Sembra un ghigno della sorte che la Chiesa abbia perso la battaglia con Lutero proprio nel momento in cui al Soglio salivano, uno dopo l’altro, alcuni dei migliori Papi della sua lunga storia. Leone X, Adriano VI, Clemente VII, Paolo III, pur non essendo immuni da difetti, erano senza dubbio uomini di qualità. Eppure furono proprio loro i responsabili di una sconfitta che, con un po’ più di sagacia, si sarebbe potuto evitare.
I motivi che li indussero in errore non sono tuttavia difficili da capire. Il primo e il più grosso è da imputare più ai tempi che a loro. Nei lunghi secoli della Fede conquistatrice e trionfante – quelli che vanno all’incirca dai tempi di Gregorio Magno a quelli di Dante – i Papi non si erano molto occupati del loro Stato: lo tenevano pressappoco nel conto di un «beneficio», cioè di una fattoria diocesana a disposizione del Vescovo di Roma per attingervi i suoi mezzi di sussistenza. Anche i Pontefici più risoluti e prepotenti come Gregorio VII e Gregorio IX difendevano, sì, questo loro feudo, la cui indipendenza era la garanzia di quella loro materiale. Ma si curavano poco d’ingrandirlo, perché la loro forza non la derivavano da quel boccone di terra; veniva dall’autorità ch’essi esercitavano, come Vicari del Signore, sulla coscienza di tutta la comunità cristiana, dal più umile dei contadini al più potente degl’Imperatori, che al Signore ci credevano e quindi ai suoi Vicari gli obbedivano.
Ma nel Quattrocento, di questa fede operante non era rimasto che un pallido ricordo, specialmente in Italia, e più specialmente ancora nella Curia romana. Ormai interamente conquistata alla cultura umanistica, essa valorizzava, a spese di quelli spirituali, gl’interessi terreni. E gl’interessi terreni erano soprattutto interessi politici, gl’interessi dello Stato. Da questo spostamento di valori era nato, fra l’altro, il fenomeno del «nepotismo». I Papi favorivano i parenti per acquisire alla propria dinastia lo Stato e renderlo sempre più potente. Essi cioè si comportavano come tutti gli altri Signori italiani del Rinascimento – gli Sforza, gli Este, i Gonzaga, i Medici eccetera – che concepivano i loro possedimenti come un patrimonio personale e di famiglia, ne adottavano i metodi di lotta – il complotto, il tradimento, il pugnale, il veleno – e con loro erano in gara per la conquista del primato politico nella Penisola. Giulio II sapeva molto più di amministrazione, di diplomazia e soprattutto di guerra che non di teologia, di cui anzi non sapeva nulla. Non aveva di mira che lo Stato. E voleva che quello della Chiesa fosse il più forte d’Italia. Ma anche i suoi successori non badavano ad altro. Per loro, lo Stato della Chiesa contava più della Chiesa. E questa deformazione mentale li induceva a preoccuparsi più della difesa dello Stato dalle altre potenze temporali, che di quella della Chiesa da Lutero e dalla Riforma.
Vediamolo nei fatti.
Bisogna riprendere il filo del racconto che abbiamo lasciato in sospeso alla fine della prima parte. Il lettore ci perdonerà se dovremo ripetere cose già dette nei capitoli precedenti. Ma ora bisogna inquadrare quegli avvenimenti nel contesto europeo, fuori del quale essi rimarrebbero monchi.
Allo scadere del Quattrocento la situazione è questa: Massimiliano d’Asburgo è ancora sul trono imperiale, e di lui abbiamo già detto come badasse a estendere i propri domini più coi matrimoni che con gli eserciti (che non aveva). Sul trono francese è invece salito Luigi XII, sovrano molto più accorto ed energico del suo predecessore Carlo VIII. Fra i titoli ch’egli eredita ci sono anche quello di Re di Napoli e di Sicilia, lasciatogli dal cugino Renato, ultimo rampollo di quella dinastia Angiò che, pur scacciata dagli Aragona, non aveva mai rinunziato alle sue pretese su quelle province; e quello di Duca di Milano per via del famoso testamento dei Visconti secondo cui, se un giorno questa casata non avesse più avuto eredi maschi, i suoi beni e titoli sarebbero passati agli eredi di Valentina, andata sposa, un paio di generazioni prima, al Duca di Orléans. La condizione si era realizzata: i Visconti erano rimasti senza eredi maschi, ma il Ducato, invece di andare agli Orléans, era andato come dote di Bianca agli Sforza. E Luigi XII, pronipote di Valentina, lo rivendicava in base al testamento. Ma anche Massimiliano vi pretendeva, perché Milano era storicamente un feudo imperiale, tant’è vero che il suo attuale titolare, Ludovico il Moro, aveva chiesto proprio a lui che gliene confermasse l’investitura. E quindi, in caso di contestazione, stava a lui disporne.
Inutile cercare da che parte fosse la ragione. Ciò che contava era da che parte stesse la forza che in quel momento sembrava stare dalla parte della Francia. Questo Paese scoppiava di salute, aveva la migliore organizzazione statale e il miglior esercito. Proprio negli ultimi mesi del secolo, Luigi XII scese in Italia. Ed ecco come i vari potentati si disposero nei suoi confronti.
Venezia aveva già firmato un trattato di alleanza con lui per la spartizione della preda, cioè di Milano: essa si sarebbe presa Cremona e i territori a Est dell’Adda. Firenze si era anch’essa allineata coi Francesi in cambio della loro garanzia alla sua libertà repubblicana contro le mire di Cesare Borgia. A costui, per guadagnarsi i suoi favori e di conseguenza quelli del Papa suo padre, Luigi diede una moglie francese di sangue reale insieme al titolo di Duca di Valentino e mano libera per la riconquista degli Stati pontifici.
Come abbiamo già detto, Ludovico non tentò nemmeno di resistere e cercò scampo in Austria. Tutti i piccoli Principati del Centro-Nord fecero atto di sottomissione. Solo Venezia sotto i suoi Dogi e Napoli sotto i suoi Re aragonesi conservarono la loro indipendenza. Ma per Napoli Luigi tessé una sottile combinazione diplomatica proponendo al Re di Spagna Ferdinando il Cattolico di spartirsene con lui il Reame. Sebbene stretto parente degli Aragona, Ferdinando non esitò a tradirli firmando con Luigi un patto segreto. Abbandonato da tutti, a cominciare dai suoi sudditi, re Federico di Napoli si arrese e accettò in cambio della sua rinuncia il Ducato di Angiò in Francia. Ma, scomparso lui, Francesi e Spagnoli si trovarono di fronte; e naturalmente, malgrado i patti, vennero in conflitto.
Fu mentre si combatteva questa seconda guerra, che si svolse quella famosa «disfida di Barletta» che ha fornito il pretesto a tanta retorica. Come al solito, gl’Italiani si erano divisi: alcuni militavano sotto le bandiere spagnole di Gonzalo de Córdoba, detto «il gran capitano», altri sotto quelle francesi di d’Aubigny. Un subalterno di costui disse che gl’Italiani erano codardi. E gl’Italiani di parte spagnola allora sfidarono i Francesi a scendere sul terreno, tredici contro tredici. La guerra fu di comune accordo momentaneamente sospesa per cedere il passo a quel duello collettivo che si risolse coi tredici Francesi feriti e fatti prigionieri dai tredici Italiani. Palpiti di un patriottismo, che tuttavia non impediva ai nostri di scannarsi fra loro, arruolandosi come mercenari in eserciti stranieri e nemici, invece di unirsi contro di essi a difesa del loro paese.
La guerra, dapprima favorevole ai Francesi, fu alla fine vinta da Gonzalo. Col trattato di Blois del 1505, Luigi riuscì solo a salvare la faccia assegnando la sua fetta di Reame italiano a Germaine de Foix, che però doveva portarla in dote a Ferdinando, suo futuro marito. Così la corona di Napoli e di Sicilia fu unita a quella di Spagna, e tale doveva restare per oltre due secoli, cioè fino al 1707.
Su questo sfondo di un’Italia divisa fra due vassallaggi, quello spagnolo al Sud, quello francese al Nord, va vista l’azione diplomatica e militare di Giulio II. Dell’uomo, delle sue terrestri ambizioni, del suo temperamento autoritario e guerriero, abbiamo già detto. Ricapitoliamone le gesta. Alcuni storici di parte cattolica lo presentano come un gran patriota perché a un certo punto lanciò il grido: «Fuori i barbari», cioè i Francesi e gli Spagnoli. Ma dapprincipio Giulio con questi barbari s’intese per eliminare l’ultima potenza italiana rimasta indipendente dopo Blois: Venezia. Fu lui infatti ad architettare nel 1508 la Lega di Cambrai con Luigi, Ferdinando e Massimiliano, cioè con le tre più grandi potenze straniere, per lo smembramento della gloriosa Repubblica, in favore della quale nessuno Stato italiano si mosse.
Dopo che i Francesi ebbero annientato il suo esercito ad Agnadello, Venezia ritirò tutte le sue guarnigioni dalla terraferma disponendosi all’assedio. Ma Luigi, incorporata la sua parte di bottino, richiamò il proprio esercito; Massimiliano fece altrettanto; e Giulio, soddisfatto anche lui della propria preda, consentì a firmare la pace. Fu allora che, guardandosi intorno e accorgendosi quanto pesavano sui suoi Stati i Francesi, padroni di un Ducato di Milano che aveva incorporato quasi tutto il Veneto e tutori di una Toscana legata con essi a filo doppio, lanciò il famoso grido. Non per liberare l’Italia dai barbari ch’egli stesso vi aveva chiamato, ma per farne uno Stato della Chiesa.
Eccolo dunque a macchinare un’altra lega, la cosiddetta «Unione Santa» (!), stavolta con Spagna, Venezia e Svizzera contro la Francia. Quest’ultima aveva a Milano una guarnigione al comando di un Generale di ventidue anni, Gaston de Foix, che riportò una brillante vittoria, ma la pagò con la vita sua e quella dei suoi uomini migliori. I resti del suo esercito non poterono sfruttare il successo e dovettero ritirarsi dalla penisola.
I vincitori si divisero le spoglie al congresso di Mantova, dove Giulio fu salutato come il «liberatore d’Italia». In realtà l’Italia aveva solo cambiato padrone. Il Ducato di Milano strappato ai Francesi veniva assegnato a Massimiliano Sforza, figlio del Moro, ma come feudo imperiale degli Asburgo; gli Svizzeri si annettevano Lugano che fin allora aveva fatto parte del Milanese; Firenze doveva accettare la restaurazione dei Medici sotto la protezione spagnola che ora si estendeva anche su Verona e Vicenza. Ecco la situazione che Giulio aveva creato e che, morendo, lasciava ai successori.
Al suo posto saliva Leone X che, da buon Medici, credeva più alla diplomazia che alla guerra, e forse sarebbe riuscito a tenerla lontana dall’Italia, se proprio in quegli anni non fosse morto anche il saggio Luigi XII per lasciare il trono al più avventato e sventato Francesco I. Costui volle inaugurare il suo Regno riconquistando Milano. Brantôme dice che l’ambizione politica non c’entrava. Francesco aveva sentito dire che a Milano c’era una certa signora Clarice (o Clerici?), che passava per la più bella femmina d’Europa; e da quel donnaiolo che era, voleva guadagnarsene le grazie. La cosa non è molto verosimile, ma somiglia al personaggio.
Nell’estate del 1515 attraversò le Alpi alla testa di quarantamila uomini. Lo Sforza e i suoi protettori Asburgo misero in campo venticinquemila Svizzeri, che passavano per la migliore fanteria del mondo e si battevano in falangi chiuse, irte di lunghissime picche, come quelle macedoni di Filippo e di Alessandro. Lo scontro avvenne a Melegnano (che allora si chiamava Marignano), e fu la più lunga e sanguinosa battaglia che si fosse svolta in Italia da parecchi decenni. La notte sorprese i due eserciti, dopo una giornata di carneficina, ancora avvinghiati nel corpo a corpo. Francesco, che si era battuto con l’abituale spavalderia in mezzo ai suoi nobili, dormì sul fusto d’un cannone, e l’indomani fu il primo a ricominciare. La chiamarono «battaglia di giganti», e per gli Svizzeri che vi perirono quasi tutti non fu soltanto una disfatta; fu la fine del loro primato militare in Europa. Francesco riebbe il suo Ducato di Milano, e forse anche la bella Clarice. Quanto a Massimiliano Sforza, fu deportato in Francia come suo padre. Solo che, invece della prigione, Francesco gli comminò una pensione, sia pure modesta.
Leone aveva parteggiato per gli sconfitti per motivi di famiglia: i Francesi erano i protettori dei repubblicani di Firenze che non si rassegnavano alla restaurazione dei Medici. Ma, appunto perché anche lui era un Medici, non si lasciò sorprendere dagli avvenimenti; e al tavolo della pace che fu concordata a Bologna, si trovò schierato dalla parte del vincitore, cioè di Francesco, per il momento arbitro della Penisola. Gli Asburgo infatti erano cancellati dal Nord; gli Spagnoli confinati al Reame di Napoli. La potenza egemone era la Francia, padrona della Lombardia, di Genova e dei Ducati di Parma e Piacenza.
Ma non era che una sistemazione provvisoria, una delle tante «figure» dell’interminabile quadriglia che l’Italia danzava passando dal braccio di un cavaliere all’altro e tradendoli tutti per restare alla fine tradita.
Non erano infatti trascorsi tre anni che la rivalità fra le due potenze si riaccese. A scatenarla, fu la lotta per la corona imperiale (di cui abbiamo già detto). Senza dubbio Francesco cercò di accaparrarsi il titolo per ambizione personale: quel giovane sovrano era assetato di gloria, di galloni, di pennacchi, e non accettava di essere secondo a nessuno. Ma a spingerlo contribuì anche una motivata preoccupazione politica. Finché era rimasta sulla testa di Massimiliano d’Asburgo, in pratica la corona imperiale era stata soltanto la corona di Germania: Paese vasto, ma disunito e ribelle al potere centrale. Se però essa diventava appannaggio del successore, il nipote Carlo, già per eredità materna Re di Spagna e di Napoli, nonché padrone delle Fiandre, la Francia rischiava di venire soffocata. Per prevenire questa catastrofe, Francesco pose la sua candidatura al titolo, spese un mucchio di soldi per corrompere i Principi Elettori tedeschi che dovevano deciderne le sorti nella loro Dieta, e perse. Carlo spese di più e vinse. Da quel momento il conflitto diventava inevitabile.
Fu Francesco a prendere l’iniziativa, sperando di cogliere contropiede l’avversario, in quel momento seriamente minacciato da disordini politici in Spagna e dalla rivoluzione religiosa in Germania. Egli spedì un esercito oltre i Pirenei e un altro in Italia per presidiare Milano. Il primo perse la battaglia. Il secondo perse il suo capo, il Duca di Borbone, «conestabile» di Francia (cioè pressappoco capo di stato maggiore), che disertò per mettersi agli ordini di Carlo.
Questo Duca non era un traditore. Aveva combattuto bravamente a Marignano e finanziava di persona le proprie truppe. Francesco lo aveva ripagato invalidando il testamento di sua moglie e incamerando l’immenso patrimonio ch’essa aveva lasciato al marito. Carlo sfruttò tempestivamente la collera del Duca offrendogli la carica di luogotenente generale per l’Italia e la mano della propria sorella Eleonora. Il Borbone accettò, passò sotto la bandiera imperiale, rifece di Milano un feudo asburgico, batté i Francesi a Romagnano, e si fece promotore di un’alleanza fra Carlo ed Enrico VIII d’Inghilterra per un’invasione simultanea della Francia. L’impresa fallì. E Francesco, schiumante di rabbia vendicativa, assunse di persona il comando delle forze francesi in Italia per infliggere al fellone il castigo.
Mal consigliato, nell’estate del 1524 mise assedio a Pavia che gli resisteva. E sotto le mura della città fu attaccato di sorpresa dalle forze coalizzate del Borbone, del viceré di Napoli Lannoy e del Marchese di Pescara. Come a Marignano, combatté da prode sempre nel folto della mischia. Ma il suo difetto era proprio questo: che, per fare il soldato, egli spesso si dimenticava di fare il Generale. L’avversario lo superò sul piano tattico, e alla fine lo sopraffece. Nell’annunziare per lettera a sua madre e a sua sorella la tremenda disfatta, Francesco scrisse la famosa frase: «Tutto è perduto, fuorché l’onore», che testualmente suonava così: «Di tutto non m’è rimasto che l’onore e la vita, che è salva».
Salva, ma non libera perché, crivellato di ferite, era caduto prigioniero del fellone ch’egli voleva castigare e che lo relegò nella fortezza di Pizzighettone. Di lì Francesco inviò un umile appello a Carlo, rimasto a Madrid: «Se vorrete» gli diceva «garantire l’incolumità che merita un Re di Francia prigioniero, potete contare che costui, per gratitudine, rimarrà tale per sempre». Lo spavaldo giovanotto, coraggiosissimo in battaglia, non lo era altrettanto nella sconfitta.
Carlo non si lasciò inorgoglire, ma neanche commuovere dal messaggio. Lasciò passare qualche mese prima di far trasferire il prigioniero a Madrid, dove gli dette il benvenuto con una lettera fredda e cortese, ma lo rinchiuse in una cupa fortezza. E intanto mandò alla madre di Francesco, Luisa, che aveva assunto la reggenza del Regno, una proposta di pace che prevedeva, fra l’altro, la rinunzia della Francia a ogni pretesa sull’Italia e sulla Borgogna che doveva diventare provincia dell’Impero, alla Provenza e al Delfinato che avrebbero formato Stati indipendenti, alla Normandia, Angiò e Guascogna che sarebbero tornate all’Inghilterra. Dopodiché Francia e Impero avrebbero coalizzato le loro forze per una Crociata contro i Turchi.
Luisa rispose che la Francia non avrebbe ceduto un palmo del suo territorio, segretamente inviò un messaggio al sultano Solimano per indurlo ad attaccare i Balcani e intrigò coi suoi ambasciatori a Roma e a Londra per convincere il Papa ed Enrico VIII che la strapotenza di Carlo era una minaccia per tutti.
Il complicato giuoco diplomatico si concluse nel 1526, quando Francesco, demoralizzato dalla prigionia e dalla cattiva salute, tagliò corto accettando non solo le condizioni dettate da Carlo, ma anche la consegna all’Imperatore dei suoi due figli maggiori in qualità di ostaggi. In più egli s’impegnava a sposare la sorella del suo mortale nemico, Eleonora, giurando per iscritto di riconsegnarsi prigioniero se non avesse tenuto le promesse. Ma quanto avesse in animo di farlo è dimostrato dalla dichiarazione da lui redatta in precedenza e spedita segretamente a Parigi con cui invalidava «qualunque patto e concessione incompatibili con l’onore e con gl’interessi della corona» che gli fossero stati strappati in Spagna.
Infatti, rientrato a Parigi, rinnegò subito gl’impegni, del tutto indifferente alla sorte dei suoi figli Francesco ed Enrico, che avevano preso il suo posto a Madrid. Carlo disse che chi non ottemperava al proprio giuramento non aveva diritto alla qualifica di «gentiluomo». Ma il Papa (Clemente VII) ritorse che un giuramento sotto costrizione è nullo, e annodò con Francesco la «Lega di Cognac» in cui trascinò anche Milano, Genova, Firenze e Venezia per una crociata di liberazione dell’Italia dagli Spagnoli.
Per quali motivi la Chiesa avesse operato quell’ennesimo rovesciamento di alleanze, lo diremo dopo. Per ora fermiamoci a questa fatale svolta della politica europea, che tuttavia risulterebbe incomprensibile senza un cenno agli altri due suoi protagonisti: Enrico VIII d’Inghilterra, e Solimano di Turchia.
Troviamo inutile diffonderci sulle vicende interne dell’Inghilterra che non riguardano la nostra storia. Basti dire che il Paese era appena uscito da una lunga anarchia feudale grazie alla nuova dinastia dei Tudor. Il fondatore, Enrico VII, ristabilì l’ordine e la pace. Il suo successore, Enrico VIII, sembrava il meglio qualificato a ricalcarne le orme. Essendo stato inizialmente avviato non al trono, ma al sacerdozio, aveva una discreta cultura specie di teologia. Uno dei suoi primi gesti fu, come abbiamo visto, l’invito a Erasmo di stabilirsi in Inghilterra. Tutti coloro che lo avvicinavano restavano incantati, oltre che dalla sua atletica prestanza, dalla sua grazia e cortesia.
Nei primi anni di regno si occupò poco di politica, preferendo lasciarla in appalto al cardinale Wolsey, di cui l’ambasciatore veneto Giustiniani ci ha tramandato nei suoi rapporti un mirabile ritratto: un bell’uomo, dice, che ha tutte le qualità, meno quelle morali. Ama in egual misura e serve con lo stesso impegno il Re, la patria, la propria carriera e il proprio patrimonio. Ambizioso, avido, geniale e snob, era insomma un miscuglio di Richelieu, di Bonifacio VIII, di Brummel e di Winston Churchill, che aveva la suprema abilità di far coincidere sempre gl’interessi dello Stato con quelli suoi personali.
La sua politica europea ricordava un po’ quella italiana di Lorenzo il Magnifico: egli fece dell’Inghilterra «l’ago della bilancia» nel grande giuoco fra i Valois di Francia e gli Asburgo ispano-tedeschi. Per raggiungere questo scopo si servì delle donne di casa reale. La sorella di Enrico la diede in sposa a Luigi XII di Francia; la figlia Maria, che aveva due anni, la fidanzò al futuro Francesco I che aveva sette mesi. Tutto questo, per creare un contrappeso al matrimonio spagnolo di Enrico, che aveva sposato Caterina di Aragona, zia di Carlo V. E il lettore non pensi che si tratti di dettagli: questo intreccio coniugale avrà, come vedremo, la sua importanza.
Quando esplose la ribellione di Lutero, Wolsey spiegò nel combatterla molta più accortezza dei Papi. Egli conosceva benissimo gli abusi del Clero, anche perché ne era partecipe egli stesso che godeva di numerosi e immensi benefici e – secondo lo storico Hughes – intascava un terzo di tutte le rendite ecclesiastiche inglesi. E sapeva anche che nella patria di Wycliff il seme della Riforma avrebbe trovato buon terreno per attecchire. Perciò, invece di affrontarla con la persecuzione, mirò a silenziarla togliendole i più efficaci pretesti di propaganda. Allontanò i prelati che più davano scandalo e chiuse i monasteri che violavano la regola. Quanto agli eretici, badò più a recuperarli che a perseguitarli. Sotto di lui in Inghilterra ci furono pochi roghi. E fu grazie a questo metodo che la Riforma per il momento non vi attecchì.
Enrico secondò la politica ortodossa del suo Cancelliere, anzi sottolineò la fedeltà alla Chiesa chiamando a raccolta i suoi ricordi di teologia e componendo una Asserzione dei sette Sacramenti contro Martin Lutero, che qualcuno però attribuisce a Wolsey. Questo gli valse, da parte di Lutero, la taccia di «Re delle bugie, somaro e pazzo»; e da parte di papa Leone il titolo di «difensore della fede».
Ma intanto, fra il sovrano e il Cancelliere, erano sopravvenuti dei fatti nuovi. Anzitutto Wolsey, contravvenendo alla sua diplomazia dei contrappesi, aveva alleato l’Inghilterra a Carlo nella guerra contro Francesco e mandato un esercito a invadere la Francia. Si era deciso a questo passo perché ambiva a diventar Papa e sperava che l’Imperatore lo aiutasse. Anche quando la campagna si risolse in un inutile dispendio di denaro e di vite umane, Wolsey v’insisté e impose nuove tasse. Questo gli procurò una forte impopolarità che diventò ancora più forte quando, con la battaglia di Pavia, Carlo ebbe realizzato quell’egemonia europea, che Wolsey aveva sempre cercato d’impedire facendo l’ago della bilancia fra le due potenze rivali. Per rimediare, Wolsey rovesciò il fronte alleandosi con la Francia contro Carlo. Ma costui era il nipote della regina, dalla quale ora Enrico voleva divorziare. Ed è a questo punto che i dettagli coniugali cominciano a far sentire il loro peso, come più tardi diremo.
Mentre l’Inghilterra cercava di ristabilire l’equilibrio tra Carlo e Francesco, anche Solimano s’inseriva in questo giuoco. E per esercitarvi un peso decisivo.
Nell’Italia dei secoli d’oro abbiamo già succintamente riepilogato la vicenda dei Turchi ottomani che, ultimi convertiti alla fede e alla civiltà dell’Islam, ne erano diventati i padroni e le avevano restituito il guerriero mordente dei primi Califfi. Verso la metà del Quattrocento avevano dato la definitiva spallata all’Impero d’Oriente conquistando Costantinopoli e facendone la propria capitale. Come vastità di possedimenti erano la più grande potenza mondiale. In Europa essi inglobavano ormai la Bulgaria, la Grecia – salvo alcune isole – la Romania e un buon boccone della Jugoslavia, premendo così e minacciando le province ungheresi e boeme dell’Impero asburgico.
Nel 1520 il titolo di sultano fu assunto da Solimano, che poi i Turchi chiamarono «il Legislatore» e gli europei «il Magnifico». Non aveva che ventisei anni, ma possedeva già la stoffa del grande capo politico e militare. Naturalmente la leggenda cristiana dipinge anche lui, come tutti gli «infedeli», un mostro di crudeltà. Ed effettivamente Solimano da ultimo lo fu nei suoi rapporti domestici, sotto l’influsso di una moglie ambiziosa che lo spinse a uccidere il figlio natogli da un precedente matrimonio, eppoi anche il nipote. Ma il duplice delitto ha l’attenuante della vecchiaia e della passione. Nel pieno possesso delle sue facoltà, Solimano fu un sovrano autoritario ma saggio, lungimirante e magnanimo anche coi suoi avversari. Inflessibile guerriero e Musulmano zelante, rendeva omaggio al nemico vinto, trattava con umanità i prigionieri cristiani, e mai perseguitò per motivi religiosi.
Il conflitto dell’Islam con l’Europa cristiana era, come si suol dire, «scritto nelle stelle», e infatti durava da novecento anni, cioè da quando, nel settimo secolo, gli eserciti di Maometto erano traboccati dall’Arabia e dopo la fantastica cavalcata conquistatrice lungo il Nord-Africa, erano sbarcati in Spagna. I Cristiani avevano preso la controffensiva con le Crociate; l’Islam aveva replicato annettendosi l’Impero di Bisanzio, compresa la sua capitale, e spingendo come abbiamo detto i suoi eserciti fin nel cuore dei Balcani. Non c’era stato un Papa che non avesse bandito la sua brava Crociata contro l’Islam; e non c’era stato un sultano che non avesse promesso ai suoi Ulema di fondare una moschea a Roma.
Ma a questi antichi «precedenti», ora si aggiunse una nuova tentazione. Nel 1525 Solimano ricevette una lettera di Francesco I. Prigioniero a Madrid, il Re francese invitava il sultano a invadere l’Ungheria, provincia dell’Impero, sperando così d’indurre Carlo a scendere a patti con lui. Il sultano rispose: «Il nostro cavallo è sellato, la nostra spada affilata». E dopo pochi mesi prese la strada di Budapest alla testa di centomila uomini. Il Papa lanciò un appello a tutti i Principi cristiani per un fronte comune. Ma, di questi Principi, uno era quello che aveva istigato Solimano; un altro, Enrico VIII d’Inghilterra, stava rovesciando il fronte per allearsi con lui. Restava Carlo V, il maggiore interessato perché l’invasione aveva di mira proprio le sue province imperiali. Ma quando chiese ai Principi tedeschi di fornirgli le truppe, quelli protestanti vi si rifiutarono su istigazione di Lutero. Il monaco ribelle proclamò addirittura che i Turchi erano mandati dal buon Dio, e che pertanto resistere a loro era come resistere a Lui.
Il motivo di questa dissidenza non era difficile da capire. Lutero non voleva restare in balìa di un Carlo trionfante che, dopo essere venuto a capo del nemico esterno, avrebbe potuto rivolgere le sue armi vittoriose contro quello interno, cioè contro la Riforma. Così gli Ungheresi, abbandonati a se stessi, furono facilmente sopraffatti. E così Solimano, piantate le sue bandiere a Budapest, era diventato uno degli arbitri dell’Europa.
Questa era all’ingrosso la situazione internazionale nel momento in cui si serrava il giuoco fra la Chiesa e Lutero. E ora cerchiamo di capire come la si vedeva e misurava da Roma.