Giulia
Non riesco a scacciare dalla mia testa le immagini della notte trascorsa con Diego. Ci provo, come faccio con i quadri, come faccio con la camera di Luca, come ho fatto con le foto, con Stefano, con tutto ciò che riguardava la mia vita assieme a loro, ma ogni tanto, quando meno me lo aspetto, eccole intrufolarsi nei miei pensieri, rientrare di prepotenza nella mia vita.
«Sento il rumore delle rotelle del tuo cervello da qui. Smettila di pensare e dammi una mano.»
Teresa è alle prese con un cambio di arredamento. Almeno una volta all’anno decide che vuole spostare il letto dalla parte opposta, oppure girare il tavolo verso la finestra, o provare a mettere l’angoliera in un altro angolo. «Per qualche mese mi sembra di essere in vacanza, di avere la casa diversa. Mi mette allegria» dice. E ogni volta l’aiuto, anche se lei non me lo chiede direttamente, orgogliosa com’è. Ora si è fissata con la credenza della cucina, che ha deciso di spostare in salotto. Le ho fatto presente che così i piatti non saranno a disposizione mentre si cucina, ma lei mi ha ribattuto che non organizza una cena con tanti ospiti ormai da un decennio e non ha più occasione di usare il servizio buono. Pare che di quel mobile adesso, in cucina, non se ne faccia proprio niente, anzi, le ruba spazio, «Potrei occuparlo con un baule dove riporre i centrini», ha ipotizzato sovrappensiero. Io non ho commentato, in queste cose è meglio assecondarla altrimenti sarebbe capace di prolungare il suo famigerato silenzio di disapprovazione a vita. Perciò sto buona buona e lavoro. Ho già spostato cataste di piatti di fine porcellana in salotto, ora tocca ai bicchieri. Comincio con quelli più strani, pieni di riflessi.
«Sono di cristallo di Boemia, facci attenzione» mi dice e mi scocca un’occhiata ammonitrice. Io, che li stavo impilando uno sull’altro, prendo a trasferirli una coppia alla volta.
«Meglio, così» approva, «è più faticoso, ma anche più sicuro. Sai, sono fatti artigianalmente, perciò sono uno diverso dall’altro, come le persone.»
«E altrettanto delicati» sbuffo ritornando a mani vuote per prenderne altri due.
«Io non sono una persona delicata» obietta seguendomi in salotto con un’altra coppia di bicchieri.
«Ma ti puoi rompere, come tutti.»
«Dipende. La mia forza è tutta qui» e indica la testa, «e qui» e mi mostra le mani.
«Credevo fosse anche un po’ qui» e le indico il cuore.
Fa un gesto con la mano, come a scacciare un moscerino. «Il cuore è sopravvalutato. Le emozioni partono dal cervello, da noi. E hanno un’origine profonda e mai ingiustificata. Anche quando sembra che sia l’istinto a governare, che la testa sia scollegata, non è così.»
«Dici?» Teresa per me è un po’ il saggio della montagna, ma non per questo mi bevo tutto ciò che esce dalla sua bocca.
«Per esempio quando si litiga, o quando ci si innamora.»
Sbuffo sonoramente.
«Prendi il tizio del quadro…»
Appunto.
«… quando sei con lui ti sembra che sia chimica, che sia una reazione solo fisica, vero?»
Non confermo né smentisco, ma come al solito questa donna sembra capace di entrare nella mia testa.
«… ma invece il tuo cervello è in movimento, valuta, riflette. Da quando è entrato nella tua vita sei diversa.»
«Non è entrato nella mia vita» protesto.
Teresa alza un dito nodoso e con l’unghia ricurva. «Ma ti ha cambiata.»
«Non ci vediamo più» preciso, «e non mi ha cambiata.»
«Via, qualcosa ti ha pur fatto. Ti sembrerà poco, ti sembrerà solo l’incontro di due energie, ma non è così.»
«Non lo conosci nemmeno» brontolo, seccata dalla piega che sta prendendo il discorso.
«Eppure ti sta facendo reagire. E, nel caso tuo, è qualcosa di importante.»
«Grazie tante!»
«Ma dài, hai capito cosa intendo» alza un bicchiere, guardandomi attraverso il vetro. Le vedo un occhio grandissimo, come quello di un ciclope. Mi osserva e poi si siede sul divano; le giunture delle sue ginocchia producono un cigolio sinistro. «Sai, prima di stare con Mario frequentavo un giovane siciliano. Era un marinaio e si sarebbe fermato a Venezia solo pochi mesi, il tempo della riverniciatura della chiglia della sua nave. Mi piacevano la sua divisa immacolata e lo sguardo, azzurro come il mare. I miei non lo sapevano» appoggia il bicchiere e mi sorride, mettendo in mostra la dentiera nuova.
«Quanti anni avevi?» mi siedo anch’io sul divano. Sono rare le storie di Teresa, ancora di più quelle sul suo passato. Non è una donna che ama parlare di sé.
«Credo quindici o sedici. Ero venuta via da Burano da poco per andare a servizio in un albergo a Rialto.»
«Lui era bello?»
Le si accartoccia la fronte, mentre ci riflette. «Non so se era bello. Parlava con quell’accento del Sud che sembra avere il sole nelle vocali. Si chiamava Salvatore e diceva che mi avrebbe sposata. Che mi avrebbe portata in America a fare la signora. Che avremmo avuto cinque figli. Sapeva di sale e di libertà e aveva delle mani molto curate, nonostante il lavoro che faceva. Poi è arrivato il tempo per lui di imbarcarsi, di partire; ci siamo salutati come in un film, lui dall’alto della nave, io sotto a sventolare il fazzoletto. Ho seguito la scia dell’imbarcazione fino all’orizzonte.» Sospira, scuotendo la testa. «E poi sono passati mesi, e non mi ha mai scritto.»
«Cioè tu gli hai scritto delle lettere e lui non ti ha mai risposto?»
«No, non gli ho mai scritto. Ma neppure lui.»
La guardo interdetta. «Quindi anche tu non hai fatto niente per cercarlo.»
Fa una smorfia, alzando il mento. «Aveva promesso. Avrebbe dovuto cominciare lui. E poi io non sapevo il suo indirizzo» si stringe nelle spalle. «Comunque poi ho incontrato Mario e l’ho dimenticato.»
«Nessun rimpianto? Mai?» insinuo.
Scuote la testa. «Si vede che non era destino. La sua nave non è mai tornata; magari lui ha trovato la sua metà negli Stati Uniti, o in un altro porto.»
«O forse ha avuto un incidente ed è morto pensando a te.»
«Può essere. Io però qualcosa di lui me lo sono portato a casa.»
Batto una mano sul bracciolo, eccitata. «Non mi starai dicendo che tuo figlio è suo, vero?»
Teresa arrossisce. Credo sia la prima volta che la vedo arrossire. Le dà un che di tenero, smussa gli angoli della sua espressione abituale.
«Non… avevamo mica fatto quelle cose. Non si usava, ai miei tempi, prima del matrimonio. Cosa vai a pensare!»
«Scusa, credevo solo…»
«Credevi male.»
«Va bene, ma ora non lasciarmi sulle spine: cos’è che ti sei portata a casa, di lui?»
«Una frase.»
Sai che roba, penso tra me. Ma dissimulo bene la delusione. «Se la ricordi ancora vuol dire che ti ha colpito davvero.»
«Più che colpito, illuminato. Lavoravo come cameriera all’albergo Ai Dogi da ormai tre anni quando ci siamo incontrati. Non pensavo che avrei fatto altro nella vita, non avevo prospettive né passioni particolari. Ma lui mi aveva visto all’opera: gli rammendavo i vestiti, gli avevo cucito un fazzoletto con le sue iniziali. E un giorno mi disse che quando usavo l’ago rimaneva incantato a guardarmi, che avevo mani magiche, in grado di fare cose meravigliose. Sai» e distoglie gli occhi, lievemente imbarazzata, «non avevo mai pensato di saper fare bene una cosa, di avere un talento particolare. Me la cavavo in diverse cose – era un’epoca in cui bisognava rimboccarsi le maniche e lavorare a testa bassa –, ma non ero brillante. Allora non ricamavo ancora i centrini: a Burano avevo imparato a cucirli, come tutte le bambine dell’isola, ma non li avevo mai fatti davvero, senza copiare un modello, provandoci con la mia testa. E senza le sue parole, forse, non avrei mai trovato il coraggio di provarci.»
«E ora sono tutta la tua vita.»
«Già.» Si alza dal divano e mi appoggia una mano sulla spalla. «Tutti gli incontri portano qualcosa. Alcuni a volte ti cambiano senza che tu te ne accorga.» Mi lancia una lunga occhiata, annuendo a una domanda che ha posto solo a se stessa. «E ora finiamo con i bicchieri, che poi c’è da spostare il servizio da tè giapponese.»