Il «nobile giovane» di cui Lutero aveva fatto il principale destinatario della sua «lettera aperta» era salito al trono imperiale col nome di Carlo V proprio nei giorni in cui il ribelle si era scontrato con Eck a Lipsia. Essendo nato col secolo, non aveva che vent’anni, ed era il frutto di uno di quei matrimoni con cui suo nonno Massimiliano – Arciduca di Austria, Re di Ungheria e Boemia e Imperatore di Germania – aveva accaparrato alla casa di Asburgo più di mezza Europa. Per quanto sia un’impresa ardua, cercherò di semplificarne la genealogia, e il lettore mi scusi se non ci riesco.
Suo padre Filippo, figlio appunto di Massimiliano, aveva sposato l’erede del trono di Spagna, Giovanna, figlia di Ferdinando e d’Isabella, che poi fu detta la Loca, la Pazza, perché le diede di volta il cervello. La corona di Spagna comportava anche quella di Sicilia, di Sardegna, di Napoli e del nuovo continente latinoamericano che Cortéz e Pizarro stavano conquistando. A questo immenso Reame di parte materna, Carlo aggiunse quelli di parte paterna, Belgio, Olanda e Franca Contea che subito dopo la morte di Filippo erano stati dati in reggenza a Margherita di Asburgo, figlia anch’essa di Massimiliano e zia di Carlo. Questi non aveva che sedici anni quando assunse il governo di quelle sparpagliate province e pose la propria candidatura al titolo imperiale, il giorno che il nonno Massimiliano, ormai al declino, lo avesse lasciato vacante.
C’era un rivale: Francesco I di Francia, che godeva di molte simpatie presso gli Elettori tedeschi, cioè i Principi che componevano la Dieta, o parlamento, cui spettava l’elezione. Costoro cercavano regolarmente di evitare la scelta di un Imperatore abbastanza forte da ridurli in soggezione. Cosa sarebbe successo se su quel trono che comportava, oltre alla corona di Germania, anche quelle di Austria, Boemia e Ungheria, fosse salito un sovrano come Carlo già titolare di tutto quel bendidio? Costui sarebbe diventato un nuovo Carlomagno o un nuovo Barbarossa, insomma un «padrone».
La lotta era quindi molto incerta. E Carlo ne venne a capo solo allargando la borsa, cioè vuotandola completamente nelle tasche degli Elettori, che a quell’argomento erano sensibilissimi. Ma ci vollero la bellezza di ottocentocinquantamila fiorini. Carlo non li aveva. Glieli dettero gli unici che fossero in grado di darglieli: i Fugger. Ma naturalmente non si trattò di un regalo, perché i Fugger non avevano mai regalato nulla a nessuno. Essi ebbero in cambio i diritti di dogana nel porto di Anversa e l’appalto di tutte le miniere spagnole. Da quel momento la causa dell’Impero fu quella dei Fugger e viceversa: il che doveva far sentire i suoi effetti anche sulle sorti di Lutero e della Riforma.
Il nobile giovane non aveva dunque compiuto vent’anni, quando s’infilò in testa quella corona imperiale che sembrava sproporzionata non solo alla sua verde età, ma anche al suo fisico. Piccolo, pallido, slavato, di caratteristico aveva soltanto un naso a becco che quasi faceva arco col mento. Soffriva di un sacco di malanni, dalla colite all’artritismo, i suoi modi erano impacciati e la voce stridula. Ma erano in pochi ad averla udita, perché Carlo taceva, sia pure in cinque lingue: fiammingo, tedesco, francese, spagnolo e italiano. Che cosa pensasse, per i suoi contemporanei fu sempre un gran mistero e in parte lo è rimasto anche per noi posteri. Il precettore che gli avevano dato, il vescovo Adriano di Utrecht, che più tardi fu Papa, aveva cercato d’iniziarlo alla filosofia, ma il ragazzo vi si era mostrato allergico. Le uniche materie che lo interessavano erano quelle che avevano attinenza con l’arte di governo, e specialmente la diplomazia e la guerra. Quanto alla religione, di cui Adriano gli aveva istillato i precetti, Carlo si mostrò sempre uno scrupoloso osservante. Ma se fosse anche un credente, non si sa. Il nunzio apostolico Aleander, quando per la prima volta lo incontrò, così ne riferì in un rapporto a Leone: «Mi sembra dotato di una prudenza molto al di sopra dei suoi anni. E ho l’impressione che dentro la sua testa ci sia molto più di quanto la faccia non dica». Forse non era molto intelligente. Ma capiva gli uomini, che sono la cosa più difficile e più importante da capire, specie per un governante. E il suo sangue restava ghiaccio anche nei più gravi repentagli. Molti lo consideravano indolente per la ripugnanza che di solito mostrava a prendere le decisioni. Ma in certi frangenti agiva con una risolutezza che lasciava tutti di stucco. Aveva sempre in serbo qualche sorpresa, anche per quei suoi intimi che credevano di conoscerlo. Ogni tanto nella sua taciturna malinconia faceva capolino l’umorismo: come quando, andato a visitare i suoi sudditi sardi, dopo averli guardati dal balcone, sotto il quale lo acclamavano, commentò: «Pochi, matti e divisi». Alzando la mano, proclamò: «Todos caballeros, tutti cavalieri!» e non si fece mai più vedere nell’isola.
Ora questo imperscrutabile e imprevedibile personaggio, appena coronato Imperatore, si trovò alle prese con la «grana» di Lutero. Il nunzio apostolico, dopo averne invano sollecitato l’arresto al duca Federico, da cui il ribelle direttamente dipendeva, portò la questione davanti a Carlo che si trovò in grave imbarazzo. Uno degli impegni ch’egli aveva preso con gli Elettori per accaparrarsene il voto era quello d’impedire l’estradizione di cittadini tedeschi prima ch’essi fossero processati e riconosciuti colpevoli da un tribunale tedesco. Ma d’altra parte egli era anche Re di Spagna, la patria degl’inquisitori e del fanatismo cattolico, che non tollerava indulgenze e compromessi con gli eretici. Il cauto Carlo decise di lavarsene le mani, rimettendo il «caso» a una Dieta che venne convocata a Worms per gennaio (1521). Essa non doveva soltanto occuparsi di Lutero, che anzi rappresentava un dettaglio. C’erano dei problemi molto più gravi da discutere: la guerra con la Francia e coi Turchi, per esempio.
Il giovane Imperatore dovette quindi restare un po’ sorpreso, quando vide che, agli occhi degli Elettori, quei grossi fatti politici passavano in secondo piano rispetto alla vicenda teologica del monaco. Worms era letteralmente inondata di manifesti e libelli che inneggiavano a Lutero e mettevano alla berlina il Papa e i preti. «Non posso girare per le strade» scriveva il nunzio a Leone. «Tutti appena mi vedono mettono mano al pugnale e mi mostrano i denti. Spero che Vostra Santità m’invii un’indulgenza plenaria e si prenda cura della mia famiglia se mi succede qualcosa.» La partita per la Chiesa si metteva così male che il confessore di Carlo si rivolse a Spalatino, sapendolo amico di Lutero, perché cercasse una conciliazione in extremis. Ma Lutero rifiutò.
Il 3 marzo ebbe inizio il dibattito del suo caso. Aleander reclamò un verdetto di condanna. La Dieta rispose che la condanna presupponeva un processo, e che per il processo ci voleva l’imputato. Carlo, che presiedeva l’assemblea, spiccò mandato di comparizione e inviò a Lutero un salvacondotto con l’ordine di presentarsi. Gli amici di Wittenberg consigliarono al ribelle di disobbedire, ricordandogli l’esempio di Huss che il salvacondotto di Sigismondo non aveva salvato dal rogo. E non avevano tutt’i torti, perché Adriano di Utrecht aveva già scritto al suo ex pupillo che gl’impegni presi con un eretico non valgono: si può, diceva, anzi si deve contravvenirvi. Ma Lutero aveva già deciso: la Dieta era una tribuna nazionale che valeva qualunque rischio. Il 2 aprile si mise in viaggio. Le città in cui passò lo accolsero e salutarono come un eroe avviato al martirio. Alle porte di Worms ricevette un messaggio di Spalatino che lo supplicava di tornare indietro. Rispose: «Anche se a Worms ci fossero più diavoli che tegole sui tetti, ci andrò». Un manipolo di cavalieri gli venne incontro per scortarlo e migliaia di persone fecero acclamante risacca intorno a lui. Egli comprese che poteva perdere la vita, ma non la battaglia.
Il 17 aprile comparve davanti alla Dieta, solo, rivestito del suo saio. Dapprincipio rimase visibilmente smarrito allo spettacolo dell’Imperatore in paramenti, circondato da quell’imponente assemblea di Principi e prelati. Quando l’accusatore gli chiese se si riteneva colpevole di eresia ed era pronto ad abiurarvi, esitò come se il coraggio lo avesse di colpo abbandonato, eppoi con incerta voce chiese tempo per riflettere. Carlo gli accordò ventiquattr’ore e rinviò la seduta all’indomani.
L’indomani quello che si presentò in sala era un altro Lutero, cioè il Lutero di sempre, appassionato, risoluto e pugnace. All’accusatore, che gli riproponeva in latino il quesito della vigilia, rispose con voce ferma e in tedesco che, per quanto riguardava gli abusi e la corruzione della Chiesa, la sua denunzia era condivisa da tutti e quindi era da ritenersi giusta. L’Imperatore lo interruppe con un secco: «Non è vero!» Ma, sebbene pronunciato da una sì alta cattedra, nemmeno quell’intervento sconcertò il monaco che ribatté con tutta la forza della sua convinzione: «Se ritrattassi questo punto, mi arrenderei alla tirannia e all’empietà. E la cosa sarebbe ancora più grave se risultasse che vi sono stato costretto dal Sacro Romano Imperatore». Nella sala gremita e vibrante di attesa si propagò un mormorio di sgomento, ma anche di ammirazione per l’audacia di quel monito. Lutero si volse di nuovo all’accusatore per terminare la sua replica. Era pronto, disse, a riconoscere eretiche le proprie tesi e ad abiurarvi, se qualcuno gli dimostrava se e in che cosa erano contrarie alle Scritture.
«Martino,» ribatté l’accusatore sempre in latino «ti faccio osservare che questo è l’argomento addotto da tutti gli eretici, compresi Wycliff e Huss… Come puoi presumere di essere il solo a capire il senso delle Scritture, come puoi pretendere di sovrapporre la tua interpretazione a quella di tanti uomini famosi? …Ti chiedo, Martino, e t’invito a rispondere schiettamente e senza perifrasi: ripudi o non ripudi i tuoi libri con tutti gli errori ch’essi contengono?»
Ci fu un attimo di silenzio: il più decisivo attimo, dice Carlyle, nella storia del mondo moderno. Poi, sempre in tedesco, Lutero disse, volto all’Imperatore: «Poiché Vostra Maestà e le loro eccellentissime Signorie pretendono una risposta schietta e senza perifrasi, eccola: io non accetto nessuna autorità, nemmeno quella dei Papi e dei Concili che già tante volte si sono fra loro contraddetti. Perciò, al di fuori delle Sacre Scritture, non rispondo che alla mia coscienza, perché senza o contro di essa sento che non c’è salvezza né sicurezza. Dio mi aiuti. Amen».
Ci fu ancora, fra accusatore e imputato, qualche scambio di battute, che Carlo interruppe con un perentorio: «Basta. Visto che l’imputato nega perfino i Concili, non c’è bisogno di fargli ulteriore domande».
Lo scisma si era aperto.
Lutero rientrò nei suoi alloggiamenti visibilmente scosso dalla terribile prova. Ma non meno turbato doveva essere l’Imperatore che l’indomani mattina convocò gli Elettori nelle proprie stanze per sottomettergli una dichiarazione stilata di sua mano, durante la notte. Essa diceva che, in omaggio alle tradizioni della sua famiglia, egli era deciso a restare fino in fondo fedele alla Chiesa e pronto a giuocare su questa carta «le mie terre, le mie amicizie, il mio corpo, la mia vita e la mia anima». Rispettando il salvacondotto che gli aveva rilasciato, aggiunse, consentiva a Lutero di tornarsene a casa indisturbato, purché a sua volta egli non disturbasse pronunziando prediche e provocando tumulti. Ma dopo, concluse, «procederò contro di lui come si usa con gli eretici confessi, e chiedo a voi di pronunziarvi nello stesso senso». Dei sei Elettori lì presenti, quattro aderirono e controfirmarono. Ludovico del Palatinato e Federico di Sassonia, del quale Lutero era suddito, rifiutarono.
Il giuoco delle parti si delineava. Reincarnazione del Sacro Romano Impero, Carlo non poteva schierarsi contro la Chiesa. Per tutto il Medio Evo le due istituzioni si erano spesso combattute, ma rimanendo sempre legate da un vincolo di solidarietà, più forte di qualunque motivo di attrito: l’ecumenismo. L’una e l’altra perseguivano una organizzazione del mondo supernazionale, l’una e l’altra parlavano quella specie di esperanto ch’era il latino, l’una e l’altra combattevano tutto ciò che invece Lutero, a parte i suoi fondamentali motivi di dissenso sul piano teologico, evocava: la comunità nazionale organizzata in Stato con le sue leggi, la sua lingua e perfino la sua Chiesa.
Questo era il punto su cui si sarebbero decise le sorti della grande battaglia. Per il momento sembrava impossibile che un piccolo monaco potesse tenere in sacco le forze congiunte del Papa e dell’Imperatore. Ma il piccolo monaco camminava con la storia; Papa e Imperatore, contro.