Primogenito di una nidiata di sette fratelli, Martin Lutero era nato a Eisleben nel 1483. Suo padre Hans era un ex contadino fattosi minatore: un uomo severo, duro, collerico, avaro e furiosamente anticlericale. Sua madre Grete era al contrario tutta casa e chiesa. Ma in comune col marito aveva un’incrollabile fede nell’efficacia pedagogica della frusta. Martino più tardi confessò di avere a un certo momento odiato i suoi genitori per via delle busse che ne riceveva. E in quest’odio alcuni suoi biografi inclini alla psicanalisi hanno creduto di ravvisare il trauma infantile che avrebbe originato la sua rivolta contro la Chiesa: nel suo subconscio egli «trasferì» il padre nel Papa e ne fece l’oggetto di un inestinguibile rancore.
È una tesi su cui non ci sentiamo di pronunciarci. Ma è comunque molto probabile che la prima immagine ch’egli si raffigurò di Dio – e se la raffigurò abbastanza presto – riflettesse in qualche modo quella che col loro esempio gli avevano suggerito i genitori: non un tenero Padre disposto al perdono, ma uno spietato Giudice più largo di passaporti per l’inferno che per il paradiso. Il ragazzo era cresciuto a una stretta dieta di digiuni e penitenze. Hans aveva tenuto la famiglia a stecchetto anche dopo esser diventato un facoltoso mercante perché secondo lui la ricchezza non consisteva nei soldi che si guadagnano, ma in quelli che non si spendono. Tuttavia i successi scolastici di Martino lo indussero a fargli continuare gli studi dapprima a Magdeburgo, e poi a Eisenach.
Per la prima volta a quattordici anni, il ragazzo conobbe la tenerezza. Gliela prodigò Frau Cotta, la materna affittacamere da cui l’avevano messo a dozzina. Essa soleva ripetere che in questo mondo l’unica felicità consentita all’uomo è una buona moglie, e lo dimostrava con le sue sollecitudini. Su quell’insegnamento Martino rifletté fino a quarantadue anni. Ma poi lo mise in pratica.
Anche i risultati dei suoi studi secondari furono così brillanti, che Hans decise di allargare la borsa e lo mandò all’università a Erfurt. La sua ambizione era di fare di quel promettente rampollo un avvocato, e probabilmente Martino finse di assecondarla per evitare il ritorno in famiglia. I suoi condiscepoli lo ricordarono in seguito come un compagno socievole e spensierato, per nulla allergico alle ribotte, sempre pronto a unire la sua voce baritonalmente aggraziata ai cori goliardici accompagnandosi sul liuto. Ma non altrettanto soddisfatti erano i suoi professori. L’insegnamento a quei tempi era ancora interamente basato sulla teologia, cioè su quel miscuglio di Vangelo e di logica aristotelica che si chiama «Scolastica». Lutero lo trovò indigeribile. Ma non meno disgustato fu dagli umanisti che volevano instillargli il culto di Virgilio e di Cicerone, cui il ragazzo preferiva la rozza prosa di Tertulliano. Tuttavia perfezionò il suo latino, imparò anche un po’ di greco e di ebraico. E questo gli bastò per conseguire il suo bravo titolo di «Maestro delle Arti» o, come oggi diremmo, di «Dottore». Suo padre ne fu a tal punto inorgoglito che in premio gli mandò una costosa edizione del Corpus Juris, convinto che suo figlio ne avrebbe fatto una miniera di «parcelle». L’irascibile uomo rischiò un travaso di bile quando seppe che l’ingrato aveva fatto un solo fagotto di quel prezioso libro, del certificato di laurea e dei suoi abiti civili per chiedere ospitalità nel convento degli agostiniani di Erfurt e prendere il saio.
I biografi di Lutero attribuiscono quella brusca decisione a un temporale. Fino a quel momento Martino era stato un ragazzo come tutti gli altri, che sembrava accettare, senza farne un dramma di coscienza, le debolezze di cui tutti siamo impastati. Vigoroso, sanguigno e sensuale, probabilmente aveva avuto le normali esperienze dei giovani della sua età, sebbene alcuni suoi biografi lo neghino. È probabile che il peccato gli procurasse rimorso. Ma nemmeno il rimorso lo tratteneva dal peccato. Un giorno però che da casa sua tornava a Erfurt, fu sorpreso dalla tempesta e quasi investito da un fulmine che si schiantò a pochi passi da lui. Egli ci vide un ammonimento del tutto in carattere col terribile e vendicativo Dio di cui suo padre gli aveva suggerito il modello. E colto dal terrore, fece voto di obbedire al richiamo, chiudendosi nel chiostro.
È una versione a cui possiamo credere, purché non se ne forzi il significato. È probabile che il fulmine abbia provocato in Martino una brusca resipiscenza. Ma questa sarebbe venuta anche senza il fulmine. S’egli ci vide un segno di Dio, è perché un segno lo aspettava. Il ragazzo, contrariamente alle apparenze, doveva essere tormentato e inquieto, scontento di sé e ansioso di riscattarsi. Fu infatti con giubilo che, arrivato a destinazione, invitò i suoi amici al festino di addio, per l’ultima volta bevve e cantò con loro, e infine annunciò la sua decisione.
Il convento che aveva scelto era dei più rigorosi. Ma il novizio fu ancora più rigoroso del convento. Spesso gli altri monaci lo trovavano riverso sul piancito della sua gelida cella, sopraffatto dai digiuni e dalle flagellazioni che s’infliggeva, forse per sfuggire alla tentazione dell’onanismo come Sant’Antonio. Reclamava per sé i servizi più umili e le penitenze più dure dicendo che solo così poteva riparare le sue colpe. Invano i suoi compagni cercavano di persuaderlo che Cristo col suo martirio aveva già saldato il conto per tutti. Alla fine, per metterlo al riparo da quegli eccessi masochisti, gli abbreviarono il noviziato. Nel settembre del 1506 egli prese i voti di povertà, castità e obbedienza; e nel maggio successivo fu ordinato prete.
La nuova condizione sembrò rappacificarlo con se stesso e gli permise di riprendere gli studi. Ma ancora una volta rifiutò di tuffarsi nella teologia, cui preferì la lettura dei mistici tedeschi. Un giorno gli capitò fra le mani un testo di Huss, chissà come scampato alla distruzione ordinata dalla Chiesa, e ne rimase profondamente scosso. «Chiusi il libro sentendomi ferito nell’anima all’idea che un uomo capace di scrivere con tanta passione cristiana avesse potuto essere bruciato come eretico.» Se ne confidò col Vicario provinciale dell’Ordine, Staupitz, che molto paternamente cercò di placare il suo turbamento e gli dette da leggere Sant’Agostino. Ma invano. Le parole di Huss gli tornavano con insistenza alla memoria, e specialmente quelle sulla predestinazione. Scorrendo le lettere di San Paolo ai Romani aveva trovato un passaggio che sembrava confermare quella tesi: «È grazie alla fede che il giusto sopravvivrà». Dunque, argomentava Lutero, non sono né le buone azioni né le preghiere che fanno da viatico alla Grazia. È la fede: quella fede che solo Dio può dare. Egli ha scelto, nel suo gregge, le pecore da salvare e quelle da dannare, come dice Huss.
Staupitz, cui Lutero seguitava a confidare questi suoi tormenti, finì per allarmarsene e lo fece trasferire a Wittenberg, sperando che il nuovo ambiente servisse a distrarlo. Il cambio non piacque al monaco che trovò la città «un povero, insignificante villaggio con piccole, vecchie, brutte case di legno» e i suoi tremila abitanti «rozzi, ignoranti, ubriaconi». Era lontano le mille miglia dall’immaginare che quella sarebbe stata la sua Medina.
Nel 1510 i conventi agostiniani lo mandarono a Roma insieme a un altro monaco per risolvere una complicata bega coi confratelli di Sassonia. Alla vista della città, cadde in ginocchio, levò le braccia al cielo e gridò: «Salute a te, santa Roma!» Per giorni e giorni visse ramingando, in stato di rapimento, fra chiese e fori, salì in ginocchio la Scala Santa, e fece una tale collezione di indulgenze che a un certo punto si sorprese a desiderare che i suoi genitori fossero già morti per poterli riscattare dal purgatorio. I monumenti della Rinascenza con le loro doviziose architetture, sculture e affreschi non lo interessarono. Ma non risulta che almeno lì per lì lo scandalizzassero. Solo dieci anni dopo, quando ormai era impegnato nella sua mortale lotta, ricordando quel viaggio, disse che Roma gli era parsa «un abominio», descrisse i Papi come satrapi da basso Impero e raccontò ch’essi si facevano servire il pranzo «da dozzine di ragazze nude». Probabilmente erano storie raccattate dalla bocca del popolino di Trastevere perché non risulta che avesse frequentato gli ambienti della Curia. E sul momento non ci aveva creduto. Vi prestò fede solo quando gli convenne per ragioni polemiche.
Il fatto stesso che, appena tornato, fu promosso Vicario provinciale e incaricato di tenere un corso sulle Scritture dimostra che non aveva offerto pretesti a dubbi sul suo zelo; né era uomo da tenersi in corpo l’indignazione, se ne avesse covata. Il suo distacco dalle dottrine ufficiali della Chiesa ebbe tutt’altra origine, avvenne per gradi, e forse sulle prime egli stesso non se ne rese conto. Quanto ai suoi superiori e confratelli, cominciarono a nutrire qualche inquietudine solo quando lo videro pubblicare, col titolo di Theologia germanica, un anonimo manoscritto tedesco da lui trovato in fondo a un archivio. All’orecchio dei cattolici ortodossi quel germanica suonava male: di teologia ce n’era una sola, che non si prestava alle nazionalizzazioni.
Ma, anche se glielo fecero osservare, Lutero non se ne curò. Nelle sue lezioni egli parlava apertamente della fede come dell’unica condizione per la salvezza dell’anima, attribuiva i vizi e la corruzione della società a quelli del Clero, e accusava i piazzisti d’indulgenze di approfittare della dabbenaggine del popolo. Forse fin d’allora sarebbe incappato in qualche guaio disciplinare, se a far da diversivo non fosse sopravvenuta una tremenda epidemia di peste. In quell’occasione la condotta dell’irrequieto monaco fu esemplare per coraggio e slancio cristiano. Quando alla fine il flagello dileguò, il duca Giorgio della Sassonia albertina invitò Lutero a tenere un ciclo di prediche a Dresda. Lutero ne approfittò per esporre la sua teoria sulla Grazia e la dannazione, cioè sulla predestinazione. Il Duca ne fu turbato: non perché ci vedesse un attentato al dogma, di cui probabilmente nulla sapeva e poco gl’importava; ma perché, dal suo punto di vista di sovrano temporale, gli parve pericoloso insegnare ai suoi sudditi che la salvezza della loro anima non dipendeva dalla loro buona condotta.
Ma in quel momento Tetzel era già in viaggio col suo carico d’indulgenze, che avrebbe scatenato la famosa polemica fra i due monaci. E ora vediamo perché essa stava per avere lì in Germania tanta risonanza.