CAPITOLO UNDICESIMO

WITTENBERG, 1517

Il grande dramma della coscienza cristiana prese avvio da un futile pretesto.

A Roma sedeva sul Soglio Leone X, il figlio di Lorenzo de’ Medici, non meno Magnifico di suo padre. Abbiamo già detto che, cresciuto fra gli sfarzi e le raffinatezze della Firenze quattrocentesca, egli possedeva le migliori qualità del Signore rinascimentale: la cultura, il gusto, il mecenatismo, la tolleranza. Avendo ereditato dal suo predecessore Giulio II una cassaforte piena di soldi, non aveva esitato ad attingervi generosamente per restituire all’Urbe il suo rango di caput mundi. Venne il momento in cui le casse furono in secco. E per rifornirle, il Papa ricorse al tradizionale sistema collaudato nei secoli. Il 15 marzo 1517 promulgò l’«indulgenza», cioè invitò tutti i fedeli a riscattare i propri peccati con un’offerta di denaro.

Nessuno dei suoi consiglieri cercò di dissuaderlo. La Curia romana aveva sempre risolto, in caso di bisogno, i suoi problemi finanziari imponendo quella specie di pedaggio per l’accesso al paradiso. Gli unici che facevano opposizione, o almeno mostravano un certo malumore, erano i Re stranieri, scontenti di vedere il denaro dei loro sudditi prendere la via di Roma. Ma Leone, figlio di banchiere, aveva già provveduto ad assicurarsene l’appoggio, garantendo loro una partecipazione agli utili dell’operazione. Enrico VIII d’Inghilterra era autorizzato a trattenere un quarto della somma raccolta; circa altrettanto veniva concesso a Francesco I di Francia; e quanto a Carlo I di Spagna (quello che di lì a poco sarebbe diventato l’imperatore Carlo V), che annaspava fra gravi angustie di bilancio, fu tacitato con un anticipo di centosettantacinquemila ducati sul gettito del suo Paese.

Alla Germania fu riservato un trattamento meno generoso perché non c’era un potere centrale che potesse negoziarlo. L’imperatore Massimiliano, come tutti gl’Imperatori, contava poco malgrado la solennità del titolo – non ereditario, ma elettivo –, e quindi ebbe soltanto una mancia di tremila fiorini. Più laborioso fu l’accordo con la potente dinastia dei banchieri Fugger, che praticamente avevano in mano il portafoglio del Paese. Essi però avevano in precedenza prestato ventimila fiorini al principe Alberto di Brandeburgo, il quale li aveva versati al Papa per ottenerne l’investitura all’Arcivescovato di Magonza. Leone accettò che Alberto restituisse ai suoi finanziatori quella somma sul gettito dell’indulgenza, e per dargli il modo di raggranellarla gli affidò la raccolta degli oboli delle tre diocesi di Magonza, Magdeburgo e Halberstadt.

Come suo agente e collettore, Alberto nominò un frate domenicano, Giovanni Tetzel, che in quel genere d’incarichi si era già distinto. Era un piazzista pieno d’entusiasmo per il prodotto che doveva smerciare: la Grazia. E per reclamizzarlo aveva dato prova di un autentico genio pubblicitario. Dovunque andasse, con l’aiuto del Clero locale, si faceva accogliere da folle plaudenti che lo scortavano con canti e bandiere. Mostrando la bolla dell’indulgenza posata su un cuscino di velluto, egli ne decantava agli astanti le virtù redentrici. Dice un grande storico cattolico, il Pastor, che non può essere sospettato di simpatie protestanti: «Non c’è dubbio che Tetzel spacciava per dottrina cristiana l’assicurazione che un’offerta di denaro bastava a lavare il peccato, anche senza bisogno di confessione e di pentimento. Egli anche insegnava, secondo l’opinione corrente, che l’indulgenza era valida contro qualunque peccato. Partendo da questa premessa, Tetzel dava corpo al proverbio popolare: Appena il quattrino in cassa tinnisce – dal purgatorio l’anima fiorisce». E il francescano Miconio, forse anche per antipatia verso i domenicani, dopo aver udito Tetzel, osservò: «È incredibile cosa può dire quel monaco ignorante. Secondo lui, il Papa ha più potere degli Apostoli e dei Santi, e forse anche della Madonna».

Tuttavia, per quanto ignorante, Tetzel non lo era più di tanti altri monaci, che propagandavano l’indulgenza pressappoco allo stesso modo. E quindi la storia non avrebbe avuto alcun motivo di accoglierlo fra i suoi protagonisti, e nemmeno fra i suoi comprimari, se il caso non gli avesse assegnato, come collegio elettorale, anche la Sassonia.

Questa regione, in seguito a una complicata eredità, era stata divisa in due province: quella albertina, sotto la signoria del duca Alberto di Wettin, e quella ernestina, sotto la signoria di suo fratello Federico. Quest’ultimo era un Principe saggio e moderato in tutto fuorché nella pietà, che sconfinava addirittura nella bacchettoneria. Aveva dilapidato il suo patrimonio per incettare reliquie di Santi, delle quali in tutto il mondo si seguitava a fare indegno mercato fin dai tempi dei secoli bui, e a collezionarne migliaia nelle sue chiese. Era uno dei pochi signori che non si opponevano alle indulgenze, trovandole del tutto giustificate. Anzi, si era servito proprio di Tetzel per caldeggiare quella bandita sedici anni prima dal papa Borgia per finanziare una crociata contro i Turchi. Ma siccome poi la crociata non si era fatta, Federico si era rifiutato di versare i soldi a Roma e li aveva destinati invece al potenziamento dell’Università di Wittenberg. Ne era derivata fra lui e il Vaticano una piccola «guerra fredda» che ora induceva questo Principe devoto, ma ostinato, a proibire l’ingresso di Tetzel nei suoi domini.

Tuttavia a Wittenberg essendosi saputo che il frate si aggirava nei paraggi, molti sconfinarono per raggiungerlo e procurarsi l’indulgenza, eppoi tornarono col loro bravo certificato di assoluzione. Ma non tutti gli acquirenti erano persuasi della sua validità. Qualcuno, dubitandone, andò a mostrarlo a un professore di teologia, che allora andava per la maggiore: Martin Lutero. Costui non volle pronunciarsi né rilasciare perizie. Il suo rifiuto giunse all’orecchio di Tetzel. E questi lo denunziò all’Arcivescovo per indisciplina e ribellione.

Lungi dallo sgomentarsene, Lutero si preparò a difendere i suoi punti di vista. Li riassunse in una Disputatio pro declaratione virtutis indulgentiarum, disputa sul potere delle indulgenze, divisa in novantacinque Tesi o capitoli. E il 31 ottobre (o forse il 1° novembre: la data è incerta) di quell’anno 1517 li affisse sulla porta della chiesa del castello in modo che tutti ne prendessero visione. Così almeno dice la maggioranza degli storici. Ma secondo altri, le Tesi non furono affisse, ma mandate in lettura ai Vescovi tedeschi.

Comunque, il gesto non aveva in sé nulla di rivoluzionario. L’affissione delle tesi era un vecchio uso delle università medievali, che se ne servivano per richiamare l’attenzione della gente su qualche dibattito di particolare importanza. E anche il contenuto non implicava atteggiamenti di rivolta e di eresia.

Lutero diceva che la corrività con cui si concedeva il perdono sminuiva il peccato facendone materia di facili e disinvolti compromessi, e andava a tutto scapito della contrizione e della penitenza. Egli non negava la facoltà del Papa di amnistiare il peccatore dai castighi inflittigli dal sacerdote; ma quanto a quelli inflitti dal Signore a base di soggiorni in purgatorio, Lutero ne faceva dipendere la grazia non dal potere discrezionale del Papa, ma da quello d’intercessione delle sue preghiere, le quali potevano essere accolte, ma anche respinte, dall’Onnipotente. Tutti i Cristiani, egli dice, possono beneficiare della Redenzione pagata da Gesù, per conto di tutti, col suo martirio, anche senza bisogno di una «raccomandazione» papale. Tuttavia, egli aggiunge, il Sommo Pontefice non può essere tenuto responsabile delle assurde pretese che gli attribuiscono i suoi predicatori, alterandone la parola e le intenzioni. Costoro, con la loro frenetica inflazione di perdoni, finiscono per discreditare lo stesso Papa esponendolo senza difesa alla insidiosa domanda dei miscredenti: «Perché dunque non svuota il Purgatorio redimendone in blocco le anime penitenti in nome dell’Amore predicato da Cristo, questo Papa che ha il potere di farlo per una miserabile manciata di quattrini?»

Lutero diceva però di voler discutere questi problemi per amore della fede e col proposito di renderne più chiari i precetti. Anzi, per evitare che sorgessero equivoci e malintesi sulla loro interpretazione fra la gente poco esperta di latino, tradusse le Tesi in tedesco e diede al documento la più ampia diffusione fra i tremila abitanti di Wittenberg. Ne mandò una copia anche all’arcivescovo Alberto di Magonza. E il gesto ci dimostra quanto fosse lontano dal prevedere le conseguenze della sua polemica.

Questa infatti rimase per il momento circoscritta fra lui e Tetzel, che replicò alle Tesi con un documento intitolato Centosei Antitesi. Ma quando un suo emissario venne a diffonderne il testo fra gli studenti di Wittenberg, costoro lo malmenarono e bruciarono tutta la sua mercanzia. Lutero disapprovò la violenza con parole che tuttavia tradivano il suo compiacimento, e confutò le accuse del suo avversario con un Sermone sulle indulgenze e la Grazia che terminava con queste parole di sfida: «Finché a tacciarmi di eresia sono coloro che dalle mie verità vedono minacciate le loro borse, non me ne curo: la loro reazione deriva soltanto dal fatto che non conoscono la Bibbia».

Ma questa replica ebbe una tale eco in tutta la Germania, che alcuni grossi calibri della Chiesa si videro indotti a intervenire. Silvestro Prierias pubblicò a Roma un Dialogo che rabbiosamente ribadiva l’assoluto primato del Papa e la validità delle sue indulgenze. E Giovanni Eck, vicerettore dell’Università di Ingolstadt, compose un Obelisci che additava in Lutero uno spacciatore del «veleno boemo», cioè un propagandista delle eresie di Huss.

Lutero ribatté con un opuscolo in latino, Resolutiones, dal tono piuttosto aspro, ma che ancora una volta scagionava il Papa e lo escludeva dalla diatriba, anzi ne tesseva l’elogio. «Ora che finalmente abbiamo un eccellente Pontefice come Leone X, la cui integrità e sapienza fanno la delizia di tutte le persone dabbene…» E con suprema abilità aggiungeva: «In un periodo arruffato e corrotto come quello attuale, degno soltanto di Papi come Giulio II e Alessandro VI…» Ancora più riguardosa era la lettera che scrisse direttamente a Leone mandandogli copia del suo opuscolo: «Beatissimo Padre, mi offro prostrato ai piedi della Vostra Santità, con tutto ciò che io sono ed ho. Approvatemi o disapprovatemi, chiamatemi o respingetemi, come più Vi sembra giusto: io riconoscerò la Vostra voce come la voce di Cristo, e non mi ci sottrarrò».

Il Papa lo prese in parola e lo convocò a Roma. Molto probabilmente non aveva nessuna intenzione di fargli fare la fine di Huss perché quei metodi ripugnavano non solo alla sua umanità, ma anche alla sua intelligenza. Ma Lutero riflettè che un uomo si poteva uccidere anche senza rogo, per esempio nominandolo abate di un bel monastero dell’Urbe e lasciandovelo funghire per il resto dei suoi giorni. Tuttavia anche il rifiuto di presentarsi era un gesto d’insubordinazione che implicava una confessione di colpevolezza. Prima di decidersi, scrisse a Giorgio Spalatino, cappellano del duca Federico, perché si facesse promotore di un atto che tutt’i Principi tedeschi avrebbero dovuto sottoscrivere per garantire i loro sudditi da eventuali estradizioni in Italia su richiesta della Chiesa.

Era l’appello allo Stato: uno Stato che in Germania s’identificava col Land, cioè con la regione, invece che con la Nazione; ma che già tendeva all’assolutismo. Federico accolse la richiesta e la inoltrò all’imperatore Massimiliano perché l’avallasse in nome di tutta la Germania. Massimiliano probabilmente non ne comprese l’importanza. Ma pensò che Lutero poteva diventare una buona carta nel suo giuoco diplomatico con Roma. E rispose a Federico approvando la sua decisione e consigliandogli di «prendersi buona cura di quel monaco».

Così il conflitto uscì dall’ambito personale per investire i rapporti fra Stato e Chiesa. Ma prima d’inoltrarci nella sua vicenda, cerchiamo di capire chi era l’uomo che ne assumeva la parte di protagonista e per quali circostanze politiche, economiche, sociali, oltre che spirituali, poté condurla in porto.