Giulia
Salutata Rita mi ritrovo a camminare, l’inquietudine suscitata dall’incontro con Stefano non si è ancora sopita, mi sembra di essere un arco teso, pronto a lanciare frecce avvelenate in ogni direzione. Così decido di sfogare l’energia negativa ai fornelli. Non cucino spesso, non è una pratica che amo, ma negli ultimi tempi sono calata molto di peso e non posso sempre contare sull’aiuto di Teresa. A cui peraltro devo ancora un dolce.
Cerco in rete qualcosa che mi ispiri e di cui abbia già gli ingredienti. Opto per un classico: la crostata alla marmellata. Quando ero piccola la preparavo con mia madre. Mi lasciava imbastire l’impasto in modo creativo, e io distribuivo farina e ciuffi di burro per tutta la cucina. Alla fine, quando riteneva che mi fossi divertita abbastanza, sovrapponeva le sue mani alle mie e cercava di ricondurre il tutto all’obiettivo. Il rapporto con mia madre è passato spesso attraverso il cibo, era il nostro modo di stare insieme, di divertirci.
Qualche volta ho coinvolto anche Luca a cucinare. Mio malgrado, mentre taglio le striscioline per la scacchiera di pasta frolla che ricopre la torta, mi torna in mente lui bambino, le dita come salsicciotti che cercavano di arrotolare la pasta, il naso sporco di farina. Mi ricordo anche di quella volta, avrà avuto circa dieci anni, in cui l’ho lasciato per un attimo – il tempo di rispondere al citofono – a mescolare la marmellata sul fuoco, e lui ha fatto cadere il pentolino e si è bruciato la punta dell’alluce, l’unica porzione di pelle che spuntava dal buco sui calzini. Sorrido, ripensandoci.
Inforno la torta e mi siedo in cucina ad aspettare.
Non c’è nessun bambino sporco di farina accanto a me, né un adolescente intento a rimuovere con il dito i residui dell’impasto dalla terrina e a leccarli con meticolosità.
Sento il rumore della pendola del corridoio, lo zampettare curioso dei colombi sul balcone e lo sbattere dei panni su in altana. C’è troppo silenzio, attorno a me. Si apre come un vuoto che pare ingoiarmi. Il profumo della torta inizia a diffondersi e le sue spire dolci contrastano questa quiete opprimente.
Con la punta del coltello mi pulisco le unghie dai residui di pasta frolla. Se fosse così facile ripulirsi anche dai ricordi dolorosi!
Il timer mi richiama all’ordine, la crostata è pronta: la marmellata di ciliegie, cuocendo, è diventata più chiara e sobbolle, muovendosi come un mare rosso. Istintivamente allungo una mano e la tocco e, sebbene mi scotti il polpastrello, rimango a fissarla, ritornando bambina.
«Questo, nonno?»
«No piccola, ancora non ci siamo.»
Pastrocchio con vari tipi di rosso, aggiungendo un po’ di giallo, di marrone, di blu. Anche mio nonno sta facendo la stessa cosa, ma in modo più attento e consapevole. Stiamo cercando il rosso giusto per un tramonto sul mare.
«Questo, questo è perfetto!» grido entusiasta, alzando l’indice sporco di pittura.
Lui alza appena la testa dalla sua tavolozza, lo guarda e scuote la testa.
Stufa di mescolare, mi limito a osservarlo.
«Perché è così difficile trovare il colore giusto?» protesto.
Sbuffa: «Perché deve sembrare reale, e la realtà non segue schemi o proporzioni. È difficile da imbrigliare. Pensa alle nuvole, alle foglie smosse dal vento, o ai diversi tipi di bianco che puoi trovare al Polo Nord».
Inizio a nominarli: bianco biacca, bianco ghiaccio, bianco avorio… ma non me ne vengono in mente molti.
«Questi rossi non vanno bene…» mi spiega il nonno. Dopo un po’ si accorge che non parlo più e mi guarda. «Ti stai annoiando?»
«Un po’» ammetto.
Mi fa l’occhiolino. «Sai, il più bel rosso – e anche quello più difficile da realizzare – è quello del tramonto sulle dune del deserto.»
Spalanco gli occhi. «Sei andato nel deserto?»
«Ci sono stato quando facevo il soldato.»
«E hai ucciso qualcuno?»
Fa un gesto brusco con la mano, come a scacciare una mosca. «Questo non ha importanza adesso, ha importanza il colore. Di quello stavamo parlando, vero Giulietta?»
Annuisco, ricacciando indietro la curiosità. Il nonno è fatto così, tende a irrigidirsi quando gli si fa una domanda a cui non vuole rispondere. Insistere peggiora solo le cose, l’ho già sperimentato.
«Il rosso del tramonto sulle dune è qualcosa di vivo, è di una tonalità spessa, piena di luce, pastosa come un bicchiere di porto. Riempie tutto. È un rosso a cui non puoi sfuggire, che ti aggredisce e ti mette a nudo.»
«Cioè una specie di mostro?» chiedo confusa.
«No, è più come uno specchio» risponde mio nonno, che sembra parlare più a se stesso, ora. «In cui vedi riflesse tutte le tue speranze e le tue paure.»
«Non deve essere tanto bello allora…» azzardo.
Si riscuote, alzandosi dal mix di rossi sparsi davanti a sé. «Al contrario: è un’esperienza che bisognerebbe fare almeno una volta nella vita. Magari ti capiterà, quando sarai più grande.»
Fruga in un baule pieno di cianfrusaglie da cui di solito pesca gli oggetti che ritrae e tira fuori una bottiglietta con il tappo in sughero. Me la avvicina: «Ecco, questa è la sabbia che ho raccolto nel deserto. Vuoi toccarla?».
Faccio cenno di sì, e lui me ne versa un po’ sul palmo. Sfioro con un dito i granelli, e mi sforzo di immaginare il deserto e il rosso di cui mi ha parlato il nonno.
«Ci andrò anch’io a vedere il deserto un giorno» affermo convinta.
«Sul serio?»
«Certo, voglio vedere il tramonto. E poi dipingerlo» insisto rimettendo la sabbia nella bottiglietta.
«Non sarà facile, piccola» scuote la testa il nonno. E io non so se si riferisca alla probabilità di un mio viaggio nel deserto oppure alla ricerca del rosso giusto per restituire l’immagine di un tramonto sulle dune.
Forse a nessuno dei due, mi dico oggi. Forse mio nonno si riferiva al potere che attribuiva al deserto, e alla difficoltà di affrontare le proprie paure.
Soffio sul dito e lecco via la marmellata.
Presto affronterò quel rosso, ricordo a me stessa. E le sue conseguenze.