Quando cinse la tiara, Giulio aveva sessant’anni ma ne dimostrava parecchi di meno. I ritrattisti contemporanei lo rappresentano aggrottato e maestoso: naso robusto, fronte ampia, occhi scuri e profondi, mascelle dure. Era nato ad Albissola, presso Savona, da un’umile famiglia, ma giovanissimo s’era trasferito a Roma, chiamato dallo zio, il papa Sisto IV, che a ventisette anni lo fece Cardinale.
Amava la vita all’aria aperta, cavalcava, tirava d’arco, era un cacciatore dalla mira infallibile e, da buon ligure, un vogatore instancabile. Imbandiva sontuosi banchetti ai quali intervenivano le più belle dame dell’Urbe. Sebbene fosse di modi rudi e d’approccio brusco, o forse proprio per questo, le donne impazzivano per lui, che impazziva per loro. Ne ebbe moltissime. Una gli diede tre figlie, un’altra una malattia venerea che assieme alla gotta lo tormentò sino alla fine dei suoi giorni. Quando diventò Papa impedì a chiunque di baciargli il piede, deturpato dalla lue, che nel Cinquecento, dopo la scoperta dell’America, era diventata il «male del secolo».
Alcuni storici hanno fatto di Giulio l’antitesi di Alessandro, ma a torto. Se, come uomini, il Della Rovere e il Borgia ebbero poco in comune – il primo era scorbutico e collerico, il secondo gioviale e affabile – come Pontefici mirarono entrambi all’innalzamento della propria famiglia, oltre che della Chiesa. In Alessandro il nepotismo fu più sfacciato, ma anche Giulio non lesinò ai parenti benefici, prebende e privilegi. Tre giorni dopo l’incoronazione convocò un concistoro e nominò Cardinali il nipote Galeotto e il cugino Clemente Grosso. Colmò di favori e di cariche il nipote prediletto Francesco Maria, cui procurò in moglie Eleonora Gonzaga. Anche in politica le idee di Alessandro e di Giulio coincisero. Tutt’e due perseguirono la grandeur della Chiesa e il suo primato temporale: il Borgia lanciando il figlio alla riconquista degli Stati pontifici, Giulio guidandola di persona.
Quando ascese al Soglio cupe nubi s’erano addensate sugli Stati pontifici. Faenza, Rimini e Ravenna erano cadute nelle mani di Venezia, Giovanni Sforza aveva riconquistato Pesaro, i Bentivoglio s’erano reinstallati a Bologna e i Baglioni a Perugia. Per reintegrare nel Patrimonio di San Pietro i territori usurpati ci volevano mezzi e uomini. Giulio non aveva né gli uni né gli altri perché le guerre del duca Valentino avevano prosciugato l’erario. Il Della Rovere lo rinsanguò vendendo cariche e dispensando indulgenze. Ma i nemici erano potenti e per batterli bisognava cercare alleati. Giulio si rivolse alla Francia, che unì i suoi eserciti a quello papalino, composto di quattrocento cavalieri, di alcune centinaia di guardie svizzere, di quattro Cardinali e capeggiato dal Duca di Urbino, Guidobaldo, al cui fianco si pose il Papa stesso a cavallo, munito di corazza e armato di lancia e spada.
All’avvicinarsi delle truppe della lega, Giampaolo Baglioni fu colto dal panico, andò incontro al Pontefice e, dopo esserglisi sottomesso, gli chiese perdono. Giulio gliel’accordò. Poi, in tono minaccioso, gli disse: «Ti assolvo dai tuoi peccati mortali, ma al primo fallo veniale che commetterai, pagherai anche per tutti gli altri». Risposta degna di un guerriero, più che di un Papa. Ma Giulio era più un uomo d’armi che un pastore d’anime. Si mescolava alla truppa, consumava il rancio coi soldati, ne condivideva i disagi e i repentagli, dirigeva le operazioni, presiedeva personalmente alle fortificazioni lanciando moccoli e percuotendo con un nodoso bastone chi contravveniva ai suoi ordini.
Dopo la resa del Baglioni occupò Perugia, quindi puntò su Bologna cingendola d’assedio dalla parte orientale mentre i Francesi la investivano da quella occidentale. Poiché la città non si decideva a capitolare, ne scomunicò i governanti. Poi invitò la popolazione a insorgere offrendo in cambio di ogni testa nemica l’indulgenza plenaria. Ne elargì parecchie e poté entrare trionfalmente in città, issato su una portantina foderata di damasco e tempestata di gemme. Per celebrare la vittoria ordinò a Michelangelo una statua che lo raffigurasse in atteggiamento marziale davanti alla chiesa di San Petronio. Quindi tornò a Roma, dove fu accolto con onori solenni.
Restavano da conquistare Faenza, Rimini e Ravenna. Ma Venezia era un osso assai più duro di Perugia e di Bologna. Possedeva una delle migliori flotte d’Europa, disponeva di eccellenti fanterie e aveva un’abbondante scorta di armi e munizioni. Sfidarne la potenza senza l’appoggio di alleati altrettanto potenti era una follia. Il 10 dicembre 1508 si costituì a Cambrai una lega, alla quale aderirono l’imperatore Massimiliano, il Re di Francia, Luigi XII, quello di Spagna, Ferdinando, e il Papa. Tutti avevano conti aperti con Venezia. Massimiliano era stato privato dalla Repubblica di San Marco, di Gorizia, Pordenone, Trieste e Fiume; Luigi non era soddisfatto della spartizione dell’Italia del Nord, che aveva dato luogo a una violenta lite con la Serenissima; Ferdinando rivendicava alcuni porti pugliesi, tra cui Brindisi e Otranto, che nel 1495 i Dogi avevano strappato al Regno di Napoli. Alla lega partecipò anche Ferrara, allarmata dalle mire espansionistiche di Venezia sulla terraferma.
All’annuncio della coalizione il Senato della Repubblica rispose offrendo la restituzione al Pontefice di Faenza e Rimini. Ma Giulio la rifiutò, anzi rispose addirittura con la scomunica, cui seguì l’invio di un esercito in Romagna. La guerra divampò su più fronti impegnando i Veneziani al Centro e al Nord. Lo scontro decisivo avvenne il 14 maggio 1509 in Lombardia, dove l’esercito della Serenissima si scontrò con quello francese nei pressi di Agnadello riportando una sanguinosa disfatta. In un solo giorno perirono seimila uomini.
La Repubblica richiamò le truppe e abbandonò nelle mani del nemico la Lombardia, la Romagna, la Puglia e una parte del Veneto. Ne profittò Massimiliano per assediare Padova che oppose una strenua resistenza, obbligando l’Imperatore a rinunziare all’impresa e a tornarsene in Germania. Luigi, ottenuta la sua parte di bottino, rivalicò le Alpi. Venezia rinnovò al Papa la precedente offerta, arricchendola di altre cospicue concessioni. Stavolta Giulio, rimasto solo, accettò.
Ma il rafforzamento delle posizioni francesi nella Penisola lo impensieriva: temeva che esse minassero quelle della Chiesa. Con un disinvolto e improvviso voltafaccia capovolse allora le alleanze e si schierò contro la Francia, alla quale era rimasta fedele Ferrara, che dopo le nozze di Lucrezia con Alfonso il Borgia aveva esentato dal pagamento dei tributi alla Chiesa. Il Pontefice si pose nuovamente alla testa dell’esercito e marciò su Mirandola. Dopo due settimane l’espugnò. Poiché fra i difensori c’erano molti Francesi, ordinò di ucciderli tutti, ma poi si pentì e li fece fuggire. Vietò ai soldati di mettere a sacco la città e non avendo denaro sufficiente per pagar loro il soldo mise all’asta otto cardinalati. Da Mirandola raggiunse Bologna, ma dovette fuggirne subito sotto l’incalzare delle truppe di Luigi, che l’obbligarono a riparare a Rimini. Sulle lance francesi i Bentivoglio tornarono al potere, festosamente accolti dalla popolazione, esacerbata dai soprusi pontifici. L’odio per il Papa era tale che la sua statua davanti a San Petronio fu abbattuta e venduta come rottame al Duca d’Este. Questi la fuse e ne fece un cannone, che in scherno al Pontefice fu battezzato «la Giulia». Il Della Rovere scomunicò i Bolognesi e quando apprese che alcuni Cardinali filofrancesi volevano convocare a Pisa un concilio per deporlo tornò a Roma dove annunciò per l’aprile dell’anno successivo una solenne assise ecumenica nel palazzo del Laterano.
Nell’ottobre del 1511 costituì con Spagnoli e Veneziani una lega santa contro la Francia. Fu in quell’occasione che decise di farsi crescere la barba e di non tagliarsela finché i Francesi non fossero stati cacciati dalla Penisola. Mentre era intento a tessere la trama della nuova alleanza s’ammalò. I medici lo diedero per spacciato e i Cardinali si riunirono in conclave per eleggere il successore. Ma grazie alla sua forte fibra e ad abbondanti bevute di vino, ingollato all’insaputa dei sanitari, Giulio superò la crisi e poté attendere nuovamente alla lega, a cui aveva aderito anche l’Inghilterra.
Re Luigi rispose riunendo il Concilio prima a Pisa e poi a Milano. L’11 aprile 1512 l’esercito francese sbaragliò quello nemico e dilagò in Romagna, mentre i Cardinali scismatici dichiaravano deposto il Pontefice. Questi, senza darsene per inteso, inaugurò il 2 maggio il Concilio lateranense e quindici giorni dopo poté trionfalmente annunciare che anche i Tedeschi e gli Svizzeri erano scesi in campo dalla sua parte. Ripetutamente battuti, i Francesi furono costretti a evacuare Milano, Bologna e Ravenna. Ma Giulio non ebbe il tempo di godersi il trionfo. Dopo pochi mesi dovette mettersi di nuovo a letto, e questa volta per non rialzarsi più.
La mattina del 4 febbraio (1513), chiamò il cerimoniere e diede istruzioni sul funerale. Disse che non doveva essere troppo sfarzoso, ma nemmeno scalcagnato come quello di Alessandro. I Cardinali non vedevano l’ora che il Pontefice li liberasse dalla sua incomoda presenza, ma Giulio, nonostante i continui collassi, non si decideva ad accontentarli. Negl’intervalli di lucidità riceveva ambasciatori e prelati, dettava lettere, impartiva ordini. Teneva sotto il letto una bottiglia di malvasia che tracannava di nascosto ai medici, i quali invano tentavano di propinargli i comuni farmaci. Ogni poco faceva capolino nella stanza il confessore, ma Giulio regolarmente lo cacciava bestemmiando e brandendo l’inseparabile bastone. Il 20 febbraio, presagendo la fine, si decise finalmente a ricevere il viatico, quindi chiamò al capezzale i Cardinali e al loro cospetto dichiarò di essere un gran peccatore e di aver malgovernato la Chiesa. Fu il suo ultimo – e unico – gesto di umiltà.
Il cordoglio dei Romani per la sua morte fu sincero. Lo piansero soprattutto i numerosi artisti di cui egli s’era circondato, da Michelangelo a Raffaello, dal Sodoma a Giulio Romano, dal Penni al Peruzzi. Questo Papa bellicoso, rude e prepotente fu infatti uno dei più splendidi e munifici mecenati della Chiesa. Sotto il suo pontificato Roma strappò a Firenze il primato nel campo delle arti figurative e diventò la Mecca dei più insigni pittori, scultori e architetti del Cinquecento. Ma su Giulio II, patrono e impresario di artisti, torneremo nei capitoli dedicati a Michelangelo e a Raffaello, che a questo Papa dovettero la loro fama.