Giulia
Mi sono riaddormentata tra le sue braccia senza pensieri, quasi felice. Ma adesso, di nuovo sveglia, mi ritrovo inquieta e a disagio. Diego non è accanto a me, un rumore di stoviglie mi fa pensare che stia preparando la colazione. Al mio fianco c’è un gatto grosso, pancia all’aria, in attesa di coccole. Sovrappensiero gliele elargisco, ma intanto la mia mente corre lontano riproponendomi istantanee di quello che è appena successo. La sua barba appuntita che mi solletica l’ombelico, gli occhi agganciati al mio respiro, le dita che scivolavano su di me, ora dolci ora implacabili, il modo in cui ha saputo tenermi con sé e portarmi dove ha voluto… Chiudo gli occhi, sforzandomi di cancellare tutto. Prendo un respiro e formulo una decisione sofferta: non farò colazione con Diego. Non so bene cosa sia accaduto, l’attrazione, la complicità che abbiamo avuto… Devono essere state di sicuro una meteora, un evento irripetibile. Non voglio ricamarci su, o leggere nel suo sguardo la speranza di farlo diventare qualcos’altro.
Recupero la borsetta, afferro il mio cellulare e scrivo a Rita:
Mi verresti a prendere ora?
Meglio non lasciare tracce eh? ;) mandami la posizione e il cognome e arrivo
Eccola. Non so il suo cognome. Se non c’è il nome sul campanello suonali tutti. Fai presto
Chiamami Wonder Woman
Dopo una doccia veloce, recupero l’abito dalla poltrona e indosso i tacchi un po’ barcollante. Prima di lasciare la stanza mi accorgo che il mio quadro è abbandonato a terra, contro il muro. Sopra la testiera del letto c’è un chiodo pronto ad accoglierlo.
Allora alla fine ha deciso dove metterlo.
Ho la tentazione di appenderlo, in fondo sarebbe un modo per immortalare ciò che è avvenuto tra noi, come un epitaffio. Ma poi mi sembra solo di cattivo gusto, quindi non faccio niente.
Quando entro in cucina Diego sta infilando una cialda nella macchina del caffè, mi dà le spalle.
«Siediti pure, ci vuoi un po’ di latte o… Sei già vestita» constata voltandosi, e il sorriso con cui mi aveva accolta si spegne.
«Ho un impegno, scusa, non mi posso fermare.»
Leggo la delusione nel suo sguardo. Il gatto mi si struscia contro le gambe, miagolando sommessamente.
«Anche Mercedes vuole che resti. Dài, facciamo presto, un caffè e via.»
Il campanello suona in quell’esatto momento. Benedetta Rita!
«È la mia amica» annuncio. «Devo scendere. Ci… ci sentiamo presto» gli dico imbarazzata, e alzo la mano a mo’ di saluto.
Diego fa per seguirmi, forse per fermarmi, ma io ho già aperto la porta e imboccato le scale.
«Non ho il tuo numero!» grida.
Io non mi volto, non gli rispondo. Scendo i gradini veloce, come se avessi il diavolo alle calcagna.
Diego
Non che mi serva, poi, il suo cellulare; ormai ho diversi mezzi per rintracciarla, ma era la cosa più banale da dire per fermarla. Dopo un attimo sento dei passi risalire le scale. Forse Giulia ci ha ripensato, forse sta salendo a darmi il suo numero, un bacio, un saluto più dignitoso… E invece, aggrappata al corrimano, compare mia madre.
«Ehi» esclamo sorpreso.
Mi sorride ma non parla.
«Tutto bene?» indago.
Le sue labbra continuano a rimanere rigidamente serrate. È solo quando arriva sul mio pianerottolo che mi rendo conto che non risponde perché non ha più fiato, povera. Entra in casa, si getta sulla poltrona lasciandocisi cadere sopra – provocando i miagolii infastiditi di Mercedes, che la occupava in precedenza – e si guarda intorno, arricciando il naso. «La tua casa puzza di chiuso. Non apri mai le finestre?»
«Buongiorno anche a te, mamma.»
«E mi rimarranno addosso i peli della tua gatta.»
«Mi duole farti notare che hai scelto tu di sederti su quella poltrona, avevi tutto il divano libe…»
«Offrimi un po’ di caffè almeno. Senza zucchero, mi raccomando.»
Alzo gli occhi al cielo e preparo la tazzina, accompagnandola con metà della brioche che avevo comprato per Giulia nella pasticceria qui sotto. Mia madre dice sempre di essere a dieta, beve il caffè nero (ostentando smorfie di disgusto che neanche una bambina), ma poi non disdegna un dolcetto, specie se capitato casualmente sul suo piatto.
«Qual buon vento, mamma?» le chiedo porgendole il tutto.
Un lampo si accende nei suoi occhi alla vista della brioche, ma non dice nulla. Sa che qualunque cosa esca dalla sua bocca sarà usata contro di lei. «Oh, passavo di qui e ho pensato di farti un saluto, non devo mica avere un motivo per fare visita a mio figlio, no?»
Certo. Peccato che invece abbia sempre un motivo. È peggio della matrigna di Biancaneve. Vedremo dentro quale mela nasconderà il veleno, questa volta. C’è una parola che rende benissimo il mio stato attuale, una parola molto in voga in questi ultimi anni e già da tempo presente nella mia preziosa collezione: resilienza. Deriva dal latino, suffisso re- più il verbo salire, inteso però come rimbalzare, saltellare. Il suffisso porta “indietro”, a un rimbalzo di ritorno, e il termine nasce per quei materiali che riescono a sopportare l’urto senza ostacolarlo, senza resistere, ma assorbendone l’energia. Riferito alle persone, denota un certo grado di sopportazione, di capacità di adattamento al trauma, di elasticità mentale. Dopo la fuga di Giulia, e ora durante la visita inaspettata di mia madre, mi sento il re dei resilienti.
«Certo, puoi venire quando vuoi» le concedo.
«Ci mancherebbe!»
«Luisa, Giorgio, notizie?»
Estrae un fazzoletto tutto trine e pizzi e si pulisce la bocca, tamponandosela come una nobildonna. «Tuo fratello ha parlato con la baby-sitter dei gemelli e pare che si sia lamentata del loro comportamento…»
«Ma dài!» dissimulo il sarcasmo.
«Anch’io sono rimasta sorpresa, quei due angioletti! Ma sembra che insieme si facciano rispettare, sai?»
E chi lo mette in dubbio?
«E insomma, la baby-sitter dice che dovrebbero avere più controllo, essere meno selvaggi. E pensare che a me sembrava il figlio di Luisa, Pietro, il nipote più selvaggio.»
Perché tu consideri la creatività una diversità di cui avere paura, ecco perché, cara mammina. Sei stata cresciuta con i paraocchi, come i cavalli da tiro.
«Pietro è un gran bel selvaggio, nel senso più libero del termine» lo difendo.
«Ecco, vedi che la pensi come me?»
Faccio un bel respiro. «No, mamma. In realtà ho sempre trovato Jacopo e Francesco un po’ stronzetti, e non ne ho mai fatto mistero. Dovresti vedere come trattano Pietro.»
«Non parlare così di quei due cuccioli.»
Sì, cuccioli di tirannosauro.
«E poi anche Pietro, sai…» continua.
«Ti assicuro che lui non ha colpe. Tutte le volte che ne hanno occasione i gemelli lo bullizzano.»
«Lo… che?»
«Lo prendono in giro, fanno i prepotenti con lui…»
«Perché sono più grandicelli» li scusa la nonna orgogliosa, sbatacchiando dolcemente la cofana.
«Appunto perché sono più “grandicelli”, come dici tu, dovrebbero comportarsi meglio con i più piccoli. Specie con Pietro che è sempre…»
«Perso, con quell’aria smarrita» la cofana adesso è immobile, l’occhio severo. «A volte mi ricorda te e il tuo strano rapporto con le parole. Da piccolo avevi la stessa aria smarrita e confusa quando un termine ti colpiva.»
Ci penso su. Pietro mi è sempre piaciuto, e se abbiamo delle caratteristiche in comune non può che farmi piacere. E può anche darsi che queste caratteristiche non piacciano alla nonna modello, così simile ai suoi due primi figli, Luisa e Giorgio, tutti performance e risultati, così diversi da me.
«Proprio per questo pensavo, caro…»
Antenne alzate, allerta. Ha usato la parolina magica, caro, sforzandosi anche di sottolinearla con un tono mellifluo che non mi convince per niente. Vediamo che favore mi deve chiedere ora, qual è il veleno nascosto nella mela.
«Sì?»
«Sai, Luisa e suo marito devono andare a un convegno importante a Oslo la prossima settimana. Hanno risolto per la piccola Matilde, che starà dalla nonna paterna, quanto a Pietro… Visto che è andata così bene l’altra volta, pensavo che non ti sarebbe dispiaciuto ospitarlo da te per una settimana.»
Respiro. Uno-due, dentro-fuori, dentro-fuori.
«Durante il giorno sarà al centro estivo. Poi la mamma di un suo compagno te lo porterebbe in ufficio…» continua mia mamma.
Respirare è un gesto meccanico ma a volte sembra che l’aria si inceppi, fatichi a entrare nei polmoni.
«Tutto bene, tesoro? Ti vedo un po’ palliduccio…»
Ce la posso fare. Non deve essere poi così difficile dire di no a mia madre, matrigna di Biancaneve o no. «Non posso tenere Pietro da me, mamma. Hai detto anche tu che la casa puzza.» A questo punto vale tutto. Ok, Pietro mi piace, ma ospitarlo per una settimana intera! Io che mi faccio un vanto della mia libertà e indipendenza. Già è tanto se mi prendo cura di quella gatta ruffiana. E guardiamo in faccia la realtà: è obesa ed egoista.
«Sciocchezze, basterà pulire bene e far prendere un po’ d’aria.» Si alza, lascia la tazzina sporca nel lavello e mi lancia uno di quei sorrisi che usa a mo’ di commiato. «Riferisco a Luisa che sei entusiasta dell’idea e le dico di chiamarti per accordarvi.» Si avvicina. Odore di lacca mescolato al tabacco (non è un segreto, anche se lei crede di sì, che ha solo finto di smettere di fumare), sguardo quasi benevolo: «Un bambino di cinque anni non è poi così impegnativo. E un po’ di pratica non ti farà male!».
Quando la porta si chiude alle sue spalle mi lascio cadere sulla poltrona. Mercedes mi si accoccola in grembo, cominciando a fare le fusa.
«Sei l’unica femmina che mi mostra un po’ di affetto questa mattina. È questo il motivo per cui ti tengo, perché quando tutti mi lasciano tu resti. Una bella gattona grassa e calda che mi ama incondizionatamente…»
Mercedes si alza in piedi di colpo, le orecchie ritte. Mi pianta gli artigli su una gamba e scatta verso il balcone, fermandosi di fronte al vetro, i baffi che vibrano, la coda in movimento.
«Tu quoque Mercedes!» le urlo dietro, ma quell’ammasso peloso non accenna a rispondermi, troppo interessata a dare la caccia a una mosca.