Perdersi e ritrovarsi

Diego

Camminiamo senza una meta. Giulia me l’ha proposto come un gioco, ha detto che lo faceva sempre da piccola, con suo papà. Ma io so che invece è un proposito scritto nell’agenda. Ne mancano solo tre, tre cose da fare, previste nei prossimi venti giorni, prima di quella parola, ROSSO, e dell’atto terribile che potrebbe comportare.

Insieme stiamo bene, c’è feeling, c’è attrazione, ma lei non mi parla. Custodisce gelosamente il suo dolore in un posto nascosto, dietro una porta chiusa di cui non mi fa avere la chiave. E se Giulia non svela il suo segreto, io non posso svelare il mio. Cosa posso dirle: che ho trovato la sua agenda e non gliel’ho mai restituita? Che i nostri incontri non sono stati casuali? Che ho fatto delle ricerche su di lei? Il nostro rapporto è costellato di menzogne, di non detti, fragile come la tela di un ragno in mezzo alla tempesta.

Con Giulia ho imparato a vivere alla giornata, conscio che non sarà per sempre. Mi dico che non ho il potere di salvarla, che già il fatto di farla stare bene è un modo per aiutarla a cambiare idea. Ad avere un motivo per restare. Ma sotto sotto mi struggo dalla frustrazione, dalla voglia (e dalla paura) di rivoluzionare tutto per lei.

«Una moneta per i tuoi pensieri» mi dice trascinandomi verso di sé. Da questa prospettiva le sue lentiggini sembrano la mappa di un arcipelago.

«Pensavo che non so niente di questo sestiere» le rispondo. Ed è vero, bazzico questa zona solo durante la Biennale, o per fare una passeggiata ai Giardini. Ci sono venuto l’ultima volta per vedere il cuore di pietra, e mi sono quasi perso per trovarlo.

Superiamo l’Arsenale, e da qui in poi incontriamo sempre meno persone: è il regno dei panni stesi e dei gatti, dei muri scrostati e delle case semplici e squadrate, delle barche piccole e rattoppate come i pantaloni dei bambini.

«Neppure io, ma è questo il bello.»

«Non sono mai stato un drago a orientarmi.»

«Qui in realtà si tratta di fare il contrario. Il gioco sta proprio nel perdersi, andare alla cieca, non avere punti di riferimento. Come gli scrittori parigini, che vagavano per i boulevard con lo sguardo in su.»

«Forse è il caso di guardare anche a terra!» la trattengo giusto un secondo prima che calpesti il grazioso lascito di un cane. In questa parte della città i turisti sono rari e il decoro delle strade a volte è un optional.

«Porta bene» si schermisce, ridendo tra le mie braccia.

«Allora pestala pure.» La lascio, ma naturalmente fa un passo di lato prima di proseguire.

I masegni sono screpolati e ricordano la muta abbandonata di un serpente. Cerco di evitare le fessure fra l’uno e l’altro, camminando al centro, come facevo da bambino.

«Mi piace il silenzio qui. Venezia in alcune zone è troppo rumorosa, brulicante di persone» mormora Giulia.

La osservo: il vento gioca con i suoi capelli, il sole le chiude gli occhi.

«Non hai mai pensato di andartene dall’isola?»

Ha un brivido e si abbraccia il petto, come per scaldarsi. Esita un po’ prima di rispondermi, come se stesse valutando cosa dire. «No. Ma ho rischiato di doverlo fare.»

Ha aperto una piccola breccia, e io mi ci infilo subito. «Quando?»

Sospira e comincia a camminare più veloce. Accelero il passo per affiancarla. Superiamo il ponte di Sant’Anna. Sotto, le barche ancorate alle paline beccheggiano e sembrano annuire.

«Sono stata sposata per diversi anni. Lui avrebbe voluto trasferirsi.»

«E tu non eri d’accordo?»

Stringe le labbra. «No, ma poi non se n’è fatto più nulla.»

«È per quello che vi siete lasciati?»

Si ferma appoggiandosi al balcone di una finestra. In sottofondo si percepiscono le note allegre della sigla di un programma televisivo.

«Non riuscivo più a vederlo come prima.»

«E com’era, prima?»

Giulia

Già, com’era prima?

Io e Stefano ci siamo conosciuti durante un Capodanno a casa di amici, in montagna. Avevamo scambiato due parole quando ci avevano presentati; lui era divertente, solare, un uomo con cui è facile lasciarsi andare. Aveva un sorriso schietto e un modo curioso di spalancare gli occhi, quando raccontava qualcosa che lo emozionava. Tuttavia non aveva smosso in me nessun tipo di energia, di attrazione, e la cosa doveva essere stata reciproca, perché non c’era stato alcun altro scambio tra di noi quella sera, almeno fino a quando, passata la mezzanotte da un pezzo, non era partito un gioco a carte lungo e complicato. Come altri amici, Stefano e io avevamo deciso di non partecipare, troppo brilli per riuscire a seguire il gioco, e c’eravamo limitati a spiare le mosse, in piedi, alle spalle dei giocatori.

Ricordo perfettamente quel momento, come se fosse inciso nella mia memoria: la luce gialla della lampada, le risate al tavolo, il Cuba libre troppo dolce che sorseggiavo dalla cannuccia, la spallina del vestito di ciniglia che si accavallava a quella del reggiseno, pizzicandomi la pelle. E i suoi occhi che incrociavano i miei, neri e acuminati, un paletto nel cuore.

In quell’attimo sospeso passò qualcosa tra di noi, qualcosa a cui non sapevamo dare un nome. Una specie di imprinting, di agnizione.

Restammo entrambi turbati da quel momento, ma non facemmo nulla quella sera, non ci parlammo, non ci avvicinammo. Lui tornò a casa, mentre io mi fermai a dormire in montagna, ospite degli amici. Dovevamo metabolizzare l’accaduto.

Tempo una settimana ci eravamo già incontrati, e la sera stessa avevamo fatto l’amore. Avevamo bruciato le tappe, soffiando sulla fiamma della passione, senza immaginare che avrebbe avuto vita breve.

Il matrimonio era stato deciso un anno dopo, un po’ di corsa. Non volevamo che qualcuno lo sapesse, ciò che mi premeva allora era che durante la cerimonia la pancia non si vedesse, e che potessi indossare l’abito bianco, come da tradizione. Era sempre stato il sogno di mia madre, quello della principessa, di vedermi in chiesa con l’abito bianco e, anche se lei non c’era più, ci tenevo a esaudirlo. Inutile dire che il matrimonio non andò completamente liscio, con mio padre che non perse occasione per alzarsi e intavolare discorsi imbarazzanti corrotti dall’alcol…

«Giulia?»

Ritorno al presente, a questo angolo di Venezia calmo e semideserto, a Diego che mi sta accarezzando la guancia e sistemando i capelli dietro l’orecchio. Sorrido e mi sforzo di ricordare cosa mi ha chiesto. Ah sì, prima. Come vedevo Stefano prima.

«È stato un amico, un riferimento. Qualcuno che ho creduto di amare, e che mi ha fatto sentire desiderata e quasi felice.»

Diego non capisce. Percepisco la sua urgenza, dietro al volto turbato, il desiderio di sapere, di conoscermi meglio. Ma io non voglio farmi conoscere meglio, non voglio la sua preoccupazione, la sua compassione. Mi restano poco più di venti giorni e intendo viverli con lui senza pensieri, leggera. Perciò mi alzo e riprendo a camminare.

Diego mi segue in silenzio. Ha la capacità di non spingere, di intuire quando fermarsi. È una qualità che apprezzo molto in lui.

Arriviamo a un nugolo di case basse e scorticate dal vento e dalla salsedine. Entriamo in una corte composta da un giardino dall’erba bruciata con una vera da pozzo al centro che ha visto tempi migliori. Una famiglia di gatti multicolori ha colonizzato lo spazio.

«Ok, mi sono ufficialmente perso!» esclama Diego. Imita i felini e si sdraia sull’erba. Lo affianco, appoggiandomi al suo braccio disteso. Da qui osservo il cielo, di uno straordinario blu egizio, e immagino di afferrare un pennello e di dipingere tante nuvole bianche, come il cielo del quadro di Magritte.