2. Ripensando a Franz Kafka
In occasione del ventesimo anniversario della morte

Vent’anni fa, nell’estate del 1924, Franz Kafka morì all’età di quarant’anni. La sua fama crebbe costantemente in Austria e Germania durante gli anni venti e in Francia, Inghilterra e America negli anni trenta. I suoi ammiratori sparsi nei diversi paesi, pur dissentendo radicalmente sul significato profondo della sua opera, concordano stranamente su un punto essenziale: sono tutti colpiti dalla novità della narrazione, una modernità stilistica che non si manifesta in nessun altro autore con la stessa forza e chiarezza. Tutto ciò è sorprendente perché Kafka – contrariamente ad altri autori amati dall’intellighenzia – si è tenuto ben lontano da ogni sperimentalismo tecnico; senza cambiare la lingua tedesca, egli si limitò a spogliarla delle sue costruzioni involute finché divenne chiara e semplice, come la lingua quotidiana sfrondata dalle formule colloquiali e sciatte. Una delle possibili interpretazioni della semplicità e della naturalezza della sua lingua è che la modernità di Kafka e la difficoltà della sua opera abbiano ben poco a che vedere con quella moderna complicazione della vita interiore sempre alla ricerca di tecniche nuove e originali per esprimere sentimenti nuovi e originali. Ciò che in genere provano i lettori di Kafka è una fascinazione vaga e generica, anche per storie che non riescono a capire, un ricordo preciso di immagini e di descrizioni strane e apparentemente assurde; finché un giorno il significato nascosto si rivela loro con l’evidenza improvvisa di una verità semplice e incontestabile.

Cominciamo dal romanzo Il processo, su cui sono state scritte talmente tante interpretazioni da riempire una piccola biblioteca. È la storia di un uomo processato sulla base di leggi che gli sono sconosciute e che alla fine viene giustiziato senza che riesca a capirne la ragione.

Nel tentativo di comprendere i motivi che sono alla base di questa persecuzione, egli scopre che dietro “c’è una grande organizzazione [...] che alle sue dipendenze ha non solo guardiani corrotti, ispettori ottusi e giudici istruttori [...] ma anche magistrati di alto, anzi altissimo, rango, con tutto un codazzo di intrattabili servitori, scrivani, gendarmi e altri aiutanti, e forse anche carnefici”. K. ricorre quindi a un avvocato, che gli dice subito che la sola cosa sensata da fare è di adattarsi alle condizioni esistenti e non criticarle. A questo punto chiede consiglio al cappellano, che gli fa una predica sulla segreta grandezza del sistema e gli ingiunge di non cercare la verità, “perché non è necessario accettare tutto come vero, ma accettarlo come necessario”. “Una conclusione malinconica”, chiosa K., “che eleva la menzogna a principio universale.”

La forza del meccanismo di cui cade vittima K. nel Processo sta precisamente, da un lato, in questa apparente necessità e, dall’altro, nell’ammirazione delle persone per la necessità. Mentire per amore della necessità appare come qualcosa di sublime, e un uomo che non si sottomette al meccanismo, anche se la sua sottomissione può significare la sua morte, viene visto come uno che pecca contro una sorta di ordine divino. Nel caso di K. la sottomissione è ottenuta non con la forza, ma semplicemente accrescendo il sentimento di colpa che l’accusa infondata suscita nell’imputato. Ovviamente questo sentimento si basa, in ultima istanza, sul fatto che nessun uomo è totalmente esente da colpe; e poiché K., un indaffarato impiegato di banca, non ha mai avuto il tempo per riflettere su questioni così astratte, viene spinto a esplorare certe regioni sconosciute del suo io, e ciò, a sua volta, accresce la sua confusione e lo induce a scambiare il male del mondo, diabolicamente orchestrato, che lo circonda per un’espressione necessaria di quella generica colpa che è inoffensiva e quasi innocente se paragonata alla perfidia che eleva la “menzogna a principio universale” e usa e abusa anche della giustificata umiltà umana.

Perciò il sentimento di colpa che si impadronisce di K., e che dà inizio, di per sé, a uno sviluppo interiore, trasforma e modella la sua vittima fino a renderla idonea al processo. È proprio questo sentimento che gli consente di accedere al mondo della necessità, dell’ingiustizia e della menzogna, di assolvere un ruolo conforme alle regole, di adattarsi alle condizioni esistenti. Questo sviluppo interiore del protagonista – la sua “educazione sentimentale” – costituisce un secondo livello della storia che accompagna il funzionamento della macchina burocratica. Gli eventi del mondo esterno e lo sviluppo interiore vengono infine a coincidere nell’ultima scena – l’esecuzione – un’esecuzione cui K. si sottomette senza lottare benché sia palesemente insensata.

Una caratteristica peculiare del nostro secolo, così ricco di coscienza storica, è che i suoi crimini peggiori sono stati commessi nel nome di una qualche necessità, o nel nome – che è poi lo stesso – della “forza del progresso”. Di individui che si sottomettono a tutto ciò, che rinunciano cioè alla loro libertà e al loro diritto di agire, anche se la morte può essere il prezzo della loro illusione, difficilmente si potrebbe dire qualcosa di più indulgente delle parole con cui Kafka conclude Il processo: “Era come se la vergogna dovesse sopravvivergli”.

Fin dalla prima edizione del romanzo era apparso chiaro che Il processo conteneva una critica implicita dello stato in cui versava a ridosso della Prima guerra mondiale il regime burocratico austro-ungarico, le cui numerose e contrastanti nazionalità erano rette da un’omogenea gerarchia di funzionari. Kafka, impiegato in una compagnia di assicurazioni contro gli infortuni dei lavoratori e amico leale di molti ebrei dell’Europa orientale ai quali aveva dovuto procurare i permessi per rimanere nel paese, aveva una conoscenza profonda delle condizioni politiche del suo paese. Egli sapeva bene che un individuo, quando finisce nelle maglie della macchina burocratica, è già condannato, e che nessuno può attendersi giustizia da procedure giudiziarie in cui l’interpretazione della legge si accoppia all’amministrazione dell’illegalità, e in cui l’inazione cronica degli interpreti è compensata dalla macchina burocratica il cui insensato automatismo ha sempre il privilegio dell’ultima parola. Ma negli anni venti la burocrazia non appariva agli occhi della gente un male sufficientemente grande da spiegare l’orrore e il terrore espresso nel romanzo. Le persone erano spaventate più dal racconto che dalla realtà di riferimento e perciò andarono alla ricerca di altre, apparentemente più profonde, spiegazioni e le trovarono, seguendo la moda del tempo, in un misterioso ritratto della realtà religiosa, nell’espressione di una terribile teologia.

La ragione di questo equivoco, che a mio avviso è altrettanto sostanziale, ancorché non così rozzo, degli equivoci di stampo psicoanalitico, va ricercata ovviamente nell’opera stessa di Kafka. È vero, Kafka ha ritratto una società che si è arrogata il posto di Dio, e ha descritto uomini che scambiano le leggi di tale società per leggi divine, e le ritengono superiori alla singola volontà umana: in altre parole, ciò che non va nel mondo di cui sono vittime gli eroi di Kafka è proprio la sua deificazione, la sua pretesa di rappresentare una necessità divina. Kafka vuole distruggere questo mondo facendo emergere la sua odiosa struttura nascosta, mettendo a confronto realtà e finzione. Ma il lettore moderno, o quantomeno il lettore degli anni venti, affascinato dai paradossi in quanto tali e attratto dai meri contrasti, non voleva più prestare ascolto alla ragione. A ben vedere il suo modo di comprendere Kafka ci dice più cose sul suo conto che sullo stesso Kafka, e ci chiarisce quanto fosse adatto a questa società, si trattasse pure dell’adeguatezza di un’élite; non a caso egli risponde con grande serietà al sarcasmo con cui Kafka parla della falsa necessità e della menzogna necessaria come legge divina.

L’altro grande romanzo di Kafka, Il Castello, ci riporta nello stesso mondo, che questa volta viene visto non attraverso gli occhi di un uomo che alla fine si sottomette alla necessità e che viene a conoscenza del suo potere solo perché viene accusato da essa, ma attraverso gli occhi di un K. del tutto diverso. Questo K. giunge in tale mondo di sua spontanea volontà, come straniero, e vuole realizzare qui uno scopo ben preciso: stabilirvisi, diventare un cittadino, farsi una vita e una famiglia, trovare lavoro e diventare un membro utile della società.

La caratteristica principale del protagonista del Castello è che è interessato solo alle questioni più generali, a quelle cose che spettano a ogni uomo per diritto naturale. Mentre non è difficile convincerlo a cambiare professione, rivendica come suo diritto un’occupazione, “un lavoro regolare”. I problemi di K. derivano dal fatto che solo il Castello può soddisfare le sue richieste, e che il Castello lo farà o come “un atto di favore” o se egli acconsentirà a diventare un suo impiegato segreto: “un apparente lavoratore del villaggio la cui vera occupazione è stabilita da Barnaba”, il messaggero di corte.

Poiché ciò che esige è soltanto il rispetto degli inalienabili diritti dell’uomo, K. non può accettare che gli sia concesso come “un atto di favore del Castello”. A questo punto entrano in scena gli abitanti del villaggio che cercano di convincerlo che manca di esperienza e che deve capire che l’intera vita dipende ed è dominata dalla benevolenza o dalla malevolenza, dalla grazia o dalla disgrazia, entrambe inesplicabili e casuali come la buona e la cattiva sorte. Le ragioni e i torti, gli spiegano, fanno parte di un “fato” che nessuno può cambiare, che si può solo adempiere.

La stranezza di K. si precisa quindi ulteriormente: egli è strano non solo perché non “appartiene al villaggio e non appartiene al Castello”, ma perché è il solo essere umano normale e sano in un mondo in cui tutto ciò che è umano e normale, l’amore, il lavoro e l’amicizia, è stato strappato dalle mani degli uomini per diventare un dono elargito dall’esterno, o, come dice Kafka, dall’alto. Che sia un fato, una benedizione o una maledizione, è comunque qualcosa di misterioso, qualcosa che l’uomo può ricevere o vedersi negato, ma che non può mai creare. Di conseguenza, l’aspirazione di K., lungi dall’essere scontata o ovvia è, in effetti, eccezionale e scandalosa. Egli intraprende una lotta per il minimo indispensabile come se esso racchiudesse la somma di tutte le possibili richieste. Per gli abitanti del villaggio K. è strano non tanto perché sia stato privato degli aspetti essenziali dell’esistenza, ma perché li rivendica.

L’ostinazione con cui K. persegue il suo scopo, tuttavia, apre gli occhi ad alcuni abitanti del villaggio; il suo comportamento insegna loro che può valere la pena combattere per i diritti umani, che le regole del Castello non sono comandamenti divini e che, quindi, possono essere messe in discussione. Fa capire, come loro stessi ammettono, che “uomini che hanno patito le nostre terribili esperienze, assillati da questo genere di paure [...] che tremano a ogni scricchiolio della porta, non possono avere una visione chiara delle cose”. E aggiungono: “Che fortuna per noi che tu sia venuto!”. La lotta dello straniero, comunque, non ha altro esito che quello di fornire un esempio. La sua battaglia finisce con una morte perfettamente naturale: per esaurimento delle energie. Ma poiché, a differenza del K. del Processo, egli non si è sottomesso all’apparente necessità, non vi è vergogna che gli sopravviva.

È quasi inevitabile che il lettore delle storie di Kafka a un certo punto tenda a vedere nella realtà da incubo da lui dipinta una previsione triviale, ancorché, forse, psicologicamente interessante, di un mondo a venire. Ma a ben vedere questo mondo si è già realizzato. La generazione degli anni quaranta e in particolare coloro cui è toccato in sorte il dubbio privilegio di vivere sotto il regime più terribile che la storia abbia mai prodotto sanno che il terrore di Kafka rappresenta in maniera adeguata la vera natura di quella cosa chiamata burocrazia: la sostituzione del governo con l’amministrazione e delle leggi con decreti arbitrari. Noi tutti sappiamo che la costruzione kafkiana non era solo un incubo.

Se davvero la descrizione kafkiana di questo meccanismo fosse una profezia, sarebbe solo un’altra volgare predizione al pari di tutte le altre innumerevoli predizioni che ci hanno assillato dall’inizio del secolo. Fu Charles Péguy, a sua volta uno che è stato spesso scambiato per un profeta, a notare che “il determinismo, nella misura in cui è concepibile [...] non è forse altro che la legge dei resti”. Questa frase allude a una profonda verità. Nella misura in cui la vita non è altro che decadenza che in ultima istanza conduce alla morte, tale decadenza può essere prevista; e quindi in una società in dissolvimento che segue ciecamente la corsa naturale verso la rovina, la catastrofe può essere predetta. Solo la salvezza, non la rovina, giunge inattesa, poiché la salvezza, e non la rovina, dipende dalla libertà e dalla volontà umana. Le cosiddette profezie di Kafka sono soltanto una sobria analisi delle strutture nascoste che oggi sono venute alla luce. Queste strutture rovinose furono favorite, e lo stesso processo di decadenza accelerato, dalla credenza, quasi universale ai suoi giorni, in un processo necessario e automatico a cui l’uomo deve soggiacere. Le parole del cappellano del carcere nel Processo chiariscono che la fede dei burocrati è fede nella necessità, di cui essi stessi sono i funzionari. Ma in quanto funzionario della necessità, l’uomo diviene un esecutore della legge naturale che ha per fine la rovina e in questo modo si degrada alla condizione di strumento naturale della distruzione, che può essere accelerata attraverso l’uso perverso delle capacità umane. Come una casa abbandonata dagli uomini al suo destino naturale seguirà lentamente il processo di decadenza, che è in un certo senso insito in ogni opera umana, così certamente il mondo, fabbricato dagli uomini e realizzato secondo leggi naturali e non, tornerà a far parte della natura e seguirà la legge della decadenza non appena l’uomo deciderà di entrare esso stesso a far parte della natura: un cieco benché efficiente strumento delle leggi naturali, che rinuncia alla sua suprema facoltà di creare da sé le leggi e persino di imporle alla natura.

Se davvero si ritiene che il progresso sia una legge sovrumana ineluttabile che racchiude senza eccezione tutte le epoche della storia e nelle cui maglie è destinata inevitabilmente a finire l’umanità, allora il progresso è colto meglio e descritto più accuratamente in queste righe che ricaviamo dall’ultimo lavoro di Walter Benjamin:

L’angelo della storia [...] ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede solo una catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta.1

Malgrado la conferma che abbiamo avuto in tempi recenti che il mondo terrificante immaginato da Kafka era una possibilità effettiva la cui realtà ha oltrepassato persino le atrocità da lui descritte, quando leggiamo i suoi romanzi proviamo ancora un chiaro senso di irrealtà. In primo luogo, i suoi eroi non hanno neanche un nome e sono spesso contrassegnati da una semplice iniziale; di certo non sono persone che potremmo incontrare nel mondo reale, poiché mancano di tutte quelle caratteristiche e dettagli superflui che contribuiscono a definire un individuo reale. Inoltre essi si muovono in una realtà in cui a ciascuno è assegnato un ruolo preciso e tutti hanno un lavoro, e ciò che li distingue dagli altri è proprio il fatto di non avere un ruolo definito, dato che mancano di un posto specifico nel mondo delle professioni. E in questa società tutti, che siano gente semplice come le persone comuni nel Castello o personaggi di rango come i funzionari del Castello e del Processo, aspirano a un qualche genere di perfezione sovrumana e vivono in uno stato di completa identificazione col proprio lavoro; mancano pertanto di qualità psicologiche perché non sono altro che titolari di una certa professione. Quando, per esempio, nel romanzo America, il capoportiere di un albergo scambia qualcuno per un altro reagisce dicendo: “Come potrei continuare a essere il capoportiere se prendessi una persona per un’altra. [...] Nei miei trent’anni di servizio non ho mai confuso nessuno”. Siccome sbagliare equivale a perdere il lavoro, egli non può nemmeno ammettere la possibilità di sbagliare. Dei lavoratori a cui la società nega la possibilità umana di sbagliare non possono restare umani, ma devono agire come se fossero sovrumani. Nei romanzi di Kafka tutti gli impiegati, ufficiali e funzionari sono ben lungi dall’essere perfetti, ma agiscono universalmente sulla base dell’assunto della propria competenza assoluta.

Un romanziere ordinario potrebbe descrivere il conflitto tra la funzione e la vita privata di un individuo; potrebbe mostrare come la sua funzione abbia finito per divorarne la vita privata o come la sua vita privata – il fatto di avere una famiglia, per esempio – lo abbia spinto a perdere la sua umanità e ad assolvere la sua funzione come se non fosse umano. Kafka ci mette invece direttamente di fronte al risultato di questo processo, perché ciò che conta è il risultato. La competenza assoluta è il motore del meccanismo di cui cadono vittima gli eroi dei romanzi di Kafka, che è di per sé insensato e distruttivo e che pure funziona senza attrito.

Uno degli argomenti principali dei racconti di Kafka è proprio la costruzione di questa macchina, la descrizione del suo funzionamento e dei tentativi dei suoi eroi di distruggerla per amore delle semplici virtù umane. Questi eroi senza nome non sono uomini comuni che si potrebbero trovare e incontrare per strada, ma sono il modello dell’“uomo comune” come ideale di umanità: la loro funzione è di fornire una norma alla società. Come l’“uomo dimenticato” dei film di Chaplin, l’“uomo comune” è stato dimenticato da una società formata da personaggi di primo e di secondo piano, perché il motore delle sue azioni è la buona volontà, contrariamente al motore della società con cui è alle prese, che è la funzionalità. Questa buona volontà, di cui l’eroe è solo un modello, ha anch’essa una funzione: smaschera, infatti, in maniera quasi innocente le strutture nascoste della società che ovviamente frustrano i bisogni più comuni e distruggono le migliori intenzioni dell’uomo; in definitiva svela la fallacia di un mondo in cui l’uomo di buona volontà che non desidera farsi una carriera è semplicemente perduto.

L’impressione al contempo di irrealtà e modernità che ci destano i racconti di Kafka è dovuta principalmente a questo suo interesse primario per il funzionamento, unito alla sua totale indifferenza per le apparenze e al suo disinteresse per la descrizione del mondo inteso come fenomeno. È perciò sbagliato affiancarlo ai surrealisti. Mentre il surrealista cerca di presentare quanti più possibili aspetti contraddittori della realtà, Kafka li inventa liberamente solo in rapporto alla funzione. Mentre il metodo preferito dai surrealisti è sempre il fotomontaggio, la tecnica di Kafka potrebbe essere descritta al meglio come la costruzione di modelli. Se un uomo vuole costruire una casa o vuole conoscere una casa sufficientemente bene da poterne prevedere la stabilità, si procurerà uno schema dell’edificio o ne disegnerà uno lui stesso. I racconti di Kafka non sono altro che simili schemi; sono il prodotto del pensiero più che della mera esperienza sensoriale. Paragonato a una casa reale, ovviamente, uno schema è qualcosa di assai irreale; ma senza di esso la casa non sarebbe mai potuta venire alla luce, e non si potrebbero ravvisare le fondamenta e le strutture che la rendono una casa reale. È la stessa immaginazione – cioè quell’immaginazione che, per usare le parole di Kant, crea “un’altra natura a partire dal materiale che la natura reale gli offre” – che dev’essere usata tanto per la costruzione di case quanto per la loro comprensione. Gli schemi non possono essere compresi se non da coloro che vogliono e possono realizzare con la loro immaginazione le intenzioni degli architetti e le future sembianze degli edifici.

Ai lettori dei racconti di Kafka è richiesto quindi un simile sforzo di immaginazione. Perciò il lettore passivo di romanzi, la cui sola attività è l’identificazione con uno dei personaggi, si trova in difficoltà quando affronta Kafka. A sua volta il lettore curioso, che, per via delle frustrazioni nella vita reale, va alla ricerca di un suo surrogato nel mondo romantico dei romanzi, dove accadono cose che non avvengono nella vita reale, si sentirà ancor più ingannato e frustrato da Kafka che dalla propria vita. Nei libri di Kafka, infatti, non vi è assolutamente spazio per i sogni a occhi aperti o per le pie illusioni. Solo il lettore a cui la vita, il mondo e l’uomo appaiono così complicati, così terribilmente interessanti, da spingerlo a scoprirne la verità nascosta, e che si rivolge perciò ai narratori perché lo aiutino a comprendere meglio esperienze che sono comuni a tutti, può rivolgersi a Kafka e ai suoi modelli, che talvolta in una pagina, o persino in una singola frase, fanno emergere la nuda struttura degli eventi.

Tenendo ben presenti queste riflessioni possiamo prendere in considerazione uno dei racconti più semplici e caratteristici di Kafka, il cui titolo è:

Confusione di ogni giorno

Un fatto di tutti i giorni: il suo frutto una confusione di tutti i giorni. A. deve concludere un affare importante con B. che abita a H. Si reca per un primo colloquio a H., impiega per l’andata dieci minuti, altrettanti per il ritorno e a casa si vanta di questa straordinaria rapidità. Il giorno seguente torna a H. per la conclusione definitiva dell’affare. Siccome è da prevedere che ciò richieda alcune ore, A. parte la mattina molto per tempo. Ma nonostante che tutte le circostanze, almeno secondo lui, siano esattamente le stesse del giorno prima, per arrivare a H. impiega questa volta dieci ore. Giuntovi la sera, stanco, si sente dire che B., seccato dell’assenza di A., è partito mezz’ora prima per il villaggio di A., anzi avrebbero dovuto incontrarsi per la strada. Gli consigliano di attendere, ma A., in pensiero per il suo affare, si mette subito in cammino e corre a casa.
Questa volta, senza nemmeno badarci, percorre la distanza addirittura in un istante. A casa viene a sapere che B. è arrivato già la mattina, subito dopo la partenza di A.; anzi, avendo incontrato A. sulla soglia, gli aveva rammentato l’affare, ma A. gli aveva risposto che non aveva tempo e doveva andar via in fretta e furia.
B. però, nonostante l’incomprensibile contegno di A., era rimasto ad aspettarlo. Più volte, gli dicono, aveva chiesto se A. era ritornato, e si trova ancora di sopra, nella camera di A.
Felice di poter parlare ora con B. e di potergli spiegare ogni cosa, A.sale le scale di corsa. È quasi arrivato, inciampa, si busca uno strappo muscolare, quasi svenuto dal dolore, incapace persino di gridare, solo mugolando nel buio, sente che B. (non capisce bene se molto lontano o vicinissimo) scende furibondo le scale con grande fracasso e scompare definitivamente.

La tecnica, qui, sembra molto chiara. In questo racconto si ritrovano tutti i fattori essenziali insiti in questa esperienza comune di un appuntamento non andato a buon fine, come l’eccesso di zelo (che spinge A. a partire troppo presto e gli impedisce di notare B. sulla soglia di casa), la concentrazione eccessiva sui dettagli (A. si concentra sul viaggio invece che sul suo obiettivo fondamentale che è di incontrarsi con B., il che contribuisce a rendere il viaggio molto più lungo di quanto non sembrasse quando lo aveva compiuto senza porci troppa attenzione), e infine i consueti tranelli a cui gli oggetti e le circostanze ricorrono per cagionare simili insuccessi. Questo è il materiale grezzo con cui opera l’autore. Siccome i suoi racconti si incentrano sui fattori che contribuiscono a produrre i tipici insuccessi umani, e non su eventi reali, a prima vista danno l’impressione di un’esagerazione scatenata e umoristica di avvenimenti reali o di una logica ineludibile fuoriuscita dai cardini. Questa impressione di esagerazione, tuttavia, scompare completamente se si considera la storia per quello che effettivamente è: non il resoconto di un evento che sconcerta, ma il modello della confusione stessa. Ciò che resta è una comprensione della confusione presentata in maniera tale da suscitare il riso, un’eccitazione umoristica che consente all’uomo di dimostrare la sua essenziale libertà attraverso una sorta di serena superiorità davanti ai propri insuccessi.

Da quanto s’è detto finora dovrebbe risultare chiaro che il narratore Franz Kafka non fu un romanziere nel senso classico, ottocentesco, del termine. Alla base del romanzo classico vi era infatti un’accettazione della società in quanto tale, una sottomissione alla vita nella sua effettività e la convinzione che la grandezza del destino oltrepassi le virtù e i vizi umani. Esso presupponeva il declino del “cittadino”, che durante i giorni della Rivoluzione francese aveva cercato di governare il mondo attraverso le leggi umane, e ritraeva la crescita dell’individuo borghese per cui la vita e il mondo erano diventati un palcoscenico di eventi e che desiderava ancora più eventi e più avvenimenti di quelli che la cornice usualmente ristretta e sicura della sua vita poteva offrirgli. Oggigiorno questi romanzi, che erano sempre in competizione con la realtà (benché la imitassero), sono stati sostituiti dal romanzo reportage. Nel nostro mondo gli eventi reali, i destini reali, hanno sorpassato di gran lunga l’immaginazione più sfrenata dei romanzieri.

A fare da pendant alla sicurezza e quiete del mondo borghese in cui l’individuo si attendeva dalla vita la giusta dose di eventi ed entusiasmo, di cui non era mai sazio, vi era l’universo dei grandi uomini, i geni e le eccezioni, che rappresentavano agli occhi di quello stesso mondo l’incarnazione magnifica e misteriosa di qualcosa di sovrumano che poteva essere chiamato destino (come nel caso di Napoleone), o Storia (come nel caso di Hegel), o volontà di Dio (come nel caso di Kierkegaard, che credeva che Dio lo avesse scelto per fungere da esempio), o necessità (come nel caso di Nietzsche, che sostenne di essere egli stesso “una necessità”). L’idea suprema di uomo era l’uomo con una missione da compiere, con una vocazione da assolvere. Quanto più grande era la missione, tanto più grande l’uomo. Tutto ciò che l’uomo, inteso come questa incarnazione di qualcosa di sovrumano, poteva raggiungere era l’amor fati (Nietzsche), l’amore per il destino, la consapevole identificazione con ciò che gli era accaduto. Non si ricercava più la grandezza nelle opere, ma nell’individuo stesso; non si considerava più il genio come un dono assegnato dagli dei agli uomini che, come tali, rimanevano essenzialmente identici. L’individuo nel suo insieme era diventato l’incarnazione del genio e come tale non veniva più considerato un semplice mortale. Kant, che nella sostanza fu il filosofo della Rivoluzione francese, definiva ancora il genio come “la disposizione mentale innata attraverso cui la natura impone le regole all’arte”. Personalmente dissento da questa definizione. Penso piuttosto che il genio sia la disposizione attraverso cui l’umanità impone le regole all’arte. Ma non è questo il punto. Ciò che ci colpisce nella definizione kantiana, così come nella sua spiegazione più estesa, è infatti la completa assenza di quella vacua grandezza che durante tutto l’Ottocento ha fatto del genio il precursore del superuomo, una sorta di mostro.

Ciò che fa apparire Kafka così moderno e allo stesso tempo così diverso dai suoi contemporanei è proprio il suo rifiuto di sottomettersi agli eventi (per esempio, non voleva che il matrimonio gli “accadesse”, come solitamente accade ai più). Egli non andava certo pazzo per il mondo che aveva di fronte, né per la natura (la cui stabilità esiste solo fintanto che “la lasciamo in pace”), voleva solo costruire un mondo in armonia con i bisogni e la dignità umani, un mondo in cui le azioni dell’uomo dipendano solo da lui e che sia retto dalle sue leggi, e non da forze misteriose che emanano dall’alto o dal basso. Per di più il suo principale desiderio era di far parte di questo mondo – gli interessava poco essere un genio o l’incarnazione di un qualsivoglia genere di grandezza.

Tutto ciò, ovviamente, non significa, come si sente talvolta dire, che Kafka fosse modesto. È pur sempre Kafka che nei suoi diari notava, con sincero stupore, che “ogni frase che scrivo è già perfetta” – cosa peraltro assolutamente vera, ma non di certo l’osservazione di un uomo modesto. Kafka non era modesto, bensì umile.

Per entrare a far parte di questo mondo, un mondo liberato da tutti gli spettri sanguinari e gli incantesimi omicidi (un mondo che egli cercò di tratteggiare in conclusione – un vero e proprio happy end – del suo terzo romanzo, America), egli doveva prima anticipare la distruzione di un mondo fallace. Grazie a questa distruzione anticipata egli poté far emergere l’immagine, la figura suprema dell’uomo come modello di buona volontà, dell’uomo fabricator mundi, l’edificatore di mondi che può sbarazzarsi delle false costruzioni e ricostruire il suo mondo. E poiché questi eroi sono solo modelli di buona volontà e vengono lasciati nell’anonimato, l’astrattezza del generale, che si palesa solo nella funzione che la buona volontà può assolvere nel nostro mondo, i suoi romanzi sembrano possedere un fascino particolare, come se volessero dirci: quest’uomo di buona volontà può essere chiunque e ognuno, forse persino me e te.

[Pubblicato originariamente sulla “Partisan Review”, XI/4, 1944. Due versioni tedesche lievemente diverse di questo saggio sono state pubblicate la prima in “Die Wandlung”, I/12, 1945-46, e la seconda in Hannah Arendt, Sechs Essays, L. Schneider, Heidelberg 1948 (riedito in seguito in Die verborgene Tradition. Acht Essays, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1976). J.K.]

1 Tesi di filosofia della storia, IX (trad. it. di R. Solmi, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962, pp. 75-86, qui p. 80). Benjamin, un caro amico di Hannah Arendt, si tolse la vita sul confine tra Francia e Spagna nel 1940 mentre fuggiva dai nazisti. In proposito cfr. Hannah Arendt, Walter Benjamin 1892-1940, in Id., Men in Dark Times, Harcourt, Brace & Company, New York 1968 (trad. it., Walter Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle, in Il futuro alle spalle, a cura di Lea Ritter Santini, il Mulino, Bologna 1991, pp. 105-170). [J.K.]