Quando il Savonarola salì sul rogo, Alessandro VI regnava da sei anni. Aveva cinto la tiara nel 1492, dopo la morte di Innocenzo VIII, di cui era stato il più stretto collaboratore e il più ascoltato consigliere. La sua elezione fu una delle meno contrastate nella torbida storia dei Conclavi. Quattro giorni bastarono a dargli non la maggioranza, ma addirittura l’unanimità dei voti meno uno, quello del cardinale Della Rovere.
Tutti furono compensati, anche i suoi rivali: lo Sforza ebbe la vicecancelleria, e come mancia il palazzo degli stessi Borgia; l’Orsini il seggio (e le rendite) di Cartagena e il governatorato delle Marche. Alessandro poteva fare tutti i regali che voleva, dopo quelli ch’egli stesso aveva ricevuto dai cinque Papi che aveva contribuito a eleggere e servito nei posti di più alta responsabilità e sicuro reddito. Nessun Cardinale di Curia era mai stato ricco come lui. Mai incoronazione fu più solenne e fastosa della sua.
I cronisti dell’epoca ce n’hanno lasciato un minuzioso resoconto. Lungo il tragitto del corteo furono distesi due chilometri di sontuosi tappeti, i palazzi furono pavesati a festa e foderati di raso; archi di trionfo, ornati di ghirlande e d’iscrizioni cortigiane, costellarono l’itinerario pontificio. Allo spettacolo, accompagnato da balli, canti e salve di cannone, parteciparono diecimila cavalieri, centinaia di diplomatici e ambasciatori giunti a Roma da ogni parte d’Italia e d’Europa, uno stuolo di nobili e la Corte vaticana al gran completo.
Al nuovo Papa piaceva fare le cose in grande e strabiliare i sudditi. L’amore del lusso e dell’esteriorità tradiva la sua origine spagnola, sebbene venisse da una famiglia di piccola nobiltà e di pochi mezzi, che certo non gli era stata di nessun aiuto nella carriera: la via del papato è sempre stata particolarmente impervia agli stranieri.
Rodrigo, come si chiamava prima di assurgere al Soglio, doveva il successo alle sue qualità intellettuali, ch’erano grandi, e ai suoi difetti morali, ch’erano ugualmente grandi. Fu prete solo a trentasette anni, ma Cardinale già a venticinque; e quando venne a Roma aveva un paio di figlioli, di cui non si conoscono le madri. Insistette nella sua spensierata poligamia anche dopo essere entrato in Curia, e in un viaggio ad Ancona, al seguito di Pio II, contrasse una malattia venerea «perché» disse pudicamente il suo medico «non aveva dormito da solo». Era bello, elegante, gran signore, di sangue caldo e di maniere soavi. Ma, come tutti i seduttori, anche lui alla fine trovò la sua seduttrice: una Vannozza de’ Cattanei che, pur essendo già sposata, gli diede quattro figli: Giovanni, Cesare, Lucrezia e Giuffredo. Da quel momento gli affetti paterni presero in lui il sopravvento su qualunque altro sentimento.
Quando diventò Papa aveva già passato la sessantina e non era più il bell’uomo d’una volta: il corpo si era appesantito, le guance si erano fatte flaccide e cascanti, gli occhi acquosi e bovini. Ma le facoltà mentali erano rimaste intatte. Il 31 agosto, cinque giorni dopo l’incoronazione, convocò un concistoro e nominò il figlio Cesare Arcivescovo di Valenza con una rendita annua di sedicimila ducati, inaugurando quella sfacciata politica nepotistica che trasformerà la Curia romana in una colonia borgiana. Distribuì cariche, onori, prebende, benefici, sinecure a figli, cugini, nipoti, pronipoti. Ma non s’accontentò di sistemare i parenti. Spalancò le porte del Vaticano anche a conoscenti, amici, amici degli amici, che fece affluire a frotte dalla Castiglia, dall’Aragona, dalla Catalogna. Un contemporaneo commentò: «Nemmeno dieci Papa ti basterebbero a sbramare questo parentado».
Ma, nepotismo a parte, Alessandro debuttò bene. I predecessori gli avevano lasciato molte gatte da pelare: le finanze in dissesto; l’Urbe in preda alle lotte di fazione tra i soliti Orsini, Colonna, Gaetani, Savelli; lo Stato pontificio smembrato e in balia di tirannelli locali sui quali il potere centrale non era più da tempo in grado d’esercitare alcun controllo; il Clero dilaniato dalla corruzione e dalla simonia. Alessandro si mise subito all’opera. Rinsanguò le casse vaticane, sfoltendo la burocrazia e bloccando i salari. Limitò al massimo le uscite, aumentò con nuove tasse le entrate e impose alla Curia un regime d’austerità, cui essa non era abituata, e al quale egli stesso si sottopose. Ordinava per sé pasti di una sola portata e quasi non toccava vino. I maligni insinuavano che questa dieta gli era stata imposta dai medici e che nessuno accettava volentieri i suoi inviti a pranzo. Ma sul suo esempio molti ecclesiastici ridussero le spese e abbassarono il treno di vita.
Più difficoltà incontrò nel riportare l’ordine a Roma. Nell’Urbe regnava la più completa anarchia. I nobili, divisi in consorterie, spadroneggiavano e aizzavano il popolino contro i rivali e contro lo stesso Pontefice. Furti, omicidi, rapine, violenze d’ogni genere erano all’ordine del giorno. Alessandro aumentò il numero degli sbirri, mise a setaccio i bassifondi della città, fece arrestare gli elementi più facinorosi e inasprì le pene contro i criminali. Invitò i nobili a non fomentare torbidi, pena la confisca dei beni, il bando e il capestro. A mo’ di monito, appena cinta la tiara, fece impiccare una coppia di omicidi e ordinò che i loro corpi penzolassero per due giorni dalla forca issata in una pubblica piazza.
Ma ciò che più lo preoccupava era il caos in cui era piombato lo Stato pontificio, dove non si trattava solo di ridurre alla ragione i despotelli che ne avevano usurpato i territori, ma anche di ricacciare dai suoi confini le potenze straniere che li avevano varcati e che non intendevano ripassarli: Napoli, impadronitasi di Sora e dell’Aquila, e Milano, installatasi a Forlì. Accanto ai tirannelli locali imperversavano i piccoli nobili riottosi, avidi, ingovernabili che seminavano il terrore nelle campagne, angariavano le popolazioni, depredavano le carovane, guastavano i pascoli. Molti Papi s’erano provati a domarli e a ridare un assetto agli Stati della Chiesa, ma senza fortuna. Alessandro ci riuscirà, ma dopo lunghi anni di regno.
Fin dall’inizio i Romani presero a benvolerlo, perdonandogli la smodata cupidigia, lo stuolo di amanti di cui si circondava e lo sviscerato amore per i figli, soprattutto per Lucrezia, la cui figura egli fece immortalare dal pennello del Pinturicchio: un volto pallido e angelico, gli occhi a mandorla, il naso sottile e appuntito, la bocca piccola, il collo lungo e levigato, le mani diafane e affusolate, i capelli biondi e lunghissimi (così lunghi e pesanti che le procuravano violente emicranie). Il pittore umbro, che fu per un certo periodo agli stipendi del Papa, era noto per la sua cortigianeria. Dubitiamo perciò che questo ritratto sia fedele all’originale anche perché da documenti scritti risulta che i contemporanei non si trovavano affatto d’accordo sull’avvenenza di Lucrezia. Se comunque essa non fu la stupenda creatura dipinta dal Pinturicchio, ebbe molte altre doti che la resero una delle donne più affascinanti del Rinascimento, e una delle più discusse. Ebbe una buona educazione, studiò – come si conveniva alle ragazze altolocate del tempo – in un monastero, e trascorse un’infanzia gaia e spensierata. A tredici anni, per accattivarsi il Duca di Milano, il padre la diede in sposa al nipote di Ludovico il Moro, Giovanni Sforza, signore di Pesaro, che ne aveva ventisei. Lucrezia lasciò Roma e si trasferì nella città marchigiana, dove visse alcuni mesi.
Giovanni le preferiva di giorno la caccia con gli amici e di notte non la degnava nemmeno di uno sguardo. Offesa e assalita dalla nostalgia, Lucrezia approfittò di una nuova rottura politica fra i due Stati per tornare a Roma. Alessandro non solo la riaccolse a Corte ma chiese a Giovanni di acconsentire all’annullamento del matrimonio col riconoscersi impotente. Il giovane Sforza rispose accusando il Borgia di aver rapporti incestuosi con la figlia. Nella disputa intervenne Lucrezia, proclamandosi vergine. A questo punto, Alessandro incaricò due Cardinali di sottoporre la figlia a un sopralluogo anatomico. Il verdetto diede ragione a Lucrezia. Per salvare l’onore del nipote, Ludovico invitò allora Giovanni a dimostrare pubblicamente, in presenza di un Legato pontificio, la sua virilità. Il giovane rifiutò, e poco dopo ammise ufficialmente che il matrimonio non era stato consumato.
Fu subito rimpiazzato col Duca di Bisceglie, don Alfonso, figlio bastardo dell’erede al trono di Napoli. Anche questo secondo marito lo scelse Alessandro, che voleva tenersi buono re Federico. Alfonso aveva diciassette anni, uno meno della sposa. Lucrezia se ne innamorò perdutamente e quando Alfonso, in seguito a un rapprochement del Borgia col Re di Francia, acerrimo nemico di Federico, l’abbandonò per tornarsene a Napoli, cadde in un tale stato di prostrazione che il padre, per distrarla, la nominò reggente di Spoleto e indusse Alfonso a ricongiungersi con lei.
Ma fu un’unione breve. Pochi mesi dopo, i sicari del fratello Cesare soffocarono nel sonno lo sventurato con un cuscino. Vedova per la seconda volta, Lucrezia si sposò per la terza con Alfonso d’Este, figlio del Duca di Ferrara, Ercole. La ragion di Stato dettò anche questo matrimonio, che fu più felice e duraturo dei precedenti. Ferrara era uno dei potentati italiani più forti e costituiva per la Chiesa una salda copertura in caso di guerra contro l’antipapale Bologna.
Ma Lucrezia non sarebbe stata solo una pedina politica del padre. Secondo le malelingue ne fu anche l’amante. Uno storico la definì: «figlia, moglie e nuora del Papa». Forse non si tratta che di un’infame calunnia, e noi non ci sentiamo di avallarla. I rapporti fra il Borgia e la figlia non furono comunque mai molto chiari. È un fatto che ad Alessandro la lontananza di Lucrezia riusciva intollerabile e lo piombava in cupi pensieri, ch’egli cercava di scacciare immergendosi negli affari di Stato. Era un lavoratore infaticabile. S’alzava la mattina all’alba e si coricava a notte fonda. Voleva essere messo al corrente di tutto e su tutto vegliava. Riceveva ogni giorno Principi, ambasciatori, Ministri, Cardinali, leggeva e dettava decine di rapporti, emanava bolle, ordiva intrighi. Di religione non s’occupava punto. La lettura delle Sacre Scritture lo annoiava, ed era completamente digiuno di teologia. Considerava la fede un instrumentum regni per ingrandire lo Stato pontificio, renderlo più potente e più ricco.
Nel 1500, trovandosi a corto di quattrini, promulgò il Giubileo e largì a piene mani dispense e indulgenze. A re Ladislao VII d’Ungheria concesse l’annullamento del matrimonio con Beatrice di Napoli in cambio di trentamila ducati. Poiché l’anarchia che regnava nei territori pontifici limitò l’afflusso dei pellegrini e gl’introiti furono inferiori alle previsioni, indisse un concistoro e vendette ai migliori offerenti dodici galeri cardinalizi, ricavandone un bel gruzzolo. Aveva impellente bisogno di denaro per finanziare la riconquista degli Stati pontifici, cui mirava da quando era asceso al Soglio. Alla fine del 1499 aveva ordinato la prima spedizione contro Forlì e Imola, ponendovi a capo il figlio Cesare.
Cesare era un giovane bello e atletico, dal volto lungo, la fronte alta, gli occhi falcati, il naso aguzzo, le labbra sottili e serrate, la chioma bionda, lo sguardo penetrante e imperioso. Una rada barbetta gl’incorniciava le mascelle e il mento. Dotato di un’eccezionale forza fisica (una volta con le mani piegò un ferro di cavallo), era un cacciatore dalla mira infallibile, un cavaliere infaticabile, e da buon Spagnolo un torero invincibile. Durante una corrida in piazza San Pietro abbatté due tori. Un’altra volta ne decapitò uno con un sol colpo di spada.
Fuori della lizza e dell’arena, era un gentiluomo dai modi cortesi e raffinati, un parlatore forbito, un padrone di casa splendido e galante. Le donne se lo contendevano soggiogate, oltre che dalla sua avvenenza, dall’alone di mistero di cui si circondava. Non era colto e non sentiva il bisogno di diventarlo. Aveva seguito svogliatamente i corsi di legge all’Università di Bologna, leggeva poco, e solo poesie. Ne componeva egli stesso, e pare di buona fattura. Sensibile all’arte, si circondava di pittori e li sovvenzionava. Nel 1493, il padre lo fece Cardinale. Ma Cesare si sentiva così poco votato alla vita ecclesiastica che quattro anni dopo chiese e ottenne da Alessandro di tornare allo stato laico. Nel maggio del 1499, su consiglio del Papa, sposò la sorella del Re di Navarra, Carlotta d’Albret, che gli portò in dote il Ducato di Valentinois e l’alleanza del Re di Francia.
Affidando al figlio il comando dell’esercito pontificio, Alessandro non poteva fare una scelta migliore. Cesare si lanciò alla riconquista degli Stati della Chiesa con l’impeto e la determinatezza di un grande generale. Luigi XII gli aveva messo a disposizione trecento arcieri. Il Papa gli aveva fornito quattromila mercenari svizzeri e guasconi più duemila italiani, e in una bolla aveva proclamato usurpatori i signori di Forlì e di Imola. Questa città fu la prima a capitolare, senza opporre resistenza. Forlì ne seguì l’esempio, consegnandosi spontaneamente al duca Valentino, come Cesare s’era fatto chiamare dopo le nozze con Carlotta. Solo Caterina Sforza, signora della città, non abbassò le armi. Asserragliata nella rocca con un pugno di fedeli, valorosamente rintuzzò gli assalti del nemico, ma dopo alcuni giorni dovette arrendersi. Il vincitore magnanimamente le risparmiò la vita, la spedì a Roma e la fece rinchiudere in convento.
Avrebbe voluto occupare altri capisaldi, ma la defezione degli arcieri francesi lo consigliò di tornare a Roma, dove fu accolto con onori degni di un sovrano. Il padre gli andò incontro, lo nominò Vicario papale delle città sottomesse e gli mise a disposizione una forte somma di denaro per arruolare nuove truppe e assoldare uno dei condottieri più prestigiosi del tempo, Vitellozzo Vitelli, cui Cesare affidò il comando dell’artiglieria.
Nell’ottobre dello stesso 1500, il duca Valentino guidò la seconda spedizione contro i nemici della Chiesa. Prima di puntare sulle Marche e la Romagna, assalì i castelli laziali dei Colonna e dei Savelli, li espugnò e vi lasciò a guardia presidi armati. Guidava ora un esercito di quattordicimila uomini perfettamente addestrati, seguito da uno stuolo di preti, prostitute, buffoni e giullari. Dovunque passò fu festeggiato dalle popolazioni e salutato come un liberatore. Al suo avvicinarsi, Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, e Giovanni Sforza, signore di Pesaro, fuggirono lasciando le rispettive città in balìa dei papalini. Faenza, invece, sotto la guida di Astorre Manfredi e del fratello, sostenne un durissimo assedio e solo dopo alcuni mesi inalberò il vessillo della resa. Anche stavolta Cesare si mostrò clemente. Chiamò al proprio cospetto i due Manfredi e ne lodò il coraggio. Astorre e il fratello ne furono talmente lusingati che chiesero di porsi al servizio del vincitore. Secondo i maligni s’erano entrambi innamorati di Cesare, al cui fianco vissero per circa un anno. Nel 1501, per motivi che ignoriamo, il duca Valentino li fece imprigionare e l’anno successivo annegare nelle acque del Tevere.
Nella primavera del 1502, Cesare allestì la terza spedizione contro Camerino e Urbino. Governava questa città Guidobaldo da Montefeltro, despota illuminato, umanista squisito, mecenate munifico. Quando gli fu annunciato che l’esercito pontificio stava marciando su Urbino, si alzò dal letto, dove giaceva malato, e abbandonò il Ducato, che si sottomise pacificamente al Borgia. Un mese dopo, ugual sorte toccò a Camerino. Mai campagna ebbe esito più rapido e fortunato.
Troppo rapido e troppo fortunato per non allarmare e insospettire quegli Stati italiani, i cui interessi gravitavano ai confini dei territori riconquistati dal duca Valentino: Venezia guardava con apprensione al reinsediamento di guarnigioni pontificie lungo la costa adriatica, e Firenze paventava mire borgiane sulla Toscana. Una certa inquietudine serpeggiava anche tra quei condottieri postisi al servizio di Cesare, i cui territori non potevano non far gola al Papa e al suo bellicoso figlio. Li capeggiava quel Vitellozzo Vitelli, che tanto aveva contribuito con le sue artiglierie alle vittorie pontificie. Nel settembre del 1502, costui convocò in una località chiamata «La Magione» sul lago Trasimeno alcuni nemici di vecchia data dei Borgia. Fu convenuto di muovere guerra a Cesare, togliergli il titolo di Duca di Romagna, di cui s’era insignito, e restituire agli spodestati tiranni i loro staterelli. Agenti furono sguinzagliati nelle varie città per sollevare le popolazioni contro Cesare e appelli alla diserzione furono lanciati alle truppe pontificie. Il duca Valentino chiese rinforzi al padre. Alessandro, in quel momento a corto di quattrini, mise all’asta alcuni benefici ecclesiastici e s’appropriò dell’eredità del cardinale Ferrali, cinquantamila ducati, che spedì al Valentino, il quale poté così arruolare seimila mercenari. Contemporaneamente il Pontefice si abboccò coi congiurati e riuscì, con blandizie e promesse, a farli desistere dai loro piani e a riconciliarsi col figlio.
La rappacificazione avvenne nella città di Senigallia. Cesare invitò nel palazzo del governatore i capi del complotto: Vitellozzo Vitelli, Oliverotto di Fermo, Paolo e Francesco Orsini. A un segnale, nella sala in cui si svolgeva il convegno, irruppero le guardie armate del Duca, che arrestarono gli ospiti e li imprigionarono. La notte stessa Vitellozzo e Oliverotto furono strangolati. I due Orsini sopravvissero di poco ai compagni e il 18 gennaio del 1503 vennero condannati a morte. Fu un colpo maestro, che sbalordì i principi di tutt’Europa e riempì d’ammirazione gli storici contemporanei. Il Machiavelli lo definì una «impresa rara e mirabile», Luigi XII un’«azione degna dell’antica Roma», il vescovo Paolo Giovio un «bellissimo inganno».
Prima di congedare le truppe, Cesare volle dare una lezione ai nobili del Lazio che profittando della sua lontananza avevano rialzato la cresta, capeggiati da Giulio Orsini. Ne espugnò le fortezze e obbligò gl’inquilini a cedere i loro territori al Papa. Quindi tornò a Roma e si riacquartierò in Vaticano. Aveva appena compiuto ventott’anni e il suo nome era sulla bocca di tutti, sebbene vivesse ritirato e di rado uscisse dai suoi appartamenti. Quando ne varcava la soglia si celava il volto sotto una maschera di seta nera per non farsi riconoscere, o forse per nascondere le ulcere veneree che lo deturpavano. Lavorava giorno e notte e si teneva in costante contatto coi suoi luogotenenti in Romagna e nelle Marche. Parlava poco, impartiva ordini laconici e perentori e puniva con la morte chi li trasgrediva.
Il mistero di cui s’avvolgeva accese la fantasia dei contemporanei, che gli attribuirono – ma più con ammirazione che con biasimo – i delitti più efferati. Fu accusato di aver fatto arrestare facoltosi prelati e di averli liberati dietro esosi riscatti; e i suoi più accaniti denigratori giunsero persino a imputargli l’assassinio del ricchissimo cardinale Michiel e di altri porporati, spogliati dei loro averi dopo essere stati sottoposti a tortura. Anche sulla sua crudeltà se ne raccontavano di tutti i colori. Il veneziano Capello riferisce che un giorno il Duca fece condurre nel cortile del suo palazzo dei prigionieri e da una finestra li trafisse a uno a uno coll’arco. Il cerimoniere del Papa assicura che a un banchetto dato in onore del padre e della sorella, egli invitò alcune prostitute, le fece spogliare, eppoi le obbligò a raccogliere castagne ch’egli si divertiva a lanciare sul pavimento. È difficile stabilire l’autenticità di questi episodi. Forse i nemici di Cesare esagerarono ma, dati i tempi e i tipi, non ci stupiremmo se alla Corte pontificia certe cose realmente accaddero. Se Cesare non fu l’Anticristo dipinto da alcuni storici, certamente non fu uno stinco di santo. Come certamente non lo fu il padre Alessandro.
Il vecchio Papa, riconquistati gli Stati pontifici, si godette beatamente gli ultimi anni di regno. Scoppiava di salute, aveva abbandonato le diete impostegli dai medici, seguitava a circondarsi di amanti e, nonostante l’età, a esigerne puntualmente i favori, che ricambiava con la consueta liberalità. In un afoso pomeriggio d’agosto del 1503, fu invitato a cena col figlio dal cardinale Corneto, che possedeva una bellissima villa a un tiro di schioppo dal Vaticano. Alcuni giorni dopo quasi tutti i commensali furono assaliti da una violenta febbre, accompagnata da sudore e vomito. I Romani naturalmente parlarono di veleno. Si sparse la voce che Cesare e Alessandro avevano assaggiato per errore il cibo ch’essi stessi avevano fatto spruzzare d’arsenico per sbarazzarsi dell’anfitrione e impossessarsi delle sue ricchezze. Ma questa volta l’accusa era infondata. In quei giorni sull’Urbe s’era abbattuta la malaria e i suoi abitanti morivano come mosche. La perniciosa colpì anche i due Borgia. Per una settimana Alessandro fu tra la vita e la morte. Poi si riprese e concesse persino alcune udienze. Il 13 agosto le sue condizioni peggiorarono. Il 18, un attacco apoplettico lo stroncò.
Pochi Papi nella storia ebbero, dopo morti, un trattamento peggiore del Borgia; ma, a distanza di secoli, la sua memoria è stata parzialmente riabilitata. Il maggiore storico della Chiesa, il tedesco Pastor, ha scritto: «Alessandro fu da tutti dipinto come un mostro e gli fu attribuita ogni sorta di feroci delitti. Le ricerche della critica moderna l’hanno fatto giudicare in modo più clemente e hanno respinto alcune delle accuse peggiori mosse contro di lui… Dal punto di vista dei cattolici è impossibile biasimarlo troppo severamente». «Quali che fossero i suoi delitti» ha scritto lo storico protestante Roscoe «non ci può essere dubbio che essi sono stati esagerati. È certo che egli si dedicò alla grandezza della sua famiglia e che usò dell’autorità della sua alta posizione per stabilire in Italia un dominio permanente nella persona del figlio; ma mi sembra ingiusto bollare il carattere di Alessandro col marchio di un’infamia particolare e straordinaria, quando quasi tutti i sovrani d’Europa tentavano di soddisfare le loro ambizioni con mezzi ugualmente delittuosi.»
Questo è anche il nostro giudizio. Alessandro fu figlio del suo tempo e al suo tempo s’adeguò. Usò gli stessi metodi impiegati dai rivali: il sotterfugio, il tradimento, l’inganno, il veleno. Ma li usò meglio e quasi sempre riuscì a giuocare i propri nemici. Ebbe molte debolezze, si macchiò di simonia, praticò impudentemente e impunemente il nepotismo. Ma al pari d’Innocenzo III, di Gregorio VII e di Bonifacio VIII, ebbe altissimo il senso dello Stato. Di uno Stato temporale di cui, a spese di quello spirituale, perseguì con ogni mezzo, lecito e illecito, l’ingrandimento. E la fede, ancora una volta, ne fu la vittima.
Nell’Urbe, la notizia della morte del Papa fu accolta con giubilo, sebbene in passato i Romani l’avessero amato. Qualcuno propose addirittura di riesumarne le spoglie e darle in pasto ai cani. Una donnetta giurò d’aver visto il diavolo portare all’inferno l’anima di Alessandro. Il popolino, volubile e avido, diede l’assalto alle case degli Spagnoli, le saccheggiò e le rase al suolo. I Colonna e gli Orsini piombarono in città dal Lazio e con le loro masnade vi seminarono il terrore.
Dal letto in cui giaceva tuttora ammalato, Cesare era impotente a fronteggiare la situazione. Dalla Romagna gli giungevano notizie allarmanti. Aizzati dagli Stati del Nord, e specialmente da Venezia, i tirannelli romagnoli e marchigiani avevano riacquistato baldanza e sembravano decisi a riprendersi le loro terre. All’orizzonte s’andava profilando un nuovo Conclave. Chi ne sarebbe uscito eletto? Il favorito era quel cardinale Della Rovere, nemico acerrimo di casa Borgia, che in passato aveva ripetutamente tentato di far deporre Alessandro. Bisognava impedirlo, ma non era facile. Cesare ci provò e ci riuscì. Aveva dalla sua i Cardinali spagnoli, il cui voto fu decisivo nella scelta nel nuovo Papa, il cardinale Francesco Piccolomini, un uomo di sessantaquattro anni, oberato dai figli e dagli acciacchi che, dopo neppure un mese, lo condussero alla tomba.
Il duca Valentino non osò opporsi una seconda volta al potentissimo Della Rovere. Preferì venire a patti con lui. Gli offrì i voti dei porporati spagnoli in cambio della riconferma del titolo di Duca di Romagna e comandante delle truppe pontificie. Il Della Rovere accettò, o finse di accettare, e ottenne la tiara. Quando Cesare gli rammentò l’intesa, il Pontefice, che aveva preso il nome di Giulio II, gli comandò di recarsi a Imola a reclutare un nuovo esercito. Cesare obbedì. Ma al momento di partire fu raggiunto da un messo papale che gli ordinò di consegnare alla Chiesa le sue fortezze romagnole. Il Duca rifiutò, fu arrestato e condotto a Roma, dove Giulio lo tenne prigioniero finché non ne ottenne la capitolazione.
Liberato, Cesare decise di cambiar aria, fuggì a Napoli e si diede ad arruolare un piccolo esercito per riconquistare le piazzeforti perdute. Appena il Papa ne fu informato, chiese a re Ferdinando di arrestare il Duca, che fu condotto in Spagna, dove languì in carcere due anni. Nel novembre del 1506 evase e riparò alla Corte di Navarra, ponendosi al servizio del suo Re, Giovanni d’Albret, fratello della moglie Carlotta. Giovanni gli affidò un esercito e lo spedì contro un suo vassallo, che s’era ribellato. Cesare attaccò la fortezza dove il nemico s’era asserragliato, ma durante un combattimento fu ferito a morte. Aveva trentun anni.
Il Machiavelli lo prese a modello del suo Principe. Nessuno, meglio di Cesare, ne incarnò i vizi e le virtù. Fu un grande condottiero, un abile stratega, un politico spregiudicato, un diplomatico accorto, un despota lungimirante e senza scrupoli. Dubitiamo che covasse l’ambizione – attribuitagli dal grande storico fiorentino – di unificare l’Italia. Ma anche se l’avesse covata, dubitiamo che ci sarebbe riuscito. La Chiesa non gliel’avrebbe consentito, né gliel’avrebbero consentito la Spagna e la Francia, di cui l’Italia s’avviava a diventare una colonia.
Dodici anni più tardi, nel 1519, dopo aver dato alla luce il settimo figlio, calò nella tomba Lucrezia. Da quando era diventata la moglie del Duca di Ferrara, nessun pettegolezzo l’aveva più sfiorata. A Corte la chiamavano pulcherrima virgo, bellissima vergine, i poeti componevano versi in suo onore, i musicisti canzoni, i diplomatici la colmavano di lodi. Lucrezia ricambiava questi atti di devozione e di omaggio sovvenzionando le arti, circondandosi di umanisti, letterati e filosofi, leggendo i classici e imparando le lingue. Negli ultimi anni aveva subito una profonda crisi religiosa, s’era fatta terziaria francescana, si comunicava ogni mattina e passava lunghe ore del giorno in preghiera. Se per un certo periodo era vissuta da peccatrice, certamente morì da santa.