» Tranne il mio corpo, che ha voluto fare un balzo in avanti quando ieri mi ha tradito, con Diego.
«Be’, sarebbe il caso di fare qualcosa, allora. Dovresti imparare da loro.»
Mi asciugo gli occhi e faccio il giro per gettare le erbacce nel secchio vicino a lei.
«Da chi, dalle piante?»
«Sì, per esempio dai fiori. Li vedi questi denti di leone?» ne accarezza i petali. «Loro non si chiedono da dove sono venuti, o se ha senso sbocciare, o se qualche altro fiore, magari più bello, o più profumato, è cresciuto accanto a loro. Resistono al vento, alla pioggia, si fanno piegare ma poi si rialzano. Germogliano, si innalzano e appassiscono. Guardano solo avanti, solo al sole.»
Poi afferra i loro gambi e li strappa con decisione.
«Nooo, hai oscurato il loro sole per sempre! Assassina di fiori!»
«Un po’ mi dispiace, ma quando ci vuole ci vuole» commenta sorridendo.
«Mi sa che alla fine non paga, essere come loro.»
«Fino a pochi minuti fa hanno vissuto benissimo. Non sarebbe bello che fosse così anche per gli uomini? Vivere senza pensieri, felici, e andarsene quasi senza accorgersene? Avevo un uccellino, una volta, un canarino che cantava a ogni ora, entusiasta della vita. Mi faceva compagnia. Ogni tanto gli lasciavo lo sportello della gabbietta aperta, per fargli fare un po’ di moto. Lui svolazzava felice per la casa e poi rientrava nella gabbietta. Un giorno l’ho liberato ma avevo lasciato la finestra aperta. L’uccellino è uscito all’aperto e si è posato su questo pozzo, ha gonfiato il petto, preparandosi a cantare, quando un gatto rosso l’ha acciuffato con un balzo.»
«L’ha ucciso?»
«Non lo so. Probabilmente sì. Non l’ho più trovato. Ma fino ad allora, quanto aveva cantato! Era così piccino ma così pieno di vita!»
Non ho mai valutato questa possibilità. Non ho mai cercato di riconsiderare la morte di Luca da un’altra prospettiva, quella della vita condotta fino a quel momento. Ho sempre pensato a ciò che gli è stato negato. Lui era un fiore reciso troppo presto, aveva appena iniziato a germogliare. Chi può dire come sarebbe potuta essere la sua vita futura? Contro chi o cosa avrebbe dovuto lottare, quali traguardi avrebbe raggiunto, a cosa si sarebbe appassionato?
Guardo i denti di leone nel secchio. «Luca ha sempre odiato i fiori, era allergico. Per il suo funerale abbiamo usato solo del verde» mi esce di bocca. È la prima volta che parlo di lui a voce alta. Solo pronunciare il suo nome mi procura una strana sensazione allo stomaco, come se avessi gettato un sasso nello stagno e i cerchi sulla superficie si allargassero dentro di me.
Teresa annuisce mentre riprende a lavorare, in ascolto.
Afferro il secchio per portarlo a svuotare. L’odore nauseante delle erbacce mi fa arricciare il naso.
«Qualcuno però gli aveva appoggiato una rosa bianca sulla bara. Non ho mai saputo chi» continuo. Mi tremano le mani. «Non ho avuto il coraggio di toglierla, e a volte mi chiedo se non gli sia capitato di starnutire, lì dentro, tutto solo, al buio…»
Il secchio mi cade dalle mani e Teresa si alza e mi abbraccia.
I denti di leone sono sparpagliati intorno a noi, come soldati caduti.