Nel 1366 il Papa aveva sollecitato al Re d’Inghilterra Edoardo III un ennesimo tributo. Queste richieste erano ormai diventate un’abitudine da quando, un secolo e mezzo prima, re Giovanni aveva stabilito la regola di soddisfarle. Ma il suo successore non era altrettanto arrendevole, anche perché egli aveva qualche motivo di dubitare che il suo denaro finisse effettivamente nelle casse della Chiesa.
Questa infatti, come ricorderete, non aveva più la sua sede a Roma, ma ad Avignone, cioè in Francia: un Paese con cui l’Inghilterra era impegnata in una guerra che durava da decenni. E francesi erano i Papi che si succedevano sul Soglio. Non si può dire ch’essi facessero più gl’interessi della Francia che quelli della Chiesa; o per lo meno non si può dirlo di tutti. Ma si può capire che gl’Inglesi lo sospettassero e che perciò temessero di finanziare, attraverso di essi, il loro nemico.
Già nel 1353 Edoardo aveva opposto un primo rifiuto. Ma nel 1366 volle dividerne la responsabilità col parlamento chiamandolo a pronunziarsi sulla questione. Forse egli stesso non capì l’importanza rivoluzionaria di quel gesto. Il caso di un Re che respingeva la richiesta del Papa non era nuovo. Ma fin allora questi dissensi avevano coinvolto solo i due protagonisti. Ora per la prima volta, con l’appello al popolo, veniva mobilitata l’opinione pubblica, e il conflitto fra sovrano temporale e sovrano spirituale si trasformava in un conflitto tra Stato e Chiesa.
Il parlamento inglese avallò l’opinione del Re con uno slancio che avrebbe dovuto mettere sull’avviso la Curia di Avignone. Esso non solo rispose che il denaro dei contribuenti inglesi doveva restare in Inghilterra, ma volle giustificare questa tesi anche sul piano del dogma, e ne affidò l’incarico a un teologo di Oxford, John Wycliff, che si era fatto un nome non solo per la sua dottrina, ma anche per il suo anticonformismo.
Wycliff aveva allora quarantasei anni e, da quando aveva preso i voti, non poteva certo lagnarsi del trattamento che la Chiesa gli aveva fatto. Aveva ricevuto dal Papa vari benefici, cioè la rendita di alcune parrocchie, senza obbligo di risiedervi: il che gli aveva consentito di dedicarsi interamente allo studio e all’insegnamento. Ma questo non aveva scoraggiato la sua indipendenza critica, che rasentava la spregiudicatezza. Non aveva nulla dei mistici ribelli del dodicesimo e tredicesimo secolo, sia di quelli rimasti nei ranghi nella Chiesa come San Francesco, sia di quelli che n’erano usciti come Valdo. Era piuttosto un uomo d’azione, un organizzatore, un guerriero, che sfogava le sue traboccanti energie e il suo spirito pugnace in libri e libelli. Li scriveva in un impervio latino che avrebbe fatto accapponare la pelle al Petrarca. Ma dentro c’erano delle idee che di lì a centocinquant’anni avrebbero dimostrato la loro esplosiva vitalità.
Secondo lui, la Chiesa non era né il Papa né il Clero, ma tutta la comunità cristiana, come del resto era stato nei primi secoli dopo Cristo: quelli dell’apostolato e della fede militante. Il fedele, dice Wycliff, non ha bisogno d’un sacerdote che gli faccia da intermediario col Signore: egli è già in rapporto diretto con Lui, e quindi è il sacerdote di se stesso, anche se non è ordinato e consacrato. Il Signore conosce le sue pecorelle, e ha già deciso quali di esse meritino di essere salvate, e quali dannate. Queste ultime non s’illudano di sottrarsi al loro destino con le preghiere o con le buone azioni. Le buone azioni non servono a procurare la Grazia. Servono solo a dimostrare che vi si è predestinati.
Hanno un valore indicativo, non strumentale. Soltanto Adamo ed Eva erano stati dotati di libero arbitrio, cioè avrebbero potuto determinare, con la propria condotta, la propria sorte. Ma, essendo caduti in peccato, avevano perso questa facoltà per se stessi e per i loro discendenti.
C’è da chiedersi come Wycliff avesse potuto sostenere e diffondere impunemente simili idee. Potremmo citare i nomi di parecchi suoi coetanei che per molto meno erano finiti sul rogo. Se Wycliff non ci aveva rimesso neanche la tonaca e la cattedra, forse lo doveva proprio agli errori di grammatica e di sintassi che lardellavano la sua confusa e lutulenta prosa latina e la rendevano oscura al lettore. Ma furono gli avvenimenti a chiarirne il significato.
Chiamato in servizio dallo Stato per motivare sul piano teologico il rifiuto del Re e del parlamento, Wycliff sostenne in un trattato che il Signore, imponendo ai suoi Apostoli l’obbligo della povertà, aveva inteso condannare la ricchezza come una condizione del peccato. La Chiesa quindi non può pretendere tributi; e se li pretende, perde ogni diritto al suo magistero e all’amministrazione dei sacramenti. Anzi, in un mondo veramente cristiano, ogni forma di proprietà dovrebb’essere abolita. Dio è l’unico vero legittimo proprietario. Di tutto. Solo ai predestinati alla Grazia è concesso «amministrare» qualche briciola di questo patrimonio.
Le ultime proposizioni introducevano nel discorso teologico una venatura politica, a mezza strada fra l’anarchismo e il comunismo, che più tardi sarebbe risultata fatale a Wycliff e alla sua causa. Ma in quel momento il partito anticlericale, capeggiato a Corte da John Gaunt, trovò comodo adottare la dottrina del teologo e fece di lui il proprio campione, invitandolo a sostenere anche il diritto dello Stato a confiscare i beni della Chiesa. Wycliff consentì, e spalleggiò quel progetto in una serie di prediche che ottennero il più vivo successo popolare.
La minaccia concreta ai loro benefici, stipendi e rendite sollevò l’indignazione dell’alto Clero inglese, mostratosi così tollerante nei confronti delle teorie, per quanto eretiche, di Wycliff. Questi fu convocato da un concilio di Vescovi riunito nella chiesa di San Paolo, ma vi si presentò accompagnato da Gaunt coi suoi armigeri. La discussione degenerò in un tafferuglio che indusse i prelati a rimandare ogni decisione. Ma essi spedirono al Papa un rapporto in cui venivano testualmente riferite le tesi del reprobo. Il Papa lo condannò con una «bolla», e ordinò all’arcivescovo Sudbury e al vescovo Courtenay di arrestare il «deviazionista» in attesa di ulteriori istruzioni.
Ma a questo punto in favore di Wycliff scattò quella seconda «cittadinanza» con cui la Chiesa non era abituata a fare i conti. Per arrestarlo, ci volevano i gendarmi; i gendarmi erano al servizio dello Stato; e lo Stato era solidale con Wycliff. Il parlamento che proprio allora si riuniva mostrò la più viva simpatia per la confisca dei beni della Chiesa che il teologo aveva caldeggiato, specie quando seppe ch’essi ammontavano a una buona metà del patrimonio nazionale. Wycliff, ancora una volta sollecitato a esprimere il suo parere, rispose: «Il Reame d’Inghilterra, secondo le parole della Scrittura, dev’essere considerato un corpo, di cui l’aristocrazia, il Clero e il popolo sono le membra». Era come dire che anche il clero apparteneva al Reame, non alla Chiesa, cioè doveva essere – come oggi diremmo – «nazionalizzato» con tutt’i suoi beni. Centocinquant’anni dopo riudremo quasi le stesse parole in bocca a Enrico VIII per giustificare la definitiva separazione della Chiesa d’Inghilterra da quella di Roma.
I prelati risposero pubblicando la bolla e ordinando al rettore dell’Università di Oxford di procedere all’arresto del ribelle secondo gli ordini del Papa. Ma essi avevano dimenticato che già da quasi cinquant’anni quell’Università aveva risolto il conflitto fra le due cittadinanze optando per quella dello Stato e dichiarandosi indipendente dalla Chiesa. La maggioranza degl’insegnanti si pronunciò contro le idee di Wycliff, ma a favore del suo diritto di esprimerle e di sostenerle. Il rettore si rifiutò di arrestarlo e si limitò a consigliargli di tenersi per un certo tempo in disparte.
Nel 1378 Wycliff fu convocato da un’altra assemblea di Vescovi, e stavolta vi si presentò solo, da uomo sicuro del fatto suo. Infatti sul più bello del dibattito la folla sfondò le porte e irruppe nell’aula urlando che in Inghilterra non c’era posto per l’Inquisizione e i suoi metodi. I Vescovi impauriti rimandarono ancora una volta ogni decisione, e subito dopo furono ridotti all’impotenza dallo scisma del Papato che praticamente li privava di sostegno e direttive. Wycliff ne approfittò per comporre e diffondere diecine e diecine di libelli in cui, oltre che al suo pensiero, diede fondo ai suoi polemici umori. Chiamò il Papa «la bestia dell’Apocalisse» e paragonò i conventi ad «allevamenti di ladri» e a «nidi di serpenti». Denunziò la rapacità e la lussuria dei preti «seduttori di ragazze, di vedove, di spose e perfino di monache» e propose che i loro delitti venissero perseguiti dai tribunali laici. Ma queste scompostezze anticlericali e grossolanità di linguaggio non erano che l’involucro di una problematica che andava molto al di là del pretesto che le ispirava.
Per il suo bene, dice Wycliff, la Chiesa deve rinunciare non solo a ogni materiale possesso, ma anche a ogni potere. Essa cade in peccato mortale quando pretende di dominare gli Stati. Questo diritto spetta solo al Re che ne risponde direttamente a Dio, dal quale deriva la sua investitura. Perciò al Re spetta anche ordinare i preti che gli debbono obbedienza come tutti gli altri sudditi. Questi preti sono tenuti soltanto a una vita di preghiera e a un esempio di carità. Il fedele, essendo anche lui in rapporto diretto con Dio, non ha bisogno di loro nemmeno per la confessione che, caso mai, dovrebb’essere pubblica come lo era presso i primi Cristiani. Quanto all’assoluzione, anche un laico può darla, purché sia puro e in stato di Grazia. Mentre i sacramenti amministrati da un sacerdote in stato di peccato sono invalidi.
Un’altra pretesa a cui la Chiesa deve rinunziare è quella di trasformare nel corpo e nel sangue di Cristo il pane e il vino dell’Eucarestia. Questo «miracolo» non è, secondo Wycliff, che un abominevole sortilegio. Si capisce, egli dice, che Cristo è presente. Lo è sempre, in tutto ciò che si fa. Ma non sono il pane e il vino che si transustanziano in Lui per il potere carismatico di un prete magari predestinato alla dannazione.
Questo punto, che intaccava uno dei dogmi fondamentali della Chiesa, allarmò gli stessi sostenitori di Wycliff. Gaunt si precipitò da lui per indurlo a ritrattarsi sulla faccenda dell’Eucarestia, ma l’irriducibile teologo respinse il consiglio, e anzi ribadì le sue opinioni in una confessione ancora più polemica. Per sua disgrazia proprio in quel momento scoppiava una rivoluzione nella quale egli si trovò involontariamente coinvolto. I ribelli presero sul serio le sue teorie sull’abolizione del diritto di proprietà e pretesero di applicarle. Invano egli cercò di separare le proprie responsabilità da quelle loro dichiarando che il suo era soltanto un ideale religioso. Il nuovo re Riccardo II, cui quella rivoluzione per poco non era costata la vita e il trono, una volta che l’ebbe domata, ordinò al rettore di Oxford di espellere Wycliff.
Questi tuttavia non subì altre persecuzioni e poté continuare a scrivere libri e libelli: non più nel suo cattivo latino, ma in un robusto, popolaresco, gorgogliante inglese, che ancora meglio si prestava alla sua vocazione polemica. Il successo che riscosse lo spinse a intraprendere anche la traduzione della Bibbia per darla ai fedeli come l’unico infallibile régolo della loro condotta. Anche questo era un attentato ai privilegi della Chiesa che aveva sempre combattuto le versioni dei Sacri Testi in lingua volgare per riservare a se stessa il monopolio dell’interpretazione.
Mentre attendeva al suo lavoro, il Papa lo convocò a Roma. Ma la morte non gli dette il tempo di disobbedire. Tutto ciò ch’egli aveva intrapreso era rimasto incompiuto. Ma nulla era destinato ad andare perso. Senza la rivoluzione che aveva spinto il Re e le classi privilegiate a far causa comune con l’alto Clero, forse l’Inghilterra si sarebbe staccata dalla Chiesa con un secolo e mezzo di anticipo. Ma Wycliff gliene aveva comunque spianato la strada. Nella sua teologia sono anticipati molti elementi della Riforma: la predestinazione, il rifiuto della transustanziazione nell’Eucarestia, la negazione del prete come insostituibile intermediario fra Dio e il fedele; e infine – decisivo elemento di vittoria – l’affermazione della illimitata sovranità dello Stato laico nel campo temporale, il suo diritto di sottrarsi ai tributi e di nominare i suoi Vescovi.
Era chiaro che d’ora in poi i ribelli della Chiesa potevano contare sull’appoggio dello Stato, almeno nei Paesi in cui uno Stato cominciava a nascere. La scomunica non li rendeva «apolidi». Ormai potevano sfidarla.