Benché apprezzi molto l’insolita gentilezza dei redattori della “Review of Politics” che mi hanno esortato a replicare alle critiche rivolte al mio libro dal professor Voegelin, non sono del tutto certa di aver fatto una scelta saggia accettando la loro offerta. Certamente non avrei accettato, e a ragion veduta, se la sua recensione fosse stata la consueta recensione più o meno benevola. Le repliche a questo tipo di recensioni, per loro natura, inducono troppo spesso l’autore a recensire il proprio libro o a scrivere una recensione della recensione. Per sfuggire a simili tentazioni, ho evitato per quanto possibile, anche al livello di semplici conversazioni private, di discutere con i recensori del mio libro, che condividessi o meno le loro opinioni.
Le critiche del professor Voegelin, comunque, sono di quel tipo a cui si può rispondere in maniera adeguata. Egli solleva, da un lato, questioni generali di metodo e, dall’altro, richiama l’attenzione su alcune importanti implicazioni filosofiche. Le due questioni sono ovviamente legate, ma, mentre ritengo di aver chiarito a sufficienza, pur nei limiti inevitabili di uno studio storico e di un’analisi politica, che cosa penso di certe questioni generali che sono venute a galla con lo sviluppo del totalitarismo, sono altresì consapevole di non essere riuscita a spiegare il metodo particolare che ho adottato e a giustificare un approccio piuttosto insolito – non alle diverse questioni politiche e storiche, in cui le spiegazioni e giustificazioni sarebbero solo di disturbo – ma all’intero ambito delle scienze politiche e storiche in quanto tali. Una delle difficoltà del libro è che non è riconducibile ad alcuna scuola e praticamente non fa alcun uso degli strumenti ufficialmente riconosciuti o ufficialmente dibattuti.
Il problema a cui mi sono trovata inizialmente di fronte era allo stesso tempo semplice e sconcertante. Tutta la storiografia è necessariamente redenzione e spesso giustificazione, e ciò per il timore umano di dimenticare e per l’aspirazione a qualcosa che vada oltre la memoria. Queste tendenze sono già implicite nella mera osservazione dell’ordine cronologico e difficilmente saranno soffocate dall’interferenza dei giudizi di valore che in genere interrompono la narrazione e fanno apparire la spiegazione tendenziosa e “non scientifica”. La storia dell’antisemitismo è a mio avviso un buon esempio di questo genere di storiografia. Il motivo per cui questa letteratura è nel suo insieme così straordinariamente povera è che gli storici – sempre che non fossero degli antisemiti convinti, e, ovviamente, non lo erano mai – erano chiamati a scrivere la storia di qualcosa che non volevano conservare, e dovevano quindi scrivere con un atteggiamento distruttivo, e scrivere la storia con l’intento di distruggere è in un certo senso una contraddizione in termini. La soluzione a questo dilemma è stata, per così dire, di attenersi agli ebrei, di farne l’oggetto della conservazione. Ma questa era tutto fuorché una soluzione, perché esaminare gli eventi solo dal punto di vista delle vittime significava fare dell’apologetica, che ovviamente non ha nulla a che fare con la storia.
Il mio primo problema è stato, quindi, come scrivere la storia di qualcosa – il totalitarismo – che non volevo conservare, e che, al contrario, mi sentivo impegnata a distruggere. Il mio modo di risolvere questo problema ha fatto sì che al libro venisse rimproverata la mancanza di unità. Ciò che ho fatto – e ciò che avrei potuto fare comunque in virtù della mia formazione e del mio modo di pensare – è stato di individuare gli elementi costitutivi del totalitarismo e di analizzarli in una prospettiva storica, facendoli risalire a ritroso nella storia per quanto ritenevo opportuno e necessario. In altri termini, non ho scritto una storia del totalitarismo, ma un’analisi in una prospettiva storica; non ho scritto una storia dell’antisemitismo o dell’imperialismo, ma ho analizzato l’elemento dell’odio antiebraico e l’elemento dell’espansione nella misura in cui questi elementi erano ancora ben visibili e avevano svolto un ruolo decisivo nel fenomeno totalitario stesso. Il libro, pertanto, non tratta in realtà delle “origini” del totalitarismo – come il titolo malauguratamente asserisce – ma propone un’indagine storica degli elementi che si sono cristallizzati nel totalitarismo; questa ricapitolazione storica è seguita da un’analisi della struttura elementare dei movimenti e del dominio totalitario stesso. La struttura elementare del totalitarismo è la struttura nascosta del libro, mentre la sua unità più visibile è fornita da certi concetti fondamentali che percorrono come fili rossi l’insieme del lavoro.
Lo stesso problema metodologico può essere analizzato da una prospettiva diversa e presentarsi allora come un problema di “stile”. Lo stile del libro è stato elogiato da alcuni, perché appassionato, e criticato da altri, perché sentimentale. Entrambi i giudizi mi appaiono un po’ fuori luogo. Ho preso deliberatamente congedo dalla tradizione del sine ira et studio, di cui riconosco senza remore la grandezza, per quella che per me è una necessità metodologica strettamente connessa al mio particolare oggetto di studio.
Supponiamo – per fare uno dei molti possibili esempi – che lo storico si trovi di fronte a una povertà eccessiva in una società molto opulenta, pensiamo alla miseria della classe operaia britannica durante i primi stadi della Rivoluzione industriale. Di fronte a condizioni simili la reazione naturale è di rabbia e di indignazione, in quanto tali condizioni contrastano con la dignità umana. Se descrivo queste condizioni senza permettere alla mia indignazione di interferire, rimuovo questo particolare fenomeno dal suo contesto nella società umana e così facendo lo esproprio di parte della sua natura, privandolo di una delle sue più importanti qualità intrinseche. Una delle qualità della povertà eccessiva, tenuto conto di ciò che essa significa per noi umani, è infatti proprio quella di suscitare indignazione. Perciò non posso concordare col professor Voegelin quando sostiene che “il moralmente ripugnante e ciò che si nutre di emozioni metteranno in ombra l’essenziale”, perché secondo me ne sono parte integrante. Ciò non ha niente a che fare col sentimentalismo e col moralismo, sebbene naturalmente entrambi possano diventare un’insidia per l’autore. Se talvolta sono incappata in atteggiamenti moralistici o sentimentali, semplicemente non ho fatto bene ciò che mi ero prefissa di fare, ossia descrivere il fenomeno totalitario così come esso si presenta, non sulla luna, ma nel bel mezzo della società umana. Descrivere i campi di concentramento sine ira non significa essere “obiettivi”, ma assolverli, e questa assoluzione non viene modificata da una condanna che l’autore può sentirsi in dovere di aggiungere, ma che resta slegata dalla descrizione stessa. Quando ho usato l’immagine dell’inferno, non l’intendevo in senso allegorico, ma letterale: sembra del tutto ovvio che uomini che hanno perso la fede nel paradiso non possano edificarlo sulla terra; ma non è altrettanto certo che esseri che hanno perso la fede nell’inferno come luogo dell’aldilà non vogliano e non possano creare sulla terra delle imitazioni perfette di ciò che la gente era solita credere sull’inferno. In questo senso ritengo che una descrizione dei campi che li presenta come l’inferno sulla terra sia più “obiettiva”, cioè più adeguata alla loro essenza, di affermazioni di natura puramente sociologica o psicologica.
Il problema stilistico è un problema di adeguatezza e di sensibilità. Se scrivo nello stesso modo “obiettivo” sull’epoca elisabettiana e sul XX secolo, può benissimo darsi che il mio modo di affrontare i due periodi risulti inadeguato, perché, così facendo, rinuncio alla facoltà umana di sintonizzarmi su entrambi. La questione stilistica è legata quindi al problema della comprensione che ha angustiato le scienze storiche sin quasi dalle loro origini. Non intendo affrontare qui la questione, ma posso aggiungere che sono convinta che la comprensione abbia uno stretto legame con la facoltà dell’immaginazione, che Kant chiamava Einbildungskraft, e che non ha nulla a che spartire con la capacità creativa e inventiva. Gli esercizi spirituali sono esercizi d’immaginazione e possono riguardare il metodo delle scienze storiche più di quanto l’istruzione accademica non pensi.
Riflessioni di questo genere, stimolate in origine dalla natura particolare del mio oggetto di studio, e l’esperienza personale, necessariamente implicata in un’investigazione storica che utilizza consapevolmente l’immaginazione come uno strumento di conoscenza, sono sfociate in un atteggiamento critico verso quasi tutte le interpretazioni della storia contemporanea. Ho fatto cenno a ciò in due brevi passi della prefazione, in cui mettevo il lettore in guardia dai concetti di progresso e di rovina in quanto “due facce della stessa medaglia”, come pure da ogni tentativo di “dedurre l’inedito dai precedenti”. Questi due approcci sono strettamente intrecciati. Il motivo per cui il professor Voegelin può parlare di “putrefazione della sozzura occidentale” e dell’“espansione mondiale dell’infamia occidentale” è che egli tratta le “differenze fenomeniche” – che per me, in quanto differenze fattuali, hanno una grande importanza – come conseguenze secondarie di un’“identità essenziale” di natura dottrinale. In questi anni sono state portate alla luce molte affinità tra il totalitarismo e alcune altre tendenze della storia politica o intellettuale occidentale. A mio avviso con questo risultato: nessuna è riuscita a cogliere la qualità specifica di ciò che sta veramente accadendo. Le “differenze fenomeniche”, lungi dall’“oscurare” un’identità essenziale, sono quei fenomeni che rendono il totalitarismo “totalitario”, che distinguono questo tipo di governo e di movimento da tutti gli altri, e che, soli, possono perciò consentirci di scoprire la sua essenza. Ciò che è senza precedenti nel totalitarismo non è anzitutto il suo contenuto ideologico, ma l’evento del dominio totalitario stesso. Ciò risulta chiaro se arriviamo a riconoscere che gli effetti voluti delle sue politiche hanno mandato in frantumi le categorie tradizionali del nostro pensiero politico (il dominio totalitario è diverso da tutte le varianti note di tirannia e di dispotismo) e i nostri criteri di giudizio morale (i crimini totalitari sono descritti in maniera molto inadeguata quando vengono definiti “omicidi” e i criminali totalitari ben difficilmente possono essere trattati come dei semplici “assassini”).
Il professor Voegelin sembra pensare che il totalitarismo sia solo l’altra faccia del liberalismo, del positivismo e del pragmatismo. Ma che uno concordi o meno col liberalismo (e io posso affermare qui con una certa sicurezza che non sono né una liberale, né una positivista, né una pragmatista), il punto è che i liberali chiaramente non sono dei totalitari. Ciò, ovviamente, non esclude che degli elementi liberali o positivistici non possano condurre anch’essi a una visione del mondo totalitaria, ma simili affinità dovrebbero semplicemente indurci a tracciare delle distinzioni ancora più nette, proprio per il fatto che i liberali non sono dei totalitari.
Mi auguro di non aver insistito troppo su questo punto. Per me è particolarmente importante, perché credo che ciò che separa il mio approccio da quello del professor Voegelin è che io procedo da fatti ed eventi, mentre lui da affinità e influenze intellettuali. Questo aspetto non è forse così facile da cogliere perché io stessa sono ovviamente molto interessata alle implicazioni filosofiche e ai mutamenti nelle autointerpretazioni spirituali. Ma ciò in ogni caso non significa che io abbia descritto una “rivelazione graduale dell’essenza del totalitarismo dalle sue forme embrionali nel XVIII secolo a quelle pienamente sviluppate”, perché questa essenza, dal mio punto di vista, non esiste prima di venire alla luce. Perciò io parlo solo di “elementi” che alla fine si cristallizzano nel totalitarismo, alcuni dei quali possono essere rintracciati nel XVIII secolo, alcuni forse persino in epoche precedenti (sebbene nutra qualche perplessità sulla tesi di Voegelin che la “comparsa del settarismo immanentista” nel tardo Medioevo sia sfociata infine nel totalitarismo). In nessun caso li definirei però totalitari.
Per motivi analoghi e per il desiderio di mantenere distinte le idee dagli eventi storici reali, non posso concordare con le tesi del professor Voegelin che la “malattia spirituale sia l’elemento decisivo che distingue le masse moderne da quelle dei secoli precedenti”. A mio avviso, le masse moderne si distinguono per il fatto che sono “masse” nel senso stretto del termine; si distinguono cioè dalle moltitudini dei secoli precedenti in quanto non hanno interessi comuni che le uniscano o alcun genere di “intesa” comune che, secondo Cicerone, costituisce l’inter-est, ciò che sta tra gli uomini, che va dal materiale allo spirituale a tutto il resto. Questo “tra” può essere una base comune oppure uno scopo comune, ma assolve sempre la duplice funzione di unire gli uomini e di separarli in modo articolato. L’assenza di un interesse comune, così tipica delle masse moderne, è perciò solo un altro segno del loro sradicamento e spaesamento. Solo essa spiega, tuttavia, il fatto curioso che queste masse moderne sono formate dall’atomizzazione della società, che gli uomini-massa che mancano di ogni legame comunitario offrono il miglior “materiale” possibile a movimenti in cui le persone sono a tal punto schiacciate l’una contro l’altra che paiono diventate una sola persona. La perdita di interessi è identica alla perdita del “sé” e dal mio punto di vista le masse moderne si distinguono proprio per lo scarso amor proprio, per l’assenza di “interessi egoistici”.
So benissimo che problemi del genere possono essere evitati se si interpretano i movimenti totalitari come una nuova – e corrotta – religione, un surrogato della fede ormai perduta nelle credenze religiose tradizionali. Da questo punto di vista, all’origine del totalitarismo vi sarebbe una sorta di “bisogno religioso”. Personalmente non riesco a trovare convincente neanche la forma molto raffinata in cui il professor Voegelin utilizza il concetto di religione secolare. Non vi è alcun surrogato di Dio nelle ideologie totalitarie – l’uso che Hitler faceva dell’“Onnipotente” era una concessione a ciò che egli stesso considerava una superstizione. Per di più, il luogo metafisico riservato a Dio è rimasto vuoto. L’introduzione di simili argomenti semiteologici nella discussione sul totalitarismo, d’altro canto, ha come unica conseguenza quella di favorire le diffuse e davvero blasfeme “idee” moderne su un Dio che sarebbe “un bene per te” – per la tua salute mentale o fisica, per la realizzazione della tua personalità, o per Dio sa che cosa – cioè, “idee” che fanno di Dio una funzione dell’uomo o della società. Questa funzionalizzazione mi sembra per molti aspetti l’ultimo e probabilmente il più pericoloso stadio dell’ateismo.
Con ciò, non intendo dire che il professor Voegelin potrebbe mai macchiarsi di una simile funzionalizzazione, né intendo negare che vi sia una connessione tra ateismo e totalitarismo, ma questa connessione mi sembra puramente negativa e per nulla specifica della comparsa del totalitarismo. È vero che un cristiano non può diventare un seguace di Hitler o Stalin, ed è vero che la moralità come tale è a rischio quando la fede nel Dio che ha dettato i Dieci comandamenti non è più certa. Ma questa è al massimo una condizione sine qua non, nulla che possa spiegare in concreto ciò che è avvenuto in seguito. Quanti desumono dagli spaventosi eventi della nostra epoca che dovremmo ritornare alla religione e alla fede per meri motivi politici esibiscono secondo me la stessa mancanza di fede in Dio dei loro avversari.
Il professor Voegelin deplora, come me, l’“insufficienza degli strumenti teorici” palesata dalle scienze politiche (e con quella che mi è parsa un’incoerenza mi accusa poche pagine dopo di non essermene avvalsa con maggiore prontezza). Prescindendo dalle attuali tendenze psicologistiche e sociologistiche, su cui credo che io e il professor Voegelin concordiamo, ciò che più mi indispone nello stato attuale delle scienze storiche e politiche è la loro crescente incapacità di operare delle distinzioni. Termini come nazionalismo, imperialismo, totalitarismo, ecc., sono applicati indiscriminatamente a tutti i generi di fenomeni politici (di norma come sinonimi “colti” di aggressione), e nessuno di essi è più compreso alla luce del suo particolare orizzonte storico. Ciò che ne risulta è una generalizzazione in cui le parole stesse perdono ogni significato. Il termine imperialismo non significa più nulla se viene applicato indiscriminatamente alla storia assira e romana, britannica e bolscevica; il nazionalismo è indagato in epoche e paesi che non conobbero mai lo stato nazionale; il totalitarismo è rinvenuto in tutti i tipi di tirannia o forme di comunità collettiva, ecc. Questo genere di confusione – in cui non rimane più nulla di distinto e tutto ciò che è nuovo e sorprendente non viene spiegato ma deformato ricorrendo ad analogie o riconducendolo a una catena di cause e influenze già note – mi pare il marchio distintivo delle scienze storiche e politiche moderne.
In conclusione, mi si consenta di chiarire la mia affermazione secondo cui nella nostra condizione moderna “sarebbe in gioco la natura umana in quanto tale”, un’affermazione che ha suscitato l’aspra critica del professor Voegelin che scorge nell’idea stessa di un “cambiamento della natura dell’uomo o di qualsiasi altra cosa”, e nel fatto stesso che io abbia preso sul serio questa pretesa del totalitarismo, un “sintomo del tracollo intellettuale della civiltà occidentale”. Il problema della relazione tra essenza ed esistenza nel pensiero occidentale mi pare un po’ più complicato e controverso di quanto non risulti dalle affermazioni di Voegelin sulla “natura” (che identifica “una cosa come una cosa” e perciò è, per definizione, incapace di mutamento), ma non posso soffermarmi qui su questo tema. Mi basta dire che, a prescindere dalle differenze terminologiche, non credo di aver proposto alcun cambiamento della natura più di quanto non abbia fatto il professor Voegelin stesso nel suo libro The New Science of Politics, in cui, discutendo la teoria platonico-aristotelica dell’anima, sostiene: “si potrebbe quasi dire che prima della scoperta della psiche l’uomo non aveva l’anima” (p. 67). Utilizzando le parole di Voegelin, avrei potuto dire che dopo le scoperte del dominio totalitario e i suoi esperimenti abbiamo buoni motivi per temere che l’uomo possa perdere la sua anima.
In altre parole, il successo del totalitarismo coincide con una soppressione della libertà, in quanto realtà politica e umana, molto più radicale di qualsiasi altra verificatasi in passato. Stando così le cose, sarebbe una ben magra consolazione aggrapparsi all’immutabilità della natura umana per concluderne che è l’uomo stesso che sta per essere distrutto o che la libertà non appartiene alle capacità umane essenziali. Storicamente, noi abbiamo cognizione della natura dell’uomo solo nella misura in cui ha un’esistenza, e nessuna sfera di essenze eterne potrà mai consolarci se l’uomo perderà le sue facoltà essenziali.
Il mio timore, quando scrissi il capitolo conclusivo del libro, non era diverso da quello già espresso da Montesquieu allorché si rese conto che la civiltà occidentale non era più garantita dalle leggi, sebbene i suoi popoli fossero ancora governati dai costumi che egli non riteneva però in grado di reggere all’assalto del dispotismo. Come dice nella prefazione a L’Esprit des lois: “L’homme, cet être flexible, se pliant dans la société aux pensées et aux impressions des autres, est également capable de connaître sa propre nature lorsqu’on la lui montre, et d’en perdre jusqu’au sentiment lorsqu’on la lui dérobe”. (L’uomo, questo essere flessibile, che si adatta nella società ai pensieri e alle impressioni altrui, è ugualmente capace di conoscere la propria natura quando gli viene mostrata, e di perderla fino al punto di non accorgersi che gli è stata sottratta.)
[Questa Replica venne scritta da Hannah Arendt in risposta a una recensione a Le origini del totalitarismo di Eric Voegelin, un filosofo politico austriaco che, come lei, aveva trovato rifugio negli Stati Uniti. La recensione, la replica della Arendt e le osservazioni conclusive di Voegelin vennero pubblicate sulla “Review of Politics” nel gennaio del 1953. È la nozione di “natura umana” il principale oggetto del contendere tra Voegelin e la Arendt. La tesi di Voegelin è che la natura umana sia come tale immutabile e che le origini del totalitarismo si annidino “nel morbo spirituale dell’agnosticismo”. Nella sua replica, la Arendt spiega meglio che altrove il metodo da lei usato per affrontare il fenomeno del totalitarismo e la sua “eliminazione” della libertà umana. Una prima traduzione italiana parziale è uscita in G. Lami, a cura di, Eric Voegelin: un interprete del totalitarismo, Astra, Roma 1978, pp. 33-87. J.K.]