Rosso

Giulia

Ho superato le sbarre. Voglio avvicinarmi il più possibile al treno, voglio provare ciò che ha provato lui. I sassolini scricchiolano sotto di me e c’è odore di bruciato, e di foglie marce.

Penso a ciò che ho fatto, a quest’ultimo periodo cadenzato dai propositi della mia lista. Ho fatto bene a compiere quei gesti, a salutare persone, luoghi, ricordi, abitudini. Mi è servito a riappropriarmi di me stessa, a stendere una linea tra la Giulia che ero e quella che voglio diventare. Ora sono più leggera, più concentrata. Pronta.

La casa mi aspetterà. Nel frattempo le ombre danzeranno nervose, i ricordi forse si affievoliranno, fino a dissolversi nel pulviscolo. Quando mi sentirò pronta, spedirò una cartolina dal deserto. Teresa capirà, sa leggere nel cuore delle persone. Rita invece sarà furibonda all’inizio, è fatta così, ma spero che, passata la rabbia, capirà anche lei. Diego… non ne ho idea. Lui è come un jolly che è spuntato all’improvviso nel mio mazzo. Non so ancora se avrà un ruolo, se riuscirò a giocarlo. Pensare a lui mi dà un brivido di speranza a cui cerco di non pensare, per il momento.

Ho bisogno di lasciare tutto, di trovare uno spazio vuoto dove affrontare il mio dolore, dove riappropriarmi di me stessa.

Ho bisogno di riappacificarmi con il colore che non riesco più a dipingere, con il rosso della vita, dell’amore, del sangue.

Ho bisogno di perdonarmi, di ritornare a credere di avere delle possibilità, un futuro, e devo farlo da sola, senza condizionamenti, senza la certezza – o la speranza – di un amore. Se sarò forte abbastanza, mi ritroverò.

I binari vibrano, vicino a me. Il treno è puntuale.

Quando ho deciso di partire, di lasciare Venezia e il mio mondo, ho capito che la mia meta doveva essere un non luogo, un altrove dove io non avessi punti di riferimento. Perché nella quotidianità è così facile appigliarsi a scuse, anche alla più piccola, per evitare di combattere i propri demoni. Ho lasciato che la mia vita restasse sospesa fin troppo a lungo. Ora devo cadere, farmi male, per poi provare a rialzarmi. Affrontare i ricordi del giorno dell’incidente, questo vuoto che mi mangia dentro. Ritrovare Luca, rivivere il nostro rapporto una volta per tutte, fronteggiare il senso di colpa e recuperare il meglio che c’è stato tra di noi, e lasciar andare via tutto il resto. Devo vivere il dolore sulla mia pelle e capire se posso sopportarlo, se riesco non solo a sopravvivergli, ma a vivere davvero.

Ho acquistato il biglietto per Marrakech pensando a quello che mi disse mio nonno. “Il rosso del tramonto sulle dune è qualcosa di vivo, è di una tonalità spessa, piena di luce, pastosa come un bicchiere di porto. Riempie tutto. È un rosso a cui non puoi sfuggire, che ti prende e ti mette a nudo. Uno specchio in cui vedi riflesse tutte le tue speranze e le tue paure.”

Ora ho il coraggio per riflettermi, in quel rosso. Un rosso che a Teresa ricorda la felicità, mentre a me, per il momento, ricorda solo il sangue di quel giorno, e la parte di me che è morta con Luca. È un colore che non sono più riuscita a usare nei miei dipinti, una tonalità che ho accantonato per troppo tempo, e che devo imparare a fronteggiare, a testa alta e armata di tutte le lacrime che possiedo.

Non ho prenotato il viaggio di ritorno: non voglio darmi una scadenza. Potrei decidere di non tornare, ma non ho più intenzione di raggiungere mio figlio, in qualunque posto si trovi. È stata un’idea che ho accarezzato, nei primi mesi dopo la sua morte, ma che non ho trovato la forza di accogliere. A differenza di mio padre, e forse proprio a causa sua, ho sempre pensato che la vita fosse un dono e una responsabilità, che esistessimo per un motivo, anche se spesso sconosciuto. E chi sono io per annullarmi, per chiamarmi fuori dal gioco? In più, chi mi dà la certezza che, con la morte, potrei ricongiungermi davvero con Luca? Nessuno. La fede non offre certezze, solo forti convinzioni. E, come mi ha insegnato Diego, bisogna stare attenti al significato delle parole.

La locomotiva del Frecciarossa spunta in fondo ai binari. Il treno arriva come un bolide. Rallenta appena dopo la curva, ma la velocità è comunque sostenuta.

Quando passa è come uno schiaffo. Il vento mi fa oscillare, e cerca di chiudermi gli occhi, ma io mi sforzo di tenerli aperti. Guardo i frammenti di passeggeri e colori che mi passano davanti, sguardi sorpresi, valigie, sorrisi, mani, capelli… Un caos di blu, marrone, rosa, nero, bianco. Entrano dentro di me come un’onda, uno tsunami improvviso. L’adrenalina mi toglie il respiro. È un’iniezione di forza, quasi che l’impeto del treno avesse definitivamente abbattuto le mie barriere, cancellato la vecchia me.

Quando mi supera anche l’ultima carrozza cado in avanti, bocconi tra i binari. Mi sbuccio un ginocchio e ho il cuore a mille, ma non mi sono mai sentita meglio in vita mia.

Diego

All’inizio credo sia solo un miraggio, un’illusione.

Giulia non si è buttata sotto il treno, è lì, davanti a me, ancora viva. Piange e ride assieme, una combinazione a cui non so dare un senso. Mi avvicino a lei circospetto, ancora incredulo. Il cuore che credevo spezzato sta cercando il modo di ricomporsi, e mi fa ancora male.

«Sei viva» dico stupidamente, ma dirlo lo rende più reale.

Lei sussulta e gira la testa, incrociando il mio sguardo. E sorride. Un sorriso vero, senza neppure un pizzico di malinconia, che credo di non averle mai visto addosso. Quel sorriso è così brillante che mi spiazza. Non capisco cosa è successo, se tutto questo è vero, se devo essere ancora preoccupato oppure…

«Sei venuto qui per me? Perché…» Il sorriso si incrina quando nota la mia espressione. «Oddio, non avrai pensato che intendessi suicidarmi?»

Annuisco e poi la aiuto a rialzarsi, le tampono il ginocchio sbucciato con le mani che mi tremano. Mentre lo faccio lei mi accarezza la testa, infilandomi una mano tra i capelli. Non riesco a parlare, la voce mi si è bloccata in un punto indefinito tra lo stomaco e la gola, ma lei supplisce al mio silenzio. È come una diga che si è rotta all’improvviso: le parole le sgorgano a fiotti, libere, in mille direzioni. Scopro che non ha mai voluto farla finita. Questo doveva essere solo un saluto, un addio a se stessa, alla città, alla dimensione sospesa in cui «ero rimasta intrappolata dopo la morte di mio figlio. Sai Diego, il dolore, se non riesci ad affrontarlo, ti rende schiavo. Ti strappa a te stesso, e ti impedisce di vivere».

Poi mi dice che ha deciso di partire per un lungo viaggio nel deserto, «per ritrovare il colore che mi manca», e mi racconta di suo nonno, del Sahara e del colore rosso.

Mentre lei parla io galleggio. Mi sento sollevato e allo stesso tempo distante. È successo tutto troppo velocemente, non riesco a elaborare, a capire. Giulia deve averlo intuito, perché a un certo punto smette di parlare.

«Cosa ne dici di accompagnarmi all’aeroporto? Così stiamo ancora un po’ assieme. Ho già chiamato un taxi» mi propone.

Annuisco di nuovo, ancora stordito. Recuperiamo le sue valigie, lasciamo la mia auto a San Giuliano e saliamo sul taxi motoscafo. Ci sediamo all’aperto, il legno verniciato riflette la luce del sole, facendomi socchiudere gli occhi.

«Non ti ho usato, non sei stato un diversivo» mi dice a un tratto, l’aria vulnerabile.

Finalmente trovo la forza di parlare: «E quindi? Cosa sono stato per te?».

Parlo al passato, non posso farci niente.

«Qualcosa che ora non posso permettermi di vivere. Ma ho amato ogni singolo momento che abbiamo trascorso assieme. Tu mi dai leggerezza, Diego, mi infondi speranza.»

Ma non ti basto, penso, e non riuscirò a tenerti qui con me. Dentro ho una guerra in corso: da una parte mi sento sollevato perché Giulia è viva e ha dei progetti per affrontare il proprio dolore, quindi vuol dire che c’è una speranza per lei di essere di nuovo felice e di riprendere in mano la propria vita. Dall’altra avverto una sensazione di vuoto, di perdita, perché, anche se non si è suicidata, se ne sta per andare via da me. Mi lascerà e io non so cosa accadrà a noi, a questa cosa strana, nuova e bellissima che ci è capitata e mi ha cambiato profondamente.

Il taxi rallenta per un tratto di mare pericoloso in cui si incrociano più correnti, e il vento cala di colpo attorno a noi.

«Ti ho perdonato, sai» mi confida sopra il borbottio del motore. «Per la faccenda dell’agenda. Ho capito perché l’hai fatto, perché non me l’hai ridata subito.»

Mi stringe una mano, e con l’altra mi sistema i capelli, arruffati dal vento.

«Ho capito che mi ami davvero.»

E tu?, le chiedono i miei occhi, tu cosa provi davvero per me? Mi relegherai nel tuo passato o diventerò il protagonista del tuo futuro?

Ma Giulia ha distolto lo sguardo, incapace di dare un nome a ciò che si agita in lei. Incapace di darmi risposte, garanzie. Non ne ha per se stessa, non può averne per me.

La barca segue il percorso segnato dalle briccole, proseguendo a strappi, la prua rialzata. Al nostro passaggio una coppia di cormorani si tuffa sott’acqua.

Quando il conducente spegne i motori e lascia che il motoscafo si accosti dolcemente alla banchina, trovo il coraggio di chiederglielo: «Tornerai?».

Giulia scende e la barca traballa per un po’, per via dello spostamento del peso.

Si china verso di me. Mi sfiora leggermente le labbra e si ritrae. Ha gli occhi lucidi, ma il sorriso non vuole andarsene. Non l’ho mai vista così bella.

«Non lo so» ammette. E alza il mento, in quel modo che sa fare solo lei. È cominciata la sua sfida, la sua battaglia personale. E deve compierla da sola, questo ormai l’ho capito.

Le sistemo una ciocca di capelli dietro l’orecchio e la guardo negli occhi, serio. «Da qualche parte starò fermo ad aspettare te.» È il verso conclusivo di una poesia di Walt Whitman, ma io lo recito a Giulia come una promessa. Non mi limiterò ad attendere. Aspetterò guardando l’orizzonte e sapendo che prima o poi la vedrò arrivare. Glielo dico senza sbattere le palpebre, con gli occhi che mi bruciano quanto il cuore. Con tutta la forza che trovo dentro di me.

Giulia annuisce una volta sola, poi si volta e incomincia a camminare verso l’aeroporto. Seguo i suoi passi con lo sguardo, sentendo l’elastico che ci lega cominciare a tendersi. Senza fermarsi estrae dalla borsa un foulard rosso, che si avvolge attorno al collo.

È l’ultima cosa che vedo di lei.

Giulia

Dalla scaletta si avverte di più il vento, uno scirocco umido che si appoggia sulla laguna. L’aereo su cui mi imbarco è giallo con le scritte rosse. Giallo è il colore dell’attesa, della malattia, della pausa, della sospensione. Giallo è una tonalità in bilico, decisa ma facile a vacillare, allegra ma corruttibile. È il colore del grano, che cresce lento nel campo, della sabbia che scende nella clessidra, è il colore delle stelle nelle quali riporre i desideri, è il colore della follia, ma anche della viscosa dolcezza del miele. È il colore che vestirò finché non sarò pronta a indossare il rosso non solo attorno al collo, come ho appena fatto con il foulard, ma anche nel mio cuore. Farò come il sole che nasce giallo, ma poi, al tramonto, muore e si infuoca di rosso.

Quando l’aereo decolla osservo Venezia dall’alto, la sua forma a pesce, le isole come tanti bocconcini offerti in dono. Immagino Diego con il naso all’insù, a seguire la scia del mio volo nel cielo. Appoggio le dita sul vetro del finestrino, fino a che le nuvole non chiudono il sipario.