CAPITOLO PRIMO

LA SCENA ITALIANA

Riassumiamo la situazione a cui eravamo arrivati con L’Italia dei secoli d’oro, un’Italia frantumata in una galassia di Stati e staterelli in lotta fra loro per un impossibile primato.

Il più vasto era, a Sud, il Regno di Napoli, passato nel 1443 dagli Angioini di Francia agli Aragonesi spagnoli. Il primo sovrano di questa casa, Alfonso, governò con sagacia e magnanimità. Fu sotto di lui che Napoli diventò una capitale fastosa e moderna. Alfonso diede alla città un volto architettonico nuovo, demolì i vecchi quartieri, fatiscenti e malsani, incrementò l’edilizia popolare, costruì strade, scavò fogne, eresse chiese e palazzi, restaurò il Maschio Angioino, innalzando nel centro un grandioso arco trionfale. Abbellì la Corte, la riempì di quadri, tappeti, ori, arazzi e ne fece il fulcro della vita sociale, mondana e culturale del Regno. Vi chiamò poeti, artisti, filosofi, letterati, fra cui il celebre umanista Lorenzo Valla. Ma per realizzare quest’opera dilapidò somme favolose e portò il Regno sull’orlo della bancarotta. Per rinsanguare le casse esauste inasprì le tasse e si rese assai impopolare fra i sudditi, che alla sua morte trassero un respiro di sollievo.

Il figlio e successore Ferdinando I (don Ferrante) per riassestare le finanze introdusse un regime di austerità, ridusse gli stipendi ai cortigiani e ai letterati, e concentrò gl’investimenti sulla industria e il commercio. Diminuì le tasse, e per alcuni anni abolì il dazio di uscita sulle merci. Spalancò i porti del Regno, soprattutto quello di Napoli, ai mercanti veneziani, genovesi e catalani e concesse l’immigrazione agli Ebrei, sebbene il Clero e il popolino li vedessero di malocchio. Favorì anche l’esodo dalle campagne dei «cafoni», che s’inurbarono in così gran numero che il sovrano dovette allargare la cinta delle mura e innalzare nuovi quartieri.

Fu astuto e lungimirante anche in politica. Attraverso una serie di matrimoni si guadagnò potenti alleati e consolidò il trono. Ma fu specialmente la sua lotta contro i Baroni che ne raccomandò la fama ai posteri. I Baroni costituivano la nobiltà feudale del Regno, discendevano dai conquistatori normanni, tedeschi, francesi e spagnoli che si erano dati il cambio in questa contrada e vivevano nelle campagne, arroccati nei loro turriti castelli. I più potenti possedevano immensi latifondi e stuoli di schiavi, che sfruttavano e sottoponevano a ogni sorta d’angherie, né conoscevano altra legge che quella della violenza e dell’arbitrio. Su costoro il Re non era in grado d’esercitare alcun potere, né di far valere i suoi diritti. Per accattivarseli Alfonso aveva loro concesso numerosi privilegi e lo stesso Ferrante li alleggerì di alcuni balzelli. Ma i Baroni odiavano il Re, e nel 1485 ordirono una congiura per sbalzarlo dal trono. Ebbero la peggio, e il sovrano li fece decapitare in massa. Quando nel 1494 calò nella tomba, il cordoglio dei sudditi fu sincero. Il Regno era saldo e prospero, e sicuri i suoi confini, che a Nord lo dividevano dal rapace e turbolento Stato pontificio.

Il Papa, che vi aveva fatto ritorno nel 1377 dopo la lunga parentesi di Avignone, l’aveva trovato in preda alle solite lotte di fazione fra le facinorose famiglie dell’Urbe e le non meno riottose consorterie campagnole. All’alba del quindicesimo secolo, la città occupava una superficie dieci volte inferiore a quella dei tempi d’Aureliano, e la sua popolazione non superava le sessantamila anime. Le mura erano ridotte a ruderi, le strade a trazzere polverose e ingombre di rifiuti, gli acquedotti erano intasati, le case tatuate di crepe e rivestite di muffa, i Fori trasformati in putridi catini, il Colosseo e il teatro di Marcello adibiti a depositi d’immondezza, il Campidoglio costellato di luride bidonvilles. Vacche, pecore, maiali pascolavano sui sagrati delle chiese. Di notte la città era infestata dai briganti, le rapine e gli ammazzamenti erano all’ordine del giorno. La plebe viveva d’elemosine, i nobili di privilegi e di soprusi, il Clero d’indulgenze, di decime e di usura.

Quando Gregorio XI vi ritrasferì la sua sede, le finanze della Chiesa erano in pieno dissesto e i suoi Stati – che inglobavano pressappoco Lazio, Umbria, Marche e Romagna – in totale decomposizione. Sembrava che nessuna forza umana potesse metter riparo allo sfacelo. Eppure, grazie a tre grandi Pontefici, il Papato riacquistò in pochi decenni il fasto, lo splendore e la potenza dei tempi di maggior auge. Niccolò V ridiede a Roma l’antico fulgore, profondendo somme immense. Riparò le mura, restaurò conventi, chiese, palazzi, innalzò nuovi edifici, costruì ponti, acquedotti, pavimentò strade. Affidò a Leon Battista Alberti il progetto di piazze e palazzi, incaricò Andrea del Castagno e il Beato Angelico di decorare le sale del Vaticano. Investì in abbellimenti quasi tutti gl’introiti del Giubileo del 1450, e si circondò di artisti e uomini di cultura, che tenne ai propri stipendi e colmò di favori.

Fra i suoi successori Pio II imitò il suo esempio, finanziò gli studi umanistici e tenne una dotta corte di letterati, artisti e filosofi; e Sisto IV spese tutte le sue energie a rafforzare e ingrandire lo Stato pontificio e a ridurre all’obbedienza la proterva nobiltà e la turbolenta plebe romana. Nepotista e spendaccione, ornò Roma di chiese, monumenti e palazzi, restaurò l’Ospedale di Santo Spirito, riorganizzò l’università. Legò il suo nome alla Cappella Sistina, di cui affidò il progetto all’architetto Giovannino de’ Dolci e la decorazione delle pareti al Perugino, al Signorelli, al Pinturicchio, al Ghirlandaio, al Botticelli, al Rosselli e a Piero di Cosimo.

A questi tre magnifici e munifici Pontefici Roma dovette la riconquista di quel rango che, in seguito alla cattività avignonese, aveva perduto e che per quasi tutto il Quattrocento era stato appannaggio di Firenze. Abbiamo visto nell’Italia dei secoli d’oro chi furono gli artefici dello splendore di questa città. Cosimo de’ Medici ne fece una potenza economica, finanziaria e politica di livello europeo. Pur non ricoprendo nella Repubblica cariche ufficiali, ne condizionò la vita e ne determinò le vicende. Le smisurate ricchezze, lo straordinario ingegno, la grande ambizione ne fecero il perfetto Signore del Rinascimento di cui, col nipote Lorenzo, magnificamente incarnò gl’ideali.

Anche Lorenzo cercò d’occuparsi di politica il più indirettamente possibile. Ufficialmente, preferì restare un privato cittadino ma fino alla morte, avvenuta nel 1492, il suo potere fu praticamente incontrastato. Sotto di lui la città toccò il suo apogeo artistico e diventò l’indiscussa capitale della cultura europea. Il nonno vi aveva restaurato la famosa «Accademia Platonica», che diventò la più attrezzata palestra filosofica del Rinascimento. Nelle sue aule convennero il fior fiore dell’intellighenzia italiana, francese, inglese, tedesca, e lo stesso Lorenzo ne fu un frequentatore assiduo. In lui l’amore per la cultura s’accompagnò a un edonismo paganeggiante, di cui fornì ai suoi concittadini il modello. Assoldò i più grandi artisti del tempo per dipingere i carri su cui i giovani sfilavano da Ponte Vecchio a Piazza del Duomo in bizzarri ed evocativi costumi e sovrintese di persona alla regia dei Trionfi con cui si concludevano queste parate. Fu amico e protettore del Pulci, del Poliziano, di Pico della Mirandola e di uno stuolo di altri umanisti. Col suo cuore cessò un po’ di battere anche quello di Firenze.

A Nord della Repubblica toscana, i due Stati più potenti erano quello milanese e quello veneziano. Milano, dopo un effimero intermezzo repubblicano, nel 1450 era passata per matrimonio dal dominio dei Visconti a quello degli Sforza. La nuova dinastia era stata inaugurata dal duca Francesco, signore di Cremona, che aveva sposato l’unica erede di Filippo Maria Visconti, e governò fino al 1466 con una magnificenza allergica a ogni preoccupazione di contabilità. Portò il Ducato sull’orlo del fallimento e solo i prestiti delle banche fiorentine lo salvarono. Favorì l’immigrazione, proibì l’esodo della manodopera locale, premiò i cittadini più prolifici, bandì campagne demografiche, contribuendovi di persona. Dissanguò l’erario, ma fece di Milano ciò ch’essa ancora non era: una fastosa metropoli, di cui il Castello Sforzesco e l’Ospedale Maggiore rappresentarono i gioielli.

Sullo scorcio del secolo, la città era una delle più popolose, animate e intraprendenti d’Europa. Un autentico boom edilizio aveva moltiplicato i suoi quartieri. Le case erano oltre quindicimila, centinaia le taverne, migliaia le botteghe. I suoi mercati traboccavano di ogni ben di Dio. Vi affluivano uomini d’affari inglesi, francesi, tedeschi, veneziani, fiorentini. Vi si potevano acquistare le merci più disparate: dalle spezie ai broccati, dalle sete ai tappeti, agli animali esotici. La periferia era disseminata di fucine, laboratori, armerie, da cui uscivano spade, lance, scudi, celate, elmi che venivano venduti in tutto il mondo. Ma la città amava anche divertirsi: feste, tornei, balli pubblici allietavano la vita dei suoi abitanti.

L’altro grande Stato del Nord era Venezia. La sua stabilità politica poggiava su una costituzione originale a carattere oligarchico, di cui abbiamo già fornito i lineamenti nei precedenti volumi. La sua potenza economica su una flotta moderna e perfettamente addestrata, su una classe di mercanti abili, dinamici, audaci, su una capillare rete di scali internazionali, o fondachi. Fino al 1453, la sua egemonia sull’Adriatico e il Mediterraneo orientale fu assoluta; ma quando, sotto le spallate degli eserciti ottomani, Costantinopoli cadde nelle mani dei Turchi, Venezia perse buona parte dei vecchi mercati balcanici e asiatici e dovette contrarsi e volgersi alla terraferma, dove fatalmente sarebbe venuta in urto con le altre potenze italiane, e soprattutto con Milano.

Accanto a questi cinque Stati maggiori ce n’era una miriade di minori, bramosi d’allargare i propri confini, giuocando i vicini gli uni contro gli altri, e mettendo di volta in volta al servizio del più potente le proprie masnade e i propri condottieri. Per tutto il Quattrocento la Penisola fu teatro di scaramucce e guerricciole cittadine che indebolirono le parti ostacolando e ritardando di secoli il processo d’unificazione del Paese. Incapace di diventare una Nazione, esso finirà infatti, come vedremo, per trasformarsi in un campo di battaglia e di rapina di eserciti stranieri, in una terra di conquista alla mercé del vincitore di turno.

Il primo capitolo di questo asservimento lo scrisse nel 1494 il re di Francia, Carlo VIII, chiamato in Italia da Ludovico il Moro.