CAPITOLO QUATTORDICESIMO

LA SCOMUNICA

Papa Leone era rimasto contrariato dal rifiuto di Lutero di presentarsi a Roma, ma non gli aveva attribuito molta importanza. Problemi molto più gravi lo assillavano. Voleva lanciare una crociata contro i Turchi, e per finanziarla aveva proposto all’Imperatore d’imporre ai suoi sudditi una nuova tassa sul reddito del dieci per cento per il Clero e del dodici per i laici.

Massimiliano convocò la Dieta per sentirne il parere. E la Dieta non solo rifiutò, ma colse il pretesto per stigmatizzare nei termini più aspri e risoluti il sistematico «saccheggio» che la Curia romana operava sulle finanze tedesche adducendo a pretesto Dio e la religione, ma in realtà – disse – al solo scopo d’ingrassare i preti italiani. Questo diniego non era nuovo, ma non si era mai espresso in forma tanto categorica e irriguardosa. Nel riferirne al Papa, l’Imperatore consigliò la massima cautela, anche per quanto riguardava le eventuali sanzioni contro Lutero, che sulle decisioni della Dieta non aveva influito direttamente; ma indirettamente, sì.

Leone accolse il suggerimento. Dispensò il ribelle dal venire a Roma, purché si presentasse ad Augusta presso il Legato pontificio, cardinale Caetano. A costui diede istruzioni di cercare un accordo col monaco, offrendogli pieno perdono e allettanti promozioni se riconosceva il proprio errore e lo ritrattava, ma facendogli anche capire che, se si ostinava, Roma avrebbe chiesto alle autorità temporali la sua estradizione. E per dare corpo, alla minaccia, cominciò subito a circuire il pio duca Federico, dal quale la sorte di Lutero direttamente dipendeva, promettendogli la più alta di tutte le decorazioni ecclesiastiche, la Rosa d’Oro, che quel Principe sospirava da tempo.

Lutero si presentò ad Augusta il 12 ottobre (del 1518), munito di un salvacondotto imperiale. E si trovò di fronte a un prelato che brillava più per austerità di vita e profondità di cultura che per diplomazia. Assumendo, in contrasto con le istruzioni ricevute, atteggiamenti inquisitoriali, egli si rifiutò di discutere le idee del monaco. Si limitò a contestargli con aspre parole il diritto di criticare le decisioni della gerarchia, e specialmente del Papa. E per concludere gl’ingiunse di riconoscersi colpevole d’insubordinazione.

Fu un marchiano errore psicologico. Portata sul piano della teologia, la discussione avrebbe anche potuto recare qualche frutto. Ma il fatto che il Caetano non volesse nemmeno intavolarla come se non ne considerasse all’altezza il suo interlocutore solo perché era soltanto un povero monaco, ferì a morte l’orgoglio di Lutero, che di orgoglio traboccava (anche se nei suoi scritti e discorsi si sciolgono molti inni all’umiltà). Il colloquio si arenò bruscamente. Ripreso due volte nei giorni successivi, servì soltanto a irrigidire vieppiù le opposte posizioni. E si concluse con un fiasco.

Lutero si affrettò a informarne la pubblica opinione con un riassunto dei colloqui, non sappiamo quanto esatto, ma che ebbe una larghissima diffusione e provocò una vasta eco. Nel mandarne copia al suo amico Wenzel, gli scrisse: «Da tutto questo potete vedere se ho o no il diritto di pensare che a tenere la Corte di Roma sotto la sua spada è l’Anticristo in persona. Io lo considero peggiore di qualsiasi Turco». E in un’altra lettera al duca Giorgio di Sassonia, di cui era stato ospite a Dresda, suggerì «una riforma che finalmente segni in maniera chiara il limite fra il potere temporale e quello spirituale». Era la prima volta ch’egli usava questa parola «Riforma», cui la Storia avrebbe intestato la sua ribellione.

Leone seguitava a considerare quella faccenda «un pettegolezzo di monaci». Cominciò a rendersi conto della sua gravità solo quando il Caetano riferì in un secondo rapporto che il duca Federico si rifiutava di estradare Lutero a Roma. E allora cercò di correre ai ripari. In una «bolla», che rappresentava un’implicita ritrattazione, affermò che le indulgenze non riscattavano il peccato e la colpa, ma valevano soltanto per le penitenze inflitte dalla Chiesa. Per quanto riguardava la liberazione dal purgatorio, riconobbe che il Papa poteva influirvi soltanto con le sue preghiere. Era esattamente quello che aveva sostenuto Lutero, di cui non si faceva il nome, ma di cui si ratificavano le tesi.

Insieme a questo documento, Leone spedì in Germania un giovane nobile tedesco, che faceva in Curia il suo noviziato negli ordini minori, Carlo von Miltitz, per consegnare la Rosa d’Oro a Federico e riprendere i colloqui col ribelle su un tono più amichevole.

Lutero vi si mostrò favorevolmente disposto. Si disse pronto ad abbandonare la polemica se i suoi contraddittori smettevano di provocarlo, a scrivere una lettera di sottomissione al Papa, a riconoscere pubblicamente l’influenza delle preghiere per il riscatto delle anime dal purgatorio, e a raccomandare dal pulpito l’obbedienza ai precetti della Chiesa. Poneva soltanto una condizione: che gli altri particolari della controversia venissero sottoposti al giudizio di un Vescovo tedesco gradito ad ambedue le parti.

Sembrava che tutto si mettesse al meglio. E a fare le spese di questa insperata schiarita fu il povero Tetzel. Miltitz lo convocò a Lipsia, gli rinfacciò di aver ecceduto gli ordini del Papa e lo accusò di mendacio. Il poveraccio si ritirò nel suo monastero, ma non si riebbe più dal colpo. Sul letto di morte ricevette un’affettuosa lettera di Lutero. Che non si rammaricasse, gli diceva, per quella storia delle indulgenze. Essa non era stata la causa, ma solo il pretesto di un incidente «che non era figlio di quella madre»: le sue origini erano molto più profonde e complesse. Il monaco di Wittenberg aveva le sue generosità ed eleganze.

Cosa egli pensasse in quel momento, non ci è chiaro, e forse non lo era nemmeno a lui. Contemporaneamente a una lettera piena di devozione al Papa, ne scrisse una al confessore del duca Federico, Spalatino, in cui diceva: «Veramente non so se il Papa è l’Anticristo o il suo vicario». Comunque, quando Leone rispondendo alla sua lettera in termini amichevoli e paterni lo invitò per la seconda volta a Roma, per la seconda volta Lutero rifiutò.

Alcuni storici dicono che in quel momento egli esitava di fronte alla responsabilità di rompere il fronte cristiano e che si sarebbe rassegnato a qualunque ritrattazione pur di evitare lo scisma. È probabile, o almeno possibile. Ma le cose presero un’altra piega grazie a un nuovo intervento di Eck, il vicerettore dell’Università di Ingolstadt, che nel suo Obelisci aveva tacciato Lutero di eresia.

Lutero, abbiamo già detto, aveva ribattuto a quel libello con un altro libello, le Resolutiones. Ma ancora prima di lui, e in suo favore, aveva replicato Andrea Bodenstein, chiamato comunemente Carlstadt dal suo luogo di origine: un giovane teologo, professore di filosofia tomista lì a Wittenberg, che dapprima aveva combattuto Lutero, ma poi n’era diventato un entusiasta sostenitore. La polemica Eck-Carlstadt si era sviluppata e invelenita proprio nel momento in cui Miltitz credeva di coronare la sua missione di pace. E i due avversari avevano finito per sfidarsi a un pubblico dibattito. Il tema della controversia era questo: se il Vescovo di Roma, cioè il Papa, avesse sempre avuto il rango di Capo della Chiesa in qualità di successore di San Pietro e Vicario di Cristo, come sosteneva Eck in armonia con la tradizione ortodossa; oppure se lo fosse diventato per manovre politiche come sosteneva Carlstadt.

Ma in realtà Carlstadt aveva derivato questa tesi dalle Resolutiones di Lutero. Il quale ora si trovava di fronte a una penosa scelta: o disconoscere la paternità di quell’affermazione, lasciando il suo allievo solo a difenderla; oppure rivendicarla a se stesso e intervenire nel dibattito. Nel primo caso commetteva una diserzione; nel secondo mandava a monte la missione di pace che Miltitz stava svolgendo e che forse egli stesso desiderava. Scelse la seconda alternativa: non solo per senso di responsabilità e orgoglio, ma forse anche perché temette, non presentandosi, di deludere una pubblica opinione che già parteggiava massicciamente per lui, e di perdere il suo prestigio di führer di quella rivolta.

La disputa si svolse a Lipsia fra la fine di giugno e i primi di luglio (del 1519). Lutero si presentò in compagnia di Carlstadt e di altri sei teologi, scortati da duecento studenti di Wittenberg. Teatro del dibattito fu il castello di Pleissenburg, gremito di folla. Lo presiedeva lo stesso duca Giorgio, e l’atmosfera era carica di suspense. Alle tesi di Eck, sottile argomentatore e oratore efficacissimo, rispose per primo Carlstadt, e ne uscì piuttosto malconcio. Allora lo stesso Lutero scese in lizza. Prove alla mano (e la storia gliene forniva a bizzeffe), egli dimostrò che nei primi secoli dell’èra cristiana il Vescovo di Roma era stato il Vescovo di Roma e basta, come dimostrava il fatto ch’egli veniva eletto soltanto dal popolo e dal Clero dell’Urbe, al pari di tutti gli altri Vescovi. Eck ribatté che questa era la tesi di Huss, condannata come eretica proprio da uno di quei Concili – quello di Costanza – cui lo stesso Lutero attribuiva un’autorità superiore a quella del Papa, e quindi decisiva in fatto di dottrina. Era un’abile risposta. Ma Lutero con altrettanta abilità replicò ch’egli, sì, attribuiva al Concilio un’autorità superiore a quella del Papa, ma non il dono dell’infallibilità, esclusiva prerogativa di Dio. Anche il Concilio, disse, poteva errare, e lo aveva dimostrato proprio condannando certe proposizioni di Huss, che invece erano giuste.

Il problema rimase insoluto, ma Eck aveva raggiunto il suo scopo. Egli infatti aveva proposto la disputa non per dare una risposta a quell’interrogativo, ma per inchiodare il suo avversario su una posizione eretica. Schierandosi con Huss, Lutero c’era cascato. La sua ribellione contro le indulgenze, su cui la Chiesa poteva transigere e in realtà aveva già transatto, si era trasformata in una negazione del supremo magistero papale. E su questo nessun compromesso era possibile.

Col resoconto del dibattito, Eck si precipitò a Roma per sottometterlo a Leone, che tuttavia si rifiutò di adottare drastiche misure. Anzi, l’unica decisione che prese fu quella di non prenderne nessuna, nella speranza che col tempo le cose si aggiustassero. Quel Papa tollerante, gaudente e ottimista non conosceva la Germania, la considerava un Paese di barbari analfabeti, e non immaginava che un «pettegolezzo di monaci», come lui si ostinava a considerare quel bisticcio, potesse metterla a fuoco.

E invece era proprio quello che stava accadendo. Da Dürer a Pirkheimer in giù, quasi tutta l’intellighenzia tedesca si era schierata dalla parte di Lutero. Ulrico von Hutten ne diventò il più eloquente bardo. Non contento di avventare le sue schiamazzanti satire contro la Chiesa e il Papa, scovò e pubblicò un vecchio manoscritto tedesco in cui si sostenevano le ragioni di Enrico IV nella sua lotta contro Gregorio VII (di cui abbiamo a lungo parlato nell’Italia dei Comuni). E lo dedicò al nuovo imperatore Carlo V, proprio allora succeduto a Massimiliano, suggerendogli di vendicare l’affronto fatto allora da Roma alla Germania. Era il sentimento nazionale che si mobilitava dietro la disputa religiosa: una miscela pericolosamente esplosiva.

Un altro potente alleato la cultura aveva fornito a Lutero con Filippo Schwarzert, grande umanista che aveva ellenizzato il proprio nome in Melantone: un ometto fragile, di poca salute, dalla voce incerta e dallo sguardo timido, che tuttavia esercitava dalla cattedra un tale fascino, che lo stesso Lutero andava sovente a sentirne le lezioni, confondendosi fra gli alunni. «Non c’è virtù che gli sia estranea» diceva. Gli negava soltanto il mordente, quella «rabbia in corpo» che caratterizza il lottatore, e che lui invece sentiva di possedere in sommo grado. E forse era anche per questo che, non essendone geloso, riconosceva lealmente la superiorità intellettuale di Melantone e ne fece l’ideologo del suo scisma.

Perché ormai, non c’era più da dubitarne, di scisma si trattava. In una violenta Epitome, Lutero definiva Roma «una Babilonia imporporata» e la Curia «la sinagoga di Satana». E a Spalatino scriveva: «Ho tratto il dado. M’infischio della rabbia di Leone quanto dei suoi favori, e mai per l’eternità mi riconcilierò con lui. Non lo temo più e mi accingo a pubblicare un libro sulla riforma cristiana usando contro il Papa lo stesso linguaggio che userei contro l’Anticristo».

Trascinatovi per i capelli da questi attacchi, nel giugno di quell’anno 1520 Leone emanò una bolla, Exurge Domine, che condannava quarantun proposizioni di Lutero, ordinava di bruciare i relativi testi e invitava il ribelle ad abiurare i suoi errori. Se entro sessanta giorni non obbediva, sarebbe stato scomunicato, le autorità temporali erano invitate a consegnarlo a Roma, e in qualunque comunità che gli avesse dato asilo i servizi divini sarebbero stati sospesi.

Lutero impiegò quei sessanta giorni di ultimatum a scrivere, in lingua tedesca, una «lettera aperta alla nobiltà cristiana della Nazione tedesca». E come principale destinatario si rivolse al «nobile giovane» che pochi mesi prima era salito al trono imperiale col nome di Carlo V. Ogni Cristiano, egli dice, riceve col battesimo la consacrazione, e quindi è un prete. Il fatto che poi egli faccia di questa condizione una «carriera» e diventi anche Vescovo o Papa, non impedisce che rimanga un Cristiano come gli altri e come gli altri sia sottoposto, nei rapporti civili, alle autorità secolari e alle loro leggi. Egli non ha nessun privilegio: nemmeno quello di decidere l’interpretazione dei sacri testi perché qualunque fedele, in quanto prete anche lui, ha diritto di leggerli e d’interpretarli a modo suo. Questi testi rappresentano la suprema autorità, cui nemmeno il Papa può sovrapporre la sua. In essi non si trova nulla che lo qualifichi a indire o a impedire i Concili. Se cerca di farlo brandendo l’arma della scomunica, «i fedeli hanno il diritto di trattarlo da pazzo e di ridurlo alla ragione con tutt’i mezzi, anche coercitivi». E ora, egli dice, di un Concilio c’è bisogno, che prenda in esame la vergognosa anomalìa di una Curia corrotta fin nelle midolla dagli splendori mondani e ingrassata dalle rapine compiute sulla Germania. «E qui» soggiunge «veniamo al nòcciolo della questione. Si calcola che ogni anno oltre trecentomila gulden affluiscano dalla tasca del contribuente tedesco nelle casse del Papa. Se noi impicchiamo i ladri, perché dovremmo trattare diversamente i Romani?»

A parte gli eccessi vituperativi, che del resto facevano parte del costume polemico del tempo, quella «lettera aperta», era uno scampolo di bravura giornalistica. Con somma abilità, Lutero accantonava i problemi teologici, di cui egli stesso comprendeva lo scarso fascino sui suoi interlocutori; e si accaniva sul punto su cui li sapeva sensibili. Il suo era un demagogico appello al sentimento nazionale, contro cui neanche i Tedeschi più timorati e ossequiosi verso la Chiesa potevano schierarsi senza passare per traditori. E infatti suscitò un’eco immensa.

La popolarità che gliene derivò era tale che, quando l’ultimatum scadde e la bolla della sua scomunica fu pubblicata, egli non ne risentì nessuna conseguenza e in tutta tranquillità poté attendere alla compilazione di altri due opuscoli: La cattività babilonese della Chiesa e un Trattato sulla libertà cristiana. Questi li scrisse in latino perché erano un riassunto della sua dottrina, destinato ai teologi. Ma subito dopo anch’essi furono tradotti, e diventarono il pane quotidiano dei suoi seguaci.

Huss, egli dice, aveva ragione: il prete non è dotato del taumaturgico potere di trasformare, nell’Eucarestia, il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Gesù. Questi è presente insieme col pane e col vino, cioè per consustanziazione, e non per transustanziazione. Il matrimonio non è un sacramento. Non lo è più di quanto lo fosse il matrimonio pagano e di quanto lo siano quelli ebrei e Musulmani. Esso è solo uno strumento per la procreazione dei figli, quindi si può benissimo contrarlo anche con un non Cristiano, e in caso d’impotenza o adulterio, scioglierlo. Ciò che rende cristiani non sono né le preghiere né le opere buone, ma la fede in Cristo, che solo Cristo può dare. Ogni uomo nasce così col suo destino, che nulla e nessuno può mutare.

Questo, in sintesi, il suo pensiero. Egli lo aveva già espresso. Ma ora gli dava la sua formulazione definitiva in documenti scritti che rendevano patente l’eresia. Ciò malgrado Miltitz, che non aveva cessato di perseguire la sua missione di pace, andò a trovarlo e lo supplicò di scrivere una lettera al Papa. Lutero accettò. Ma, invece di redigerla nei contriti toni che Miltitz gli aveva consigliato, la ispirò a una specie di paterna indulgenza: «Chi ti dice che sei un semidio e che puoi fare tutto ciò che vuoi è una sirena che ti trae in inganno, mio caro Leone…» scriveva a un certo punto. E via di questo passo.

Come reagisse il Papa, a questo confidenziale tuppertù di un semplice monaco, e scomunicato per giunta, non sappiamo, ma possiamo immaginarlo. Comunque, oramai la guerra fredda si era trasformata in guerra calda, e nessuno era più in grado di arrestarla. In molte città, gli ortodossi ebbero la meglio e i libri del ribelle furono bruciati. Lutero rispose bruciando a sua volta una copia della bolla che lo scomunicava davanti agli studenti di Wittenberg.

Il monaco dava di eretico al Papa.