Gianduiotti e tramonti

Diego

Il mare oggi è una tavola grigia, interrotta solo ogni tanto dal passaggio di un’imbarcazione. Sulle Zattere non ci sono molte persone, con questa afa i veneziani preferiscono il Lido, oppure l’ombra dei Giardini.

Anche la terrazza di Nico non è presa d’assalto come al solito. Solo una famiglia di francesi sfida la calura e le zanzare per gustarsi il famoso gianduiotto. Il locale deve essere entrato in qualche guida, segnalato tra le curiosità, penso, altrimenti non si spiega la loro temerarietà.

Ho scelto un tavolo d’angolo, il più appartato possibile. Da qui si vedono le finestre di casa mia. Nutro la folle speranza di poterci portare Giulia, dopo. Ma so che è mal riposta. Lo so da come ci siamo lasciati la volta scorsa, e da come la vedo avanzare adesso sulla terrazza, le spalle contratte, lo sguardo basso, il passo lento e cadenzato, come se stesse andando a un funerale.

«Non ho molto tempo» esordisce, e finalmente alza gli occhi. Lì trovo la conferma ai miei timori, ma non ho alcuna intenzione di darmi per vinto.

«La percezione del tempo è molto soggettiva. C’è chi dice che poco, ma di qualità, sembri moltissimo.»

Un timido sorriso scalfisce il suo distacco. «Sono certa che il gianduiotto di Nico sarà senz’altro in grado di alzare il livello.»

«Unito a me, poi.»

Il sorriso si allarga. «Credo che il semifreddo mi basterà.»

«Non si sa mai. Mi sembri una tipa piuttosto ingorda.»

«Sì, in effetti hai ragione. Può anche darsi che faccia il bis. Tanto paghi tu, no?»

«Dipende» contrattacco.

«Da cosa?»

«Da quanto tu renderai il mio tempo di qualità.»

«Oh, non contare su di me.»

«Cioè fammi capire, io devo offrirti il gianduiotto, anzi due, invece tu…»

«Sorridere e ringraziare. Non ti sembra abbastanza?»

Nel frattempo arriva il cameriere, che ho chiamato con un cenno.

Il semifreddo di Nico non ha un bell’aspetto, l’impiattamento lascia molto a desiderare, ma in realtà il gianduiotto non ha bisogno di essere particolarmente bello: la bontà basta e avanza a far dimenticare tutto il resto.

Non resisto e do subito un assaggio: scalfisco un lato del parallelepipedo di gianduia, prendo un po’ di panna e infilo il cucchiaino in bocca. La leggerezza zuccherosa della panna, unita al gusto aromatico, freddo e pastoso del gianduia, è una carezza per il palato.

Quando alzo lo sguardo, trovo Giulia nella mia stessa situazione: il cucchiaino in bocca e il volto in estasi. Solo che la sua espressione su di me ha lo stesso potere del calendario Pirelli appeso nell’officina del mio meccanico. Improvvisamente non ho più voglia del gianduiotto.

«Allora è vero che potresti mangiartene due» non trovo di meglio da dire.

Giulia arrossisce ed estrae il cucchiaino dalle labbra, rigirandoselo in mano con aria imbarazzata. Guarda verso l’isola della Giudecca con aria pensosa: «Mi ci portava mia mamma qui, da Nico. Per un periodo aveva lavorato come receptionist al Molino Stucky e aveva scoperto questa gelateria. Da casa nostra a piedi era un po’ lontano, ma qualche volta, quando era in vena di fare un’uscita “sole donne”, come amava chiamarla, venivamo qui. Ridevamo dei colombi che buttavano giù i bicchieri dai tavoli, delle signore in carne che si facevano portare a spasso dal cane, dei musicisti peruviani sempre uguali a se stessi… Io facevo fatica a finire il dolce, e mia madre si ritrovava a doverne mangiare uno e mezzo. Allora brontolava che era un attentato alla linea, e che la volta successiva saremmo andate in un altro posto, ma poi alla fine tornavamo sempre qui: Nico era diventato una tradizione, una cosa solo nostra».

Giulia

Non so perché gli ho raccontato di mia madre. Forse è stato per alleggerire la tensione che sentivo nascere fra noi, forse è stata colpa del surplus di zucchero nel sangue. Ma ormai l’ho fatto, ho regalato a quest’uomo un altro pezzo di me senza che me l’abbia chiesto.

«E ora? Ci vieni ancora con tua madre?» chiede Diego.

«È morta quando avevo undici anni.»

«Mi dispiace…?»

«È stato tanto tempo fa» concludo sbrigativa.

«Hai fratelli o sorelle?»

«Ci sono solo io. Ma sono stata bene con mio padre.»

La menzogna mi fa piombare in un buco nero. Rivedo me, adolescente grassottella, i capelli di un improbabile color arancione frutto di un impiastro casalingo, nella cucina con le piastrelle a pois. Rimesto un composto grumoso da cui emana uno strano odore e le mie lacrime si mescolano con il miscuglio. Mi ha appena lasciato il fidanzatino di turno e sono uno straccio. Vorrei sfogarmi con mamma, lei saprebbe cosa dirmi, mi cucinerebbe una torta, oppure mi porterebbe a fare un po’ di shopping. Oppure mi comprerebbe un tubetto di un colore nuovo, con un nome tipo “azzurro uovo di pettirosso”, oppure “Bruno Van Dyck”. Guardo verso il corridoio, un riflesso incondizionato ormai. La porta della camera dei miei è chiusa, e davanti alla soglia, allineate come birilli, ci sono diverse bottiglie vuote.

«Giuliaaaa» mi chiama mio padre con voce rauca. «Giuliaaaa, la cena…» Lo sento urlare attraverso la porta, poi lanciare la bottiglia a terra, in un tintinnio di vetri infranti.

Mescolo il composto con rabbia, come se la pentola fosse il calderone e io una strega, come se quel minestrone putrido potesse trasformare qualcosa. Magari la mia vita, oppure mio padre. Vaporizzarlo in un ricordo evanescente e far tornare mia madre.

Un filo di fumo sale a spirale verso l’alto finché un forte puzzo di bruciato accompagna i miei gesti. Ma io non smetto. Non smetto fino a che il composto non si attacca tutto alla pentola, finché c’è ancora da mescolare. Poi spengo il fuoco e lascio il mestolo in piedi al centro di quel magma addensato. Non si muoverà da lì, rimarrà saldamente conficcato, nessuno verrà a liberarlo dallo schifo in cui è intrappolato. Esattamente come me.

Per non essere costretta a raccontare a Diego i particolari della “meravigliosa” infanzia con mio padre, infilo in bocca un pezzo gigante di gianduiotto.

«Anch’io ho perso un genitore, ma ero più grande di te.»

Il boccone di semifreddo mi ha congelato il cervello, che mi brucia per qualche istante. Lui continua a parlare: «Mio padre. Una lunga malattia. Avevo ventisei anni».

«Avevate un buon rapporto?» Se gli faccio domande non rischio di rivelare troppo di me. Meglio l’attacco che la difesa.

«Sì. Era l’unico che ci trattava tutti allo stesso modo, che non faceva distinzioni tra me e i miei fratelli.»

«In quanti siete?»

«In tre. Mio fratello Giorgio è il primo, poi c’è Luisa, che ha due anni in meno, e infine io, di quattro anni più giovane.»

«Sei il più piccolo, quindi.»

«Già.»

«E non il più coccolato, mi sembra di capire.»

«Ci sono diversi tipi di famiglie. Quelle dove tutti i figli sono uguali, quelle dove il primogenito è l’unico a contare, quelle dove l’ultimo arrivato è il prediletto… e quelle dove è l’ultima ruota del carro. La mia era una di queste.»

Penso alla mia, di famiglia, a mia madre, che sapeva essere anche un’amica. E a mio padre, che ha provato a tener duro, prima che l’alcol lo annullasse.

«Ma te la sei cavata ugualmente.»

Fa una smorfia: «Non è quello che pensa mia madre».

«Le madri sono sempre le più critiche.»

«Mai quanto la mia. Non le va bene il mio lavoro, non le va bene la mia casa, come mi vesto, chi frequento…»

«Forse è un modo come un altro per dimostrarti il suo affetto.»

«La cosa è peggiorata con la morte di mio padre. Mamma ha sempre parteggiato per i miei fratelli, ma da quando papà non c’è più loro tre si sono alleati votandosi alla missione di cambiare la mia vita.»

«Come ti vorrebbero?»

«Mah, non so. Con un lavoro più socialmente considerato, e meglio retribuito. Con una nidiata di bambini…»

Il volto di Luca fa capolino per un secondo nella mia mente, destabilizzandomi. Mi concentro su Diego. «E tu invece?» gli chiedo.

Si passa una mano sulla nuca, a disagio. Ora è il suo turno di provare imbarazzo.

«Io… voglio solo vivere la mia vita senza dover fare progetti. E senza avere il peso di un’aspettativa.»

«La filosofia del domani è un altro giorno, eh?»

«Una cosa così.»

Si dedica con particolare lena al suo gianduiotto ormai mezzo sciolto, che finisce in poche cucchiaiate.

Sospiro. È giunto il momento di fargli capire che tra noi non c’è futuro. Sono venuta qui per questo, alla fine. Mi faccio coraggio e comincio: «Bene, a proposito di scappare…».

«Zio!»

E ora da dove sbuca questo?

Pietro, in lacrime, si getta su Diego.

«Ehi, piccolo, che succede? Cosa ci fai qui?»

Il bambino non parla, ha affondato il volto nella camicia dello zio e continua a singhiozzare. Diego lo accarezza piano sulla schiena, aspettando. Mi sento di troppo, ma non posso certo andarmene ora.

«Io… sono… fuggito» balbetta tra un singhiozzo e l’altro.

«Da dove?» chiede Diego.

«Da casa di nonna. Mi è venuta a prendere lei a scuola – mamma aveva problemi con quella scema di mia sorella – e voleva a tutti i costi portarmi a vedere i serpenti al museo.»

«Le avrai detto che hai paura dei serpenti, no?»

«Sì, ma lei mi ha risposto che era una prova di forza, come le sfide dei cavalieri, che dovevo vincere le mie paure per diventare come Jacopo e Francesco.»

«Due grandi modelli da imitare, senza dubbio.»

Pietro smette di piangere e guarda lo zio, per capire se sta parlando sul serio. Alla sua età è difficile riconoscere il confine sottile tra la serietà e l’ironia.

«Ma come hai fatto a trovarmi?»

«L’avevi detto tu che ti saresti incontrato con lei a mangiare il gianduiotto!» risponde con una punta di orgoglio.

«“Lei” si chiama Giulia, ricordi? E così ti sei fatto tutta la strada da Ca’ Doro fino a qui senza perderti?» Diego sgrana gli occhi in modo buffo.

Il bambino fa spallucce. «Ho chiesto un po’ qui un po’ là.»

«E la nonna?»

«Quando sono corso via mi stava urlando dietro.»

«Ok, ma non sa dove sei, giusto?»

«Giusto…» Pietro china la testa, pronto a prendersi una strigliata. Una strigliata doverosa, a dir la verità. Che però non arriva. Diego infatti sospira, accarezza i capelli del bambino ed estrae il cellulare, suppongo per chiamare la suddetta nonna. Colgo la palla al balzo: «Diego, io andrei ora…».

«Nooo!» urla Pietro, prendendomi la mano. «Ti prego resta!»

«Mi unisco alla sua preghiera» rincara Diego.

«Non credo proprio sia il caso che…» Ma non riesco a finire la frase perché ora Pietro mi sta abbracciando forte, il viso nascosto nella mia, di camicetta. E il suo profumo di bimbo e speranze, di lacrime e sogni mi confonde.

Luca sta disegnando, i polpastrelli già sporchi di mille colori. Io riassetto la cucina. A un tratto ferma il pennarello. «Mamma!»

«Sì?»

«Mamma, è così. Ti voglio più bene io.»

Appoggio uno strofinaccio e scuoto la testa. «Impossibile, l’amore di una mamma è sempre più grande.»

Si alza in piedi, infervorato: «Ma io ti volevo bene anche quando ero nella pancia, anche quando ero nel pisellino del papà».

«Dici?»

«Sì, sono stato io a sceglierti. Mica gli altri piccoli vermicelli. Io!»

Sorrido. I dvd di Siamo fatti così che ho riesumato dalla soffitta di nonna hanno fatto effetto.

«Allora dammi un bell’abbraccio» gli dico aprendo le braccia.

Dà un’occhiata all’orologio della cucina alle mie spalle, indeciso. «Ok, ma breve eh? Che tra poco iniziano i Pokémon

Chiudo forte gli occhi, poi li riapro e ritorno a Pietro e al suo abbraccio.

«Va bene, va bene. Rimarrò, d’accordo?» Faccio un cenno a Diego, come a dirgli: guarda che lo faccio solo per lui. Ma non so se il messaggio gli arriva.

«Ho una proposta» dice invece sorridendo. «Andiamo tutti a vedere lo squero.»

«Cos’è lo squero?» chiede Pietro riemergendo dalla mia camicetta, che ora ospita una bella chiazza di lacrime uguale a quella che ha suo zio.

«È il posto dove fanno le gondole. È qui vicino.»

«Figo!»

«Pietro?»

«Scusa, zio.»

«Ma, prima, voglio che parli con la nonna.»

«Io?»

«Sissignore, tu. Devi assumerti le tue responsabilità.»

Il bambino deglutisce. «Ok.»

Diego seleziona il numero dalla rubrica e gli passa il cellulare.

È tutto un susseguirsi di «Sì nonna, hai ragione nonna, non lo farò più nonna, scusa nonna». Pietro è rosso come un peperone, e, a giudicare dalle urla che si sentono fin qua, la nonna sta compensando di gran lunga la mancanza di severità dimostrata da Diego poco prima. Ora capisco le ragioni di quella reazione tiepida. Alla fine Pietro passa il telefono a suo zio e mi prende per mano, portandomi verso il mare.

Ce ne stiamo in silenzio per un po’, osservando il tramonto infuocato che divampa all’orizzonte, le guglie del Molino Stucky simili a quelle di un castello gotico.

«Cos’è quella?» mi chiede Pietro indicando l’arco di Porto Marghera sullo sfondo. «Una ruota panoramica?»

«Magari, piccolo. È l’arco del canale dei petroli. Sai cos’è il petrolio, vero?»

Annuisce serio. «Papà dice che è una cosa che inquina.»

Ritorna Diego, un sorriso forzato a mascherare i postumi della telefonata con sua madre, che deve esserci andata giù pesante anche con lui.

«Si va?»

«Sììì» esplode Pietro, con un entusiasmo che contagia tutti.

Lo squero di San Trovaso è uno degli ultimi laboratori dove si costruiscono in modo artigianale le gondole. Un anziano pittore, seduto sul treppiede portatile, lo sta ritraendo. Con questa luce sembra un luogo fuori dal tempo: il nero della gondola coricata su un fianco ha sfumature violacee che rendono l’imbarcazione simile a una fetta di melanzana; i toni caldi del legno del cantiere mostrano fieri i buchi e le venature degli anni. Una fila di gerani langue da un balcone, perdendo petali rosso sangue.

«Il laboratorio è del Seicento» ci informa Diego. «Pietro, sai perché l’edificio assomiglia a una casa di montagna?»

Il piccolo scuote la testa.

«Le maestranze dello squero, cioè coloro che l’hanno costruito, erano di origini cadorine.»

«Cioè venivano da San Vito di Cadore? Dove andiamo a sciare con zio Giorgio?»

«Sì, proprio da lì.»

«Sentivano nostalgia di casa oppure sapevano costruire solo quel modello?» intervengo io.

Diego ridacchia e mi passa un braccio attorno alle spalle. Il gesto è talmente naturale che non reagisco. La mia coscienza è muta, ammansita da questa strana bolla famigliare e dalla visione dello squero illuminato al tramonto.

«E sapete perché si chiama squero?» rilancia Diego.

Io lo so, ma fingo di non saperlo a beneficio di Pietro.

«Deriva dal greco eskhàrion, che significa cantiere.»

«Zio, ma io voglio sapere come si fanno le gondole, possiamo andare a vedere da vicino?»

«Temo sia chiuso adesso, ma alcune cose posso dirtele anch’io. Pensa che un tempo occorreva un anno per costruire una gondola, mentre adesso sono sufficienti due mesi.»

«Perché adesso così poco?»

«Perché una volta il lavoro era tutto artigianale, veniva fatto solo dalle persone, mentre oggi solo la metà. Una gondola è composta di ben duecentottanta pezzi di legno.»

«Come un Lego!»

«Già, più o meno. E sono di otto essenze diverse.»

«Essenze?»

«Tipi di legno: tiglio, olmo…»

«E perché è nera?»

«Perché è sigillata con la pece, per essere impermeabile.»

«E perché ha quell’affare di ferro in testa?»

«La testa di una barca si chiama prua, intanto. E quell’affare è il pettine. Serve a bilanciare il peso del gondoliere e ha quella forma in omaggio a Venezia: ogni spuntone rappresenta uno dei sei sestieri, quello rivolto all’indietro è la Giudecca. La forma della punta ricorda il cappello del doge mentre la silhouette a S il Canal Grande.»

Pietro fischia, ammirato da tanta perfezione.

«Tu non ci sei mai montato?» chiedo al bambino.

«Mai.»

«Ti piacerebbe?»

Fa una smorfia: «Non so nuotare benissimo».

«Ha preso da me» commenta Diego, ridendo.

Stiamo in silenzio per un po’, appoggiati al muretto del canale. Il pittore continua il suo lavoro, strusciando le setole sulla tela. Pietro gli si avvicina e sento che gli chiede da quanto tempo è lì, se è difficile dipingere, perché lo fa…

Diego e io restiamo indietro, il suo braccio sempre appoggiato su di me, le sue dita che disegnano piccoli cerchi sulla mia spalla nuda. I nostri sguardi si incrociano e leggo nei suoi occhi la medesima emozione che sto provando io, una felicità malinconica, che mi accende come questo tramonto, che mi riempie tutta. Con lentezza, dandomi il tempo di ritrarmi se lo desidero, avvicina le labbra alle mie. Sono calde e umide e si appoggiano piano, come per chiedere il permesso di continuare. Con un brivido chiudo le palpebre e accetto il bacio, pur sapendo che il suo significato in questo momento va ben oltre: accogliendolo, accolgo anche Diego nella mia strana e complicata vita.