La poesia dell’universo

Giulia

Ho conosciuto Donato per caso, quando ero ragazza, un giorno che, naso all’insù, me ne stavo ad ammirare le girandole che ricamavano la facciata della sua casa dietro la Scuola di San Rocco. Mi aveva sorriso salutandomi in modo bizzarro: muovendo le dita nell’aria, come un pianista. Gli avevo chiesto se fosse lui l’artefice di quei marchingegni colorati.

«Già, pare sia colpa mia» aveva scherzato.

«E perché li fai?»

«Per mostrare come funziona l’universo con la poesia» mi aveva risposto. E poi mi aveva raccontato che installava una nuova girandola solo quando c’era l’alta marea, perché per farlo si appendeva alla parete con un’imbragatura. L’acqua alta, in caso di caduta, avrebbe attutito il danno. «Se mi facessi male per colpa di una delle mie girandole, mia moglie non me lo perdonerebbe mai» mi aveva confidato.

Era un operaio con la passione dell’astronomia, un uomo semplice ma creativo, con uno sguardo bambino sul mondo.

La sua casa colorata e folle mi ha sempre affascinato. Qualche volta ho provato anche a ritrarla, ma la copia non riusciva a rendere i dettagli e la peculiarità dell’originale.

Da quando è morto le girandole sono scomparse dalla facciata a poco a poco con lui, inghiottite dalla laguna. Ma il ricordo rimane sulla pietra di quella casa e nei cuori dei veneziani, e i nuovi proprietari ogni tanto mettono sul balcone una girandola, per portare avanti la memoria.

Anche a mio figlio piaceva molto la casa delle girandole. Da piccolo me le indicava dal passeggino, togliendosi il ciuccio per esprimere con suoni e gridolini la sua meraviglia. Per un po’ abbiamo avuto una girandola sull’altana, il lungo stelo piantato nella terra dei gerani. Era di legno e le pale in movimento producevano un rumore simile a quello delle locuste in volo. Un giorno una grandinata l’ha distrutta; Luca ormai era grande, passava ore davanti ai videogiochi e non gli interessavano più le girandole, perciò non l’abbiamo mai sostituita.

Ora sono qui, davanti alla casa di Donato, per ricordare quella parte di Venezia che continua a mostrarsi pazza e sognatrice, che non ha paura di esagerare. Che accoglie la fantasia facendola dialogare in modo insolito con la realtà. E per ricordare anche i sogni di Luca bambino, che erano colorati, mutevoli e liberi, come la girandola sull’altana. Prima di schiantarsi contro la violenza della vita.

Una piccola girandola a forma di fiore sul balcone muove pigramente i petali alla brezza debole. La fisso come ipnotizzata. Mi si affianca un bambino, che guarda nella mia stessa direzione. Lo osservo per un attimo e poi: «Ehi» gli dico, «ma io ti conosco, sei quello del labirinto».

«Già, sono proprio io. Aveva ragione, sa?»

«Su cosa?»

«Sul fatto di non correre. Nel labirinto sono caduto e mi sono fatto male.»

«Testa?»

«Ginocchio.»

«Capita, dài. Sono tutte ferite di guerra.»

«È così, la vita a volte è dura» mi risponde serissimo.

Annuisco composta trattenendo una risata.

«Sta guardando la girandola?»

«Sì. Ti piace?»

«È carina.» Si è messo a spostare il peso da un piede all’altro, come stesse ballando un motivo che sente solo lui. O come se gli scappasse la pipì, penso ricordando Luca fare lo stesso gesto.

«Una volta ce n’erano di più su questa casa. Ce n’erano tantissime e di tutte le forme e i colori…» inizio a spiegargli.

Ma lui mi interrompe: «Sì, lo zio mi ha fatto vedere una foto su internet. Sa che in alcuni Paesi le girandole si mettono anche sulle tombe degli animali, per liberare l’anima?».

Questo bambino mi sembra un po’ troppo saggio per la sua età. Io da piccola non sapevo neppure cosa fosse, un’anima.

«Abiti qui vicino?»

«No, a Mestre. Ma sto a Venezia dallo zio per un po’.»

«E tuo zio dov’è?» mi sembra un po’ troppo latitante, questo zio. Anche l’altra volta non si trovava. Esisterà davvero?

Fa un gesto vago verso i portici. Il riflesso del sole sull’acqua è intenso, provo a ripararmi gli occhi con la mano e solo allora mi sembra di scorgere un’ombra appoggiata a una delle colonne.

«Ti ha raccontato lui la storia delle girandole sulle tombe?»

«Sì, lo zio sa un sacco di cose. Lavora con i libri.»

Eccone un altro, commento tra me pensando a Diego. Diego che non sento da una settimana, ovvero da quando sono scappata da casa sua come se avesse preso fuoco. Diego che secondo Teresa ha iniziato a cambiarmi senza che me ne accorgessi.

«E a te piacciono i libri?» chiedo riprendendo il controllo dei miei pensieri.

«Neppure quelli da colorare, ma non dirlo allo zio» mi sussurra, come se fosse un peccato. Questo bambino mi piace, decido.

«Hai mai avuto una girandola?»

«No, ma mi piacerebbe averne una.»

L’idea di comprargliene una mi stuzzica, ma mi freno in tempo. Cosa sto facendo? Ero venuta per archiviare un ricordo, non per portarlo avanti con un dannato passaggio di testimone.

«Non sei un po’ troppo grande per una girandola?» interviene una voce alle nostre spalle. Una voce che riconosco subito.

«Quello è tuo zio?»

Il bambino alza le spalle annuendo. Ok, fermi tutti. Va bene che Venezia è piccola e che le coincidenze esistono, ma è mai possibile che io incontri Diego per caso tutte queste volte?

«Io credo che nessuno sia troppo grande per una girandola» sussurro al bambino. Un sorriso complice ci unisce per un momento, poi ridivento seria per affrontare lo zio.

«Sei peggio del prezzemolo: com’è che ti incontro dappertutto?» lo apostrofo.

Alza le spalle. «Si vede che bazzichiamo gli stessi posti. Cosa gli hai detto?» mi chiede sospettoso indicando il nipote.

«Oh nulla, un commento sulle girandole.»

«Pensavo ne sapessi più di banderuole… ora ci sei, ora non ci sei» commenta acido.

«È stato un piacere rivederti, Diego» mi volto e mi incammino.

«Giulia, scusa, non intendevo…»

«Intendevi benissimo invece. E me lo sono meritato. Ma a volte si fanno degli sbagli.»

Mi ferma, piazzandosi di fronte a me. «Intendi dire che è stato uno sbaglio stare con me?»

Il bambino segue la scena spostando lo sguardo ora su uno ora sull’altra, come se assistesse a una partita a ping-pong. Non possiamo discutere di queste cose davanti a lui.

«Credo sia meglio parlarne in un altro momento.» Accenno a superarlo, ma lui non mi lascia passare.

«Non mi concederai un altro momento, lo so.»

Il suo sguardo mi fa male.

Diego

Giulia sospira, indecisa. Vorrei poter entrare nella sua testa e capire cosa sta provando. Vorrei poterle stare lontano, riuscire a non pensare più a lei. Non dovevo venire, lo so. Raggiungerla qui è stata una mossa azzardata e non da me, ma non ho resistito. E poi avevo la scusante di Pietro, scusante che ora come ora mi sta creando qualche problema.

«Ti chiedo solo un’ora, un’uscita breve, non un vero appuntamento. Non puoi lasciare che le cose finiscano così» riprovo.

L’attesa è come una bolla che continua a riprodursi, creando sempre più strati, bolle dentro bolle dentro bolle, separandomi da lei.

«D’accordo» sussurra con voce incerta. E le bolle scoppiano una dopo l’altra con un suono fragoroso.

«Mercoledì pomeriggio? Gianduiotto da Nico?» propongo. Mercoledì pomeriggio ho una visita medica ed esco prima dal lavoro, in più il gianduiotto di Nico è il prossimo proposito nella sua agenda, così le do modo di cogliere due piccioni con una fava. E infatti Giulia mi scruta per un momento, sorpresa. E poi dice: «Potrebbe andare… ma come farai con tuo nipote?».

«Mercoledì mia sorella dovrebbe essere già tornata e Pietro rientrato a casa sua.»

«Zio, lo voglio anch’io un gianduiotto!»

«Se vuoi andiamo a prenderlo adesso.»

«Ma è quasi ora di cena…» mi riprende Giulia.

Faccio l’occhiolino a Pietro: «Vorrà dire che ceneremo così».

«Perché non ceniamo tutti insieme con un gianduiotto? Perché non vieni anche tu? Dàiii» propone mio nipote afferrando la mano di Giulia.

«Pietro, non insistere, Giulia è impegnata, avrà sicuramente del lavoro da sbrigare…» provo a giustificarla.

«Di domenica?» insiste Pietro che, malgrado abbia solo cinque anni, non perde un colpo.

Per un attimo sembra quasi che lei sia sul punto di accettare, lo sguardo le si accende di un barlume di eccitazione. Poi osserva la propria mano stretta a quella di mio nipote, e un velo cala su di lei, annullando tutto. Scioglie le dita, liberandosi da quelle del bambino. «Mi dispiace piccolo, ho da fare anche se è domenica. Sarà per un’altra volta.»

Prendo Pietro per le spalle, evitando che insista ancora. «Mercoledì alle cinque va bene?»

Annuisce seria, e se ne va.