Note sull’acqua

Giulia

«Non so nuotare bene, ne avevamo già parlato» mi ha detto Diego quando ieri gli ho proposto di venire con me in questa uscita in sandolo.

«Non puoi essere un veneziano e non saper nuotare, dài.»

«So galleggiare e avanzare a cagnolino.»

L’ho guardato piuttosto male. Poi, rassegnata: «Vabbè, ma per andare in barca non ti serve saper nuotare, sui vaporetti o sui motoscafi ci sali».

«Sul sandolo non c’è un motore a governare.»

«Appunto, puoi stare tranquillo, non c’è velocità.»

«Il rumore del motore mi dà sicurezza. E poi non sei in completa balia delle onde, se hai un motore che ti porta avanti.»

Ho riso: «Oh, smettila. Non cadremo in acqua».

Diego ha corrugato la fronte, come se ci dovesse realmente pensare.

«Il sandolo è una barca solida, fatta apposta per la laguna» gli ho spiegato con pazienza.

«Ma a volte si rovescia.»

«Dài, è un’impresa farlo rovesciare! E poi nei canali, salvo il Canal Grande, non c’è granché movimento, lo sai. Non si rovesciano mica da sole, le barche.»

«Comunque domani sono impegnato, ho la presentazione di un libro a Padova e…»

«Ti faccio indossare un giubbotto salvagente.»

«Quelli tipo “Baywatch”?» Noto un lampo di interesse. Dannato superomismo maschile.

«Già» mento. Non ho idea di che giubbotto riuscirò a reperire, facile che sia uno per bambini.

Ci pensa su un attimo: «Non sembrerò uno stupido?».

Oh, sicuramente, penso tra me. «Tanto non ti vede nessuno» gli rispondo invece.

«Tu, mi vedrai.»

Sorrido. «Io lo so già, che sei uno stupido.»

È passata da poco l’alba ma i raggi del sole sono ancora troppo bassi e l’acqua dei canali, immobile, si fonde con la pietra. L’amico di Rita, Alberto, ci aspetta davanti alla barca, sotto il campanile storto di campo Sant’Angelo. Ha le spalle enormi e canticchia tra sé mentre sistema le cime. Sorride, notando il giubbotto con i disegni delle paperelle del mio accompagnatore, ma ha il buonsenso di non fare domande.

«Lo sai portare, quello?» gli chiede Diego indicando il sandolo.

«Come una bicicletta» risponde Alberto, già alle prese con l’ormeggio.

Mi porge la mano e mi accoccolo a prua. La stessa posizione che avevo quel giorno di tanto tempo fa, con Stefano e mio padre, ricordo. Si trattava di una gita in laguna, destinazione San Francesco del deserto, l’isola del convento francescano. Lì viveva frate Egidio, un caro amico di mia madre. Speravo che due parole con lui avrebbero aiutato mio padre. Era stato l’ultimo tentativo. Quel giorno la laguna era un po’ agitata e lo stomaco di mio padre non aveva retto molto bene. Anch’io avevo un po’ di nausea: Luca era un girino che nuotava nella mia pancia, facendomi sentire ogni tanto un colpo di coda.

Alberto fa segno a Diego di sistemarsi al centro. I suoi passi sono incerti e fanno dondolare la barca. Finalmente si siede e si àncora con le mani alla panchetta. Le nocche sbiancano, ma trova comunque la forza di sorridermi.

È in momenti come questi che sento quella vocina che ha iniziato a parlarmi negli ultimi giorni. Come puoi lasciarlo?, mi chiede a ripetizione, come un disco rotto. La zittisco, concentrandomi su questa gita in barca. Sul presente.

«Il rio Santissimo si chiama così perché passa sotto l’altare della chiesa di Santo Stefano» spiega Alberto a Diego, e lui si rianima un po’, dimostrando attenzione.

«Supereremo l’ex convento, poi l’altare maggiore, e quindi andremo dritti fino al Canal Grande. Se siamo fortunati potremo sentire da sotto la chiesa il suono dell’organo.»

«Hai calcolato i tempi apposta?» intervengo, sorpresa.

«L’organista è un tipo volitivo, non sempre rispetta gli orari. Bisogna sperare che si sia alzato presto e che non abbia passato la serata di ieri a bere ombre. Ma comunque passeremo anche sotto Palazzo Pisani, la sede del conservatorio. In qualche modo un po’ di musica dovremmo riuscire a sentirla.»

«Vedremo anche la casa dove ha abitato il Manzoni?» domanda Diego, che sembra aver dimenticato ogni timore.

«Sì, e anche il Palazzo Morosini, quello con i mostri…»

Allude ai gargoyle e ai mascheroni che abbelliscono questi prestigiosi edifici antichi dall’aria austera.

Avanziamo nel silenzio, si avverte solo il rumore del remo che scivola nell’acqua. Un balcone si apre all’improvviso sopra di noi, facendoci sussultare. Una vecchietta srotola la tovaglia, e una pioggia di briciole si riversa nel canale. Ci supera un gabbiano, vola rasente sopra di noi e plana sull’acqua alla ricerca di cibo.

«Oggi la marea non è bassa come speravo, ma siamo comunque distanti dal picco, quindi ce la possiamo fare. Dovrete assecondare il movimento però» ci spiega Alberto, i bicipiti in tensione per lo sforzo di remare.

«Cosa significa?» chiede Diego, scoccandomi un’occhiata minacciosa.

«Che dovremo sdraiarci al momento del passaggio. Sarà questione di un attimo» risponde placido Alberto facendo un cenno in avanti con la testa.

Gli archi sotto cui dobbiamo passare sono già davanti a noi, e in effetti il passaggio appare molto angusto.

Guardo Diego trattenendo una risata: «Non soffrirai anche di claustrofobia, vero?».

Diego

Stringo le labbra, senza rispondere alla provocazione, ma poi chiedo: «Ripetimi perché siamo qui».

In realtà io lo so perché sono qui. Perché, nonostante tutto, non posso stare lontano da Giulia. Perché sono gli ultimi giorni. Perché il tentativo con suo padre sembra non aver portato a niente e non trovo altri appigli. Perché il capitano le prova tutte per mettere in salvo i passeggeri ed è l’ultimo a lasciare la barca, quando affonda. Intendevo in senso figurato, naturalmente.

«Uffa, Diego, te ne ho già parlato. Avevo voglia di fare una gita in barca per i canali. Ho provato l’esperienza solo una volta, tanto tempo fa, quando ero incinta…»

Giulia si blocca di colpo, accorgendosi di aver detto troppo.

«Hai un figlio?» la incalzo. Una vena inizia a pulsarle sul collo, febbrile.

E proprio in quel momento Alberto lancia l’ordine: «Giù!».

Ci sdraiamo all’unisono, sopra di noi pochi centimetri di aria ci separano dall’arco di pietra. Posso vedere da vicino tutti i buchi e i punti in cui il muro è scrostato.

«L’ho perso poco dopo quel giro in barca» mormora Giulia, senza guardarmi. E la bugia si espande in questo passaggio stretto e isolato, lo riempie tutto, rubandoci l’aria. Serro le palpebre e conto fino a dieci, ma già a otto possiamo rialzare la testa: la barca è oltre. Le note dell’organo danzano sull’acqua, l’altare maggiore vibra sopra di noi come un diapason.

«Mi dispiace» le dico, ma non cerco la sua mano né il contatto con i suoi occhi. Ancora una volta mi ha mentito, mi ha escluso.

Il resto del viaggio continua in un silenzio interrotto solo dalle spiegazioni di Alberto, che sembra saperne una più del diavolo su queste zone, e dal risveglio della città, che comincia ad animarsi.

Quando arriviamo al Canal Grande il moto ondoso è già in fermento, la barca balla e la visione di Ca’ Dario, il palazzo maledetto di Venezia, completa con la sua aura oscura il nostro giro da brividi.

La leggera colazione che mi sono costretto a ingurgitare questa mattina per affrontare l’uscita mi si ripropone con un sapore acido. Guardo Giulia, ora impegnata a parlare con Alberto, apparentemente felice e spensierata, se non fosse per le dita nervose, o quella luce che le manca nello sguardo, e decido che resta una sola via: provare a stanarla con le maniere forti. Giocarmi il tutto per tutto.