CAPITOLO VENTESIMO

LUTERO TRIONFANTE

A consentire la vittoria della Riforma in Germania, lo abbiamo già detto, fu anzitutto l’impossibilità in cui Carlo si trovò di combatterla. Oltre che con la Francia di Francesco I, egli doveva vedersela coi Turchi che in pieno slancio di conquista dal trampolino di Costantinopoli erano dilagati nei Balcani, avevano sommerso l’Ungheria e ora addirittura investivano Vienna, cioè il cuore stesso dell’Impero. Per far fronte all’emergenza, Carlo aveva bisogno dei Tedeschi, nerbo del suo esercito. Non poteva consentirsi il lusso di discriminarli secondo il loro credo, e lanciarli gli uni contro gli altri.

Ma se la mancata persecuzione spiega come mai la Riforma non fu schiacciata, non spiega affatto perché seguitò a diffondersi e a far proseliti. Melantone su questo punto non nascondeva il suo scetticismo. «Questi nostri seguaci» scriveva «s’infischiano della religione: essi vogliono soltanto liberarsi dalla tutela dei Vescovi e appropriarsi i loro beni.»

C’era del vero. Specie fra i Principi, la molla della loro sempre più massiccia conversione era proprio questa. Essi volevano che gli oboli e le decime dei loro sudditi, invece di prendere la via di Roma, restassero a disposizione del loro fisco; volevano governare i propri domini senza interferenze ecclesiastiche; e sentivano che, sottraendosi alla tutela della Chiesa, si sottraevano anche a quella dell’Imperatore. Il Clero luterano era il frutto dello Stato e la sua esaltazione. Esso obbediva al Principe e ne diventava lo strumento. Era logico che a sua volta i Principi lo proteggessero e ne abbracciassero il credo.

Non per nulla infatti furono loro a condurre la crociata. Si erano riuniti in una Lega che, finché rimase minoritaria, badò esclusivamente a rintuzzare le velleità repressive della maggioranza cattolica. Nel 1529 l’Imperatore aveva emanato un editto che consentiva il rito luterano negli Stati che già lo praticavano, purché lasciassero libertà di praticare anche ai cattolici; negli Stati cattolici invece il rito luterano era proibito. La Lega insorse contro il trattamento discriminatorio e formulò una protesta ch’ebbe un duplice effetto: impedì l’applicazione del decreto e diede il nome non solo ai luterani, ma a tutt’i transfughi del cattolicesimo, che d’allora in poi si chiamarono infatti, genericamente, «protestanti».

Ma una volta diventata maggioritaria e non più minacciata di persecuzione, la Lega si arrogò anche i compiti di un vero e proprio Concilio per dare alla Riforma l’assetto organizzativo e ritualistico necessario a farne una vera e propria Chiesa. Il grande pericolo ch’essa aveva corso e tuttora correva era stato infatti, lo abbiamo già detto, la sua dispersione in sètte. Era un pericolo insito nella sua stessa natura. Lutero si era ispirato a una democrazia ecclesiastica, in cui ogni congregazione aveva il diritto non solo di nominare il proprio sacerdote o ministro, ma anche di determinare il proprio rito. Era fatale che questa estrema libertà provocasse specie dapprincipio un grosso guazzabuglio d’interpretazioni, contro cui invano Melantone cercò di lottare dettando principi e formule. L’anarchia durò un pezzo fornendo buoni argomenti ai cattolici per dimostrare all’Imperatore e ai Principi che quel caos era destinato a sconfinare dal piano religioso a quello politico e sociale provocando la disintegrazione di tutto.

A questo punto furono i Principi stessi che intervennero, e ciascuno nel proprio Stato avocò a sé, cioè al potere temporale, le prerogative che in origine Lutero aveva attribuito alle singole congregazioni. Furono essi a stabilire il rito secondo gli schemi approntati da Melantone, e i ministri che tentarono di resistere furono scacciati. Lutero, in buona parte rinnegandosi, approvò quell’atto di forza. E la Chiesa che ne trasse origine si chiamò su suo suggerimento «Evangelica».

Ora insorgeva tuttavia un terzo pericolo: ed era che il nuovo Clero, così intimamente legato al potere temporale, si trasformasse in una pura e semplice burocrazia dominata soltanto dagl’interessi di casta o, nel migliore dei casi, dalla «ragion di Stato». Ed era proprio ciò che i cattolici si aspettavano e si auguravano. Ma non avvenne. Contrariamente a quello che diceva Melantone, sotto le conversioni non c’era unicamente la molla del tornaconto e della cupidigia. Nelle masse agiva anche l’autentica aspirazione a un credo più semplice e sincero, a una Chiesa in comunione molto più diretta coi fedeli, che parlasse nella loro lingua – non in latino – alle loro coscienze, e invece di escluderli, li rendesse partecipi del rito.

I ministri luterani sentirono questo anelito di decenza e di partecipazione, e vi si adeguarono. Salvo poche e insignificanti eccezioni, essi diedero un edificante esempio di buon costume. Erano molto meno colti dei preti cattolici, l’Umanesimo non li aveva nemmeno sfiorati, di teologia sapevano poco o nulla. Ma le Scritture le conoscevano bene, e almeno l’umiltà ve l’avevano attinta. Le loro chiese non potevano certo rivaleggiare in adornamenti artistici con quelle italiane. La loro architettura sobria e severa s’ispirava non a canoni estetici, ma all’esigenza di un più intimo contatto fra officiante e fedeli. Il rito infatti aveva ritenuto molto di quello cattolico: l’altare, la croce, le candele, i paramenti. Ma a dominare non era più la cerimonia sacrificale, sibbene il sermone. Ecco perché il tratto caratteristico di queste chiese sono le gallerie, studiate anche per il canto corale, decisivo strumento di partecipazione collettiva. Diceva un gesuita: «I protestanti hanno avvelenato più anime coi loro inni che con le loro prediche». Così, mentre il cattolicesimo italiano si esteriorizzava nella pittura e nella scultura, il protestantesimo tedesco s’interiorizzava nella musica, come del resto era logico di una religione che si proponeva di riportare Dio nelle coscienze.

Lo stesso Lutero contribuì alla grande musica sacra della Riforma trasformandosi in compositore e sfogando in inni gagliardi e marziali la sua esplosiva carica di passione. Perché il grande ispiratore della Riforma restava lui. Essa doveva la sua vittoria ai fattori politici che abbiamo detto; ma della sua anima restava debitrice unicamente a Lutero, che vi aveva trasfuso la sua.

Che uomo era questo straordinario protagonista che aveva cambiato il corso della Storia?

Fino a qualche anno fa, in campo cattolico, ci si ostinava a farlo passare per uno psicopatico tormentato da incubi, terrori e fobìe. John Osborne lo presenta addirittura come un maniaco depressivo, spinto alla ribellione dal «complesso del padre» e dai triboli che gli procuravano la stitichezza e le emorroidi. Lutero stesso ha fornito ampio materiale a queste ipotesi diffondendosi nei suoi scritti sui propri malanni. Una volta, racconta, una colica renale lo ridusse a tal punto di disperazione, da indurlo a lanciare una specie di ultimatum al Signore: «Mio Dio» urlò «se questo spasimo si prolunga, non riconoscerò più la Tua onnipotenza».

Ma negli ultimi tempi gli storici cattolici più intelligenti hanno rinunziato alla stupida e ottusa pretesa di ridurre Lutero a un semplice caso patologico e cominciano a riconoscerne la grandezza. «Era un genio» dice il gesuita Courtnay Murray «un genio traboccante di retorica, ma anche pieno d’illuminazioni.» È molto probabile che nella nuova atmosfera inaugurata dal Concilio la riabilitazione continui. E sarebbe ora.

Cranach ci ha lasciato due suoi ritratti. Uno è del 1526, e ci mostra un Lutero poco più che quarantenne, robusto ma senz’adipe, ancora nero di capelli, di tratti contadineschi e marcati, mascella larga, naso carnoso, gli occhi scuri e penetranti «in cui il demonio sghignazza», dicevano i suoi nemici. L’altro è di sei anni dopo: un Lutero appesantito e obeso, ma tuttora gagliardo, con un’espressione cordiale, che suggerisce l’ottimismo e la gioia di vivere. Ne aveva da vendere, infatti, malgrado i suoi guai: i calcoli renali, l’ulcera, l’insonnia, la colite, tutte conseguenze dei suoi eccessi dietetici. Ogni tanto si castigava della propria ghiottoneria imponendosi anche tre giorni di assoluto digiuno. Ma poi l’ingordigia riprendeva il sopravvento. Era anche un robusto bevitore, e Melantone ricorda di averlo sentito tuonare per ore contro il vizio nazionale della birra, vuotandone boccali su boccali. A chi gli faceva osservare l’incongruenza, rispondeva con un sospiro: «Se il buon Dio mi perdona di averlo tradito per vent’anni come monaco cattolico, può anche perdonarmi un bicchierozzo trangugiato alla Sua salute».

Da un pezzo aveva abbandonato il saio e nel 1525 si era sposato. A Melantone, che si meravigliava di vedergli compiere quel passo, rispose che vi si era deciso per fare un piacere a suo padre e un dispetto al diavolo. Ma non era così. In realtà egli aveva sempre ritenuto che il sesso è un peccato, anche nel matrimonio. «E se Dio mi avesse consultato su questo punto» aggiungeva «Gli avrei consigliato di assicurare la continuazione della specie col vecchio metodo usato per Adamo.» Ma siccome ormai altro mezzo non c’è, aggiungeva, e il bisogno sessuale richiede soddisfazione come quello del cibo, rassegnamoci al matrimonio. Il peccato con una moglie sarà sempre meno grave di quello con una concubina.

Per conto suo aveva deciso di restare scapolo e casto. Ma a un certo punto dovette occuparsi della sorte di certe monache che, essendosi convertite al suo credo, avevano abbandonato il convento e naturalmente cercavano una sistemazione coniugale. Riuscì a trovar marito a tutte, meno una, Caterina von Bora. Le propose un certo dottor Glatz. Ma la ragazza rifiutò, dicendo che avrebbe accettato soltanto un tale di nome Amsdorf, oppure il dottor Lutero. Questi interpellò Amsdorf, ma lo trovò renitente. Ci ripensò, e forse ricordando ciò che gli aveva detto la sua vecchia padrona di casa Frau Cotta, che una buona moglie è l’unica felicità consentita all’uomo, decise di tentarla. Caterina aveva ventisei anni, sedici meno dei suoi quarantadue, e poche attrattive. Ma il suo carattere era pacioso, e infatti si rivelò una sposa eccellente.

Il generoso e benevolo Duca di Sassonia, come dono di nozze, diede alla coppia l’intero convento agostiniano dove Lutero aveva vissuto da monaco. Lutero si affrettò a ripopolarlo con sei figli e una dozzina di nipoti, di cui si assunse il mantenimento e l’educazione. Pare che Caterina non gradisse molto la trasformazione della sua casa in un asilo infantile che doveva darle non poco da fare. Ma vi si rassegnò perché tutti quei ragazzi erano la gioia del marito che adorava la loro gàrrula compagnia. E anche questo tratto dimostra quanto lontana dal vero sia l’immagine di un Lutero solitario, severo, scontroso e tormentato dal diavolo. Alcuni di questi suoi pupilli, via via che crescevano, cominciarono a prendere nota di ciò che diceva Lutero nell’intimità della famiglia. E ne venne fuori un monumentale volume di Tischreden, o conversazioni da tavola, che ci forniscono forse il più veridico ritratto dell’uomo: padre eccellente, affabile, comprensivo, sempre pronto alla battuta, alla risata, alla favola. La morte della sua bambina prediletta fu per lui una tragedia. Per giorni e notti, prostrato a terra, pregò per la sua guarigione. Quando vide che tutto era inutile, chiese alla piccola: «Figliolina mia, vuoi restare qui con tuo padre, o andare da quell’altro Padre, che ti chiama di là?» «Se mi chiama, voglio andare» rispose in un soffio la bambina. Per tutto il resto dei suoi giorni, Lutero seguitò a parlare con lei chiamandola du liebes Lenichen, tu mia amata Lenuzza. E ogni tanto diceva: «Che strano, sapere che lei è più viva e felice di noi, e soffrirne ugualmente».

I suoi rapporti con Caterina non andavano altrettanto lisci. Sebbene di buon carattere, essa talvolta si spazientiva per la totale mancanza di senso pratico del marito. Lutero s’infischiava del denaro, dissipava tutto ciò che guadagnava, rifiutava i diritti d’autore sui suoi libri che avevano fatto la fortuna dell’editore, e spesso la povera donna non sapeva come mandare avanti la famiglia che Martino le aveva caricato sulle spalle. Egli aveva comprato una fattoria con polli mucche, maiali e orto. Ma era lei che doveva provvedere anche a quella, perché lui non sapeva distinguere una cipolla da una patata. Per di più essa doveva sopportare i bruschi salti d’umore di Martino, le sue collere improvvise. Eppure, dalle lettere ch’egli le scrisse o che scrisse su di lei, risulta che il matrimonio fu sostanzialmente felice e che l’affetto fra i due non fece che crescere con gli anni. Per celia egli parla sempre di Caterina come del «mio signor Katie», facendo capire che il vero padrone di casa era lei.

Anche all’acme del successo, i suoi modi erano rimasti semplici. Si rifiutava di chiamar «luterani» i seguaci del suo credo; voleva che si chiamassero «evangelici». E scoraggiò la pubblicazione della sua opera omnia, dicendo che quella lettura poteva andare a detrimento della Bibbia, unico testo che valesse la pena di leggere. Non si considerava affatto un Apostolo, un Santo, un fondatore di religioni, e a chi lo trattava come tale rispondeva bruscamente che Dio non gli aveva dato nemmeno il potere di procurarsi una buona defecazione. Il suo umorismo conservava qualcosa di rurale e insisteva su questi motivi corporali. «I miei nemici» diceva «non si stancano di spiarmi. Se faccio un peto a Wittenberg, a Roma ne sentono subito il puzzo.» Gli scrupoli di Melantone, i suoi dubbi, le sue timoratezze, qualche volta lo facevano sorridere, ma più spesso lo mandavano in bestia. «Pecca, pecca!» gli gridava «Dio rispetta i grandi peccati, è spietato solo con quelli piccoli.» Era pieno di contraddizioni. Esaltava gli studi matematici come quelli che allenano «a ragionare per dimostrazioni e prove sicure», ma rifiutava il sistema copernicano perché contrario alla Bibbia, e credeva nei diavoli e nelle streghe.

La sua teologia non era del tutto originale. Discendeva in linea diretta da quella di Wycliff e di Huss. Tutti e tre avevano attinto le nozioni della predestinazione e della Grazia in Sant’Agostino, che a sua volta ne aveva tratto ispirazione da San Paolo. Questo è, per così dire, l’albero genealogico del protestantesimo, di cui Lutero non era che l’ultima fronda, ma anche la più vigorosa. Per usare il suo linguaggio, egli redime il Cristianesimo da tutti gli apporti della cultura pagana, che specialmente gli umanisti gli avevano appiccicato addosso. Lutero rinnega sia Aristotele che Platone e si rifà ai Profeti. Cadendo in un’ennesima contraddizione, egli odia gli Ebrei, contro i quali pronunzierà in vecchiaia parole degne di Hitler, ma nello stesso tempo la sua concezione di Dio è tipicamente ebraica. Con lui, Dio perde gli attributi umani che la Chiesa gli aveva appiccicato, e ridiventa Jeovah: l’Altissimo, l’Assoluto, il Giudice vendicatore che ha scagliato sugli uomini il diluvio universale, distrutto Sodoma, e ora si prepara a un Giudizio in cui «pochissimi saranno gli eletti, moltissimi i dannati».

Tutto sommato, era un ritorno alla teologia medievale coi suoi incubi e terrori. Lutero era convinto di vivere in un mondo popolato di diavoli all’agguato, asseriva di conoscere personalmente Satana e si piccava di tenerlo a bada col suo flauto. Egli aveva dell’uomo la stessa sconsolata concezione dei grandi quaresimalisti del dodicesimo e tredicesimo secolo: lo considerava una povera debole creatura impotente di fronte al peccato, e destinata a restarne vittima. «Siamo i figli della colpa» diceva, mettendo nel mazzo anche se stesso. «Non c’è nessuno, in grado di redimersene.»

Non ebbe mai la civetteria demagogica di presentarsi come un innovatore. Si considerava anzi un restauratore, e il suo sogno sarebbe stato di perpetuare la società rurale in cui era nato. Chiamava il commercio «uno sporco affare», condannava l’interesse come usura, e abbiamo già riferito in che termini si espresse contro i contadini che si erano ribellati ai Principi. Li chiamò delinquenti, li fulminò di anatemi, ne reclamò lo sterminio.

Questi eccessi reazionari si fecero sempre più frequenti via via che la sua salute si deteriorava. Negli ultimi anni, riconosce uno dei suoi biografi più devoti, il Bainton, era diventato «un vecchiaccio irascibile, petulante, maldicente e talvolta addirittura scurrile». Nel febbraio del 1546 la sua ulcera si aggravò improvvisamente. Capì subito ch’era alla fine, e chiamò i suoi amici. Uno di loro gli chiese: «Reverendo Padre, resti fedele a Cristo e alla dottrina che hai predicato in Suo nome?» Il morente rispose: «Sì», e subito dopo si accasciò colpito da apoplessia.

I suoi difetti ed errori erano stati grandi. Nella polemica contro i suoi nemici smarriva non soltanto il senso della giustizia, ma anche quello della decenza, e il suo linguaggio scadeva nel turpiloquio. Col nemico vinto poteva essere generoso, come lo fu con Tetzel; ma con chi non si arrendeva era incapace di carità. Le sue incoerenze erano state clamorose e stridenti. «Aveva liberato» dice Durant «i suoi seguaci da un Papa infallibile, ma per sottometterli a un infallibile libro – la Bibbia – che, a differenza del Papa, non si poteva cambiare.» Della lotta contro il dogma aveva fatto un altro dogma, e nel combattere l’intolleranza dei preti si mostrava più intollerante di loro. Non c’è dubbio che fu lui a istillare nei Tedeschi quella «rabbia teologica», che ancor oggi li spinge ad arruolare Dio anche nelle loro crociate più sfacciatamente anticristiane come quella del genocidio.

Ma tutti questi lati negativi non erano che il rovescio di quelli positivi, e non meno di questi contribuirono al suo successo. Le passioni lo accecavano, ma solo un uomo accecato dalle passioni poteva scendere in guerra contemporaneamente contro il Papato e contro l’Impero. Sul piano filosofico e dottrinario Melantone era molto più attrezzato di lui, più equo nei giudizi, più sottile, più penetrante. Ma le circostanze non richiedevano un intellettuale. Richiedevano soprattutto un lottatore, e Lutero lo fu con tutti i pregi e i difetti che un lottatore deve avere: il temerario coraggio, la forza di convinzione, l’impeto aggressivo, l’eloquenza gladiatoria, l’allergia al compromesso. Guai se egli avesse avuto il senso critico e lo scrupolo della giustizia: prima o poi avrebbe finito per arrendersi alle minacce o alle blandizie dei suoi avversari, e la Riforma sarebbe stata «riassorbita» da una Chiesa allenatissima a questo genere di operazioni.

Non c’è Cristiano, credo, che non consideri una catastrofe la rottura della Cristianità provocata dalla Riforma. Lutero stesso dimostrò, con le sue esitazioni, quanto fosse conscio e atterrito della responsabilità che si assumeva. La sua esemplare milizia di monaco agostiniano, la sua umiltà, la sua indifferenza a ogni ambizione di carriera, documentano che non agì per interesse personale. Il suo anelito di riportare la Chiesa alle sue pure fonti evangeliche era sincero e vibrante. Non fu il primo, non fu il solo a covarlo. Ma l’eccezionalità della sua figura sta nel fatto di averlo realizzato. Ognuno può giudicare il suo credo come vuole. Ma non c’è dubbio che da esso prese avvio il mondo moderno. Facendo del credente «il sacerdote di se stesso», senza l’intermediario del prete, l’obbligò ad assumersi le proprie responsabilità, senza possibilità di mettersene al riparo dietro le spalle del confessore: giuoco che si presta agl’imbrogli che tutti noi cattolici vediamo, sappiamo, e purtroppo pratichiamo. E infine separando in maniera definitiva e perentoria, secondo il principio dei «due regni», lo spirituale dal temporale, egli fondò lo Stato laico moderno redento da ogni ipoteca e vassallaggio clericale.

Questi sono i grandi meriti di Lutero nei confronti del mondo cristiano e della sua etica. Ma i Tedeschi hanno ragione di riconoscergliene anche degli altri. Coi suoi scritti, e specialmente con la sua splendida traduzione della Bibbia, egli fu per loro ciò che Dante era stato per l’Italia e Chaucer per l’Inghilterra: il padre della lingua. Non ne fornì soltanto il vocabolario, ma anche lo stile, il ritmo, il calore. Nessuno scrittore tedesco, nemmeno Goethe, è stato più tedesco di Lutero nella sua compatta densità, nel suo pugnace ardore, nei suoi furori apocalittici, nella sua risata gorgogliante, e se si vuole anche nella sua marziale e contadinesca rozzezza. Insomma, una figura a tutto sbalzo, un archetipo che, almeno sul piano umano, sovrasta anche quello dei suoi due grandi rivali nella leadership della Riforma: Zuinglio e Calvino.