Il suo vero nome era Giovanni Cauvin, latinizzato in Calvino secondo la moda del tempo. Ed era nato nel 1509, a Noyon, in Francia: una cittadina dominata dalla cattedrale e dal Vescovo. Suo padre Gerardo era appunto segretario amministrativo della diocesi, ma a un certo punto cadde in disgrazia per motivi disciplinari, fu scomunicato, e quando morì solo con molta difficoltà la famiglia ottenne di poterlo seppellire in luogo consacrato.
Quanto questo episodio abbia influito sull’apostasia di Giovanni, non sappiamo. Il ragazzo, rimasto ben presto orfano di madre, aveva avuto un’infanzia difficile con la matrigna, era stato avviato al sacerdozio insieme a due suoi fratelli e mandato a studiar lettere nel collegio di Montaigu, a Parigi. Ne uscì nel 1528, lo stesso anno in cui c’entrava Ignazio di Loyola.
Era stato un alunno diligentissimo, timido, taciturno, pio fino alla bigotteria, e poco amato dai compagni, un po’ per la sua sgobbonaggine, un po’ per i suoi atteggiamenti di moralista. Lo studio del diritto doveva affinare in lui questa vocazione censoria allenandolo a una casistica non meno puntigliosa e cavillosa di quella d’Ignazio e dei suoi gesuiti. Eppure il futuro puritano, spietato castigatore di peccati e generoso dispensatore d’inferno, debuttò con un elogioso saggio sul Della clemenza di Seneca.
Dopo la laurea era venuto in contatto con ambienti intellettuali che facevano capo a Roussel, un amico e consigliere di Margherita di Navarra, sorella del re Francesco I, e a Cop, rettore dell’università. Costoro sapevano di Lutero, ne conoscevano le opere e mostravano un vivo interesse alle sue teorie. Cop ne fece pubblicamente cenno, con simpatia, nella sua prolusione all’anno accademico 1533, e si dice che Calvino avesse collaborato alla stesura del testo. Ma non andò liscia. Professori e studenti reagirono con violenza alla dottrina della predestinazione e tacciarono di eresia chi, sia pur cautamente, mostrava di avallarla. Cop fuggì, inseguito da una taglia di trecento fiorini, e riparò a Basilea.
Ma un mandato di cattura fu spiccato anche per Roussel e Calvino, che si dettero entrambi alla macchia. Calvino trovò rifugio in casa di un amico ad Angoulême, ma dopo qualche mese tornò a Noyon. Due volte arrestato e due volte liberato, riprese la via di Parigi, di dove gli scrivevano che la tempesta si era quietata. Invece proprio in quel momento essa tornava a scatenarsi per il gesto provocatorio di alcuni estremisti che avevano affisso ai muri dei manifesti protestanti. Calvino fece appena in tempo a sottrarsi alla furiosa repressione ordinata dal Re fuggendo a Basilea.
Qui ritrovò Cop. E qui, a ventisei anni, pose mano all’opera che doveva fare di lui il più grande protagonista della Riforma insieme a Lutero: I principi della religione cristiana.
Composto in latino e pubblicato in poche centinaia di copie, il libro si esaurì con tale rapidità che l’editore si affrettò a stampare una seconda edizione ampliata. Ma Calvino, accorgendosi che il pubblico lo seguiva, ne preparò una terza in francese. È difficile dire quanto il successo che ottenne fosse dovuto al contenuto o alla prosa asciutta e tersa, che rappresenta ancor oggi un capolavoro stilistico. Fatto sta che da quel momento egli non fece, per tutta la sua vita, che ripubblicare quel testo di volta in volta arricchito fino a superare le mille pagine.
Esso si apre con un patetico appello al Re, la cui condotta autorizzava qualche speranza di guadagnarlo alla causa. Francesco perseguitava i protestanti francesi, ma nello stesso tempo invitava quelli tedeschi a far lega con lui nella lotta contro Carlo V. Dal piano politico il libro s’innalza su quello teologico per ribadire anzitutto il concetto della predestinazione. Un Cristo che assolve o condanna le sue creature prima ancora che nascano e indipendentemente dai loro meriti e demeriti – riconosce Calvino – può sembrare iniquo alla ragione dell’uomo. Ma lo sbaglio consiste nell’attribuire alla ragione dell’uomo il potere di comprendere le ragioni di Dio. Eppoi, ciò non significa che pregare e praticare le virtù cristiane sia inutile. Significa soltanto che non basta a modificare il nostro destino. Basta solo al compimento di un dovere, di cui dobbiamo essere paghi di per se stesso.
La Chiesa, come organizzazione, è una truffa che vive di altre truffe: a cominciare da quella sacrilega pretesa che ha la messa di trasformare materialmente il vino e l’ostia nel sangue e nel corpo del Signore, fino al culto idolatra delle immagini che viola apertamente il secondo Comandamento. La Chiesa vera è la comunità non di tutti i Cristiani, ma solo dei predestinati alla Grazia. Essa è invisibile perché chi e quanti siano costoro non è dato sapere. Poi ce n’è un’altra, visibile, rappresentata da coloro che professano la stessa fede e la praticano con una vita esemplare e la partecipazione al Battesimo e all’Eucarestia, unici sacramenti che Calvino riconosce. Questa Chiesa è divina perché ha ricevuto da Dio il mandato di regolare il costume, la morale, la coscienza e l’anima della società cristiana. Perciò l’autorità secolare, cioè lo Stato, deve sottoporsi a essa e diventare lo strumento di difesa contro la corruzione e l’«idolatria» (che nel vocabolario di Calvino è sinonimo di cattolicesimo).
Come si vede, il pensiero di Calvino attinge alle stesse fonti di quello di Lutero e di Zuinglio, che a loro volta avevano attinto a San Paolo e a Sant’Agostino. Anche la sua istanza teocratica di uno Stato al servizio della Chiesa è quella stessa di cui all’undicesimo secolo si era fatto banditore Gregorio VII nella sua lotta contro l’imperatore Enrico IV. Egli rimette in discussione l’Umanesimo e il Rinascimento, cioè tutt’i valori della cultura contemporanea, e ripiomba l’uomo nei terrori del più buio Medio Evo, lasciandolo in balìa di un Dio spietato che non gli concede nemmeno la facoltà di mutare il proprio destino con le preghiere e le buone azioni. A prima vista riesce quasi incomprensibile che un simile credo guadagnasse alla propria causa, la causa della disperazione, quasi tutta la Svizzera, buona parte della Francia e dell’Inghilterra, la Scozia, il Nord-America.
Ma l’incongruenza è solo apparente. Basta leggere Calvino per capire che, pur mettendosi nel mazzo di tutti coloro che ignorano il proprio fato, egli era profondamente convinto di appartenere ai pochi eletti avviati alla salvazione, e per sentirsi contagiati da questa certezza. Fu questo orgoglioso sentimento di appartenere a una minoranza prediletta da Dio che moltiplicò le forze, il coraggio, l’intraprendenza, lo spirito missionario dei puritani inglesi, dei patrioti olandesi in rivolta contro la Spagna, degli ugonotti francesi e dei «Padri Pellegrini» che nel secolo successivo sarebbero andati a colonizzare il nuovo continente. Per costoro la fede in Dio non era che la fede in se stessi, ch’è il miglior concime di qualunque impresa pionieristica e conquistatrice.
Così, grazie a Calvino, la dottrina della predestinazione, lungi dal provocare nel fedele la passiva rassegnazione a una sorte prefabbricata, ne esaltava la fiducia e lo slancio; e quella che in teoria avrebbe dovuto essere una religione dell’abbandono e dell’impotenza sul tipo di quella indù, in pratica si trasformava nel più volontaristico di tutt’i credo. Sebbene molti storici la contestino, a noi sembra giusta e inconfutabile la tesi di Max Weber: che il capitalismo, l’epopea americana e più tardi la rivoluzione industriale, insomma tutte le grandi avventure del mondo moderno, prendono avvio dallo spirito di crociata che Calvino seppe infondere nei suoi seguaci persuadendoli ch’essi erano, in un mondo di dannati, gli unici «unti del Signore» e che il segno di questa divina predilezione era il raggiungimento del successo contro qualsiasi ostacolo. Con ciò la ricchezza e la potenza cessavano di essere ambizioni mondane per diventare doveri morali, manifestazioni della Grazia, garanzie per l’aldilà.
Lo spirito dell’Occidente moderno, e specialmente dell’America, è tutto qui.
Non si sa molto dei successivi eventi della vita di Calvino. Secondo alcuni storici, mentre i tipografi di Basilea componevano i suoi Principi, egli scese in Italia e precisamente a Ferrara, chiamatovi dalla principessa francese Renata, figlia di Luigi XII e moglie del duca Ercole II d’Este. Poi intraprese altri viaggi, fra cui una rischiosa puntata a Noyon per vendervi alcune proprietà. Ma l’avvenimento decisivo fu la tappa che fece a Ginevra nel 1536.
Questa città, che ancora non faceva parte della Svizzera, era rimasta un viluppo di villaggi lacustri costruiti su palafitte come ai tempi di Cesare, sotto la sovranità puramente nominale dei Duchi di Savoia. Di fatto, il governo era esercitato da un Vescovo, ch’era anche Principe del Sacro Romano Impero, eletto di volta in volta dal Clero diocesano e che si serviva, come organo esecutivo, di un «Consiglio dei Sessanta», reclutati fra le famiglie più cospicue. Contro questa oligarchia ducal-clericale, si era però organizzato il movimento laico dei cosiddetti «Patrioti», che volevano affrancarsi sia dai Savoia che dalla Curia, e per raggiungere questo scopo avevano intavolato trattative coi protestanti tedeschi. Costoro li chiamavano Eidgenossen, che significa «amici giurati». E questo termine, storpiato nella lingua di Ginevra, ch’era ed è il francese, diventò Huguenots, in italiano «ugonotti».
Due mesi prima che Calvino arrivasse, costoro avevano vinto la battaglia. Il Vescovo era fuggito, le forze ducali che lo avevano sostenuto erano state scacciate; e la città, ora retta da un più democratico «Gran Consiglio», aveva proclamato la propria indipendenza politica e aderito al protestantesimo.
L’anima di questa conversione era stato Guglielmo Farel, alla cui infiammata parola nessuno sapeva resistere. Non gli resistette neanche Calvino quando Farel, avendo intuito in lui, di fresco arrivato, la passione teologica e il talento propagandistico, gli propose di aiutarlo a organizzare la sua nuova Chiesa riformata. Calvino non ne aveva voglia, considerandosi vocato solo a una vita di studioso e di scrittore. Ma dovette arrendersi alle suppliche – condite probabilmente di bibliche minacce – di quello scatenato, e in qualità di «lettore» iniziò le sue prediche nella chiesa di San Pietro, commentando le epistole stole di San Paolo, bussola e punto di riferimento di tutte le confessioni protestanti, componendo un Catechismo, e collaborando attivamente alla stesura di alcune leggi che miravano a fare di Ginevra un austero convento. Tutti erano obbligati a frequentare la chiesa. Ogni manifestazione di cattolicismo – il culto delle immagini e delle reliquie, l’uso del rosario, la preghiera a un Santo – era severamente punita. L’ubriachezza, il giuoco, l’adulterio, la frivolezza – compresa quella delle donne – comportavano la prigione.
I Ginevrini si stancarono presto di questa regola monacale. I Patrioti stavolta fecero lega coi cattolici e coi «libertini», cioè coi liberali. Contro questi ultimi, Calvino lanciò il suo anatema. E fu appunto lui che, facendone sinonimo di «corrotto», diede al termine «libertino» il significato che poi ha conservato. Comunque, questa coalizione riuscì a conquistare la maggioranza del Consiglio, lo ridusse a un organo laico cacciandone i pastori, e a questi ultimi intimò di astenersi dalla politica. Farel e Calvino scomunicarono la città e vi sospesero i servizi divini fin quando non si fosse conformata ai loro precetti, esattamente come facevano i Papi coi Comuni ribelli. Il Consiglio depose i due pastori e li espulse da Ginevra.
Farel si trasferì a Neuchâtel, dove seguitò a svolgere il suo ministero fino alla morte. Calvino si rifugiò a Strasburgo, una città «libera», cioè che concedeva libertà di culto, e fu assunto come pastore nella chiesa protestante degli stranieri. Per arrotondare il suo magro stipendio, prese a pensione degli studenti e decise di sposarsi. Scrisse a Farel che gli cercasse una moglie, e nelle istruzioni che gl’impartì c’è il ritratto dell’uomo. «Io non sono uno di quei pazzi amatori che, colpiti dalla bellezza di una donna, sono pronti ad abbracciare anche i suoi difetti. La sola bellezza che fa per me è quella di una creatura casta, cortese, semplice, economa, paziente e premurosa della mia salute.» Dopo molti ripensamenti, trovò tutte queste doti in una povera vedova oberata di alcuni figli, Idelette de Bure, che ne dette uno anche a lui. Ma il bimbo morì in tenera età, e dopo dieci anni di matrimonio la madre lo seguì nella tomba. Calvino non cercò di rimpiazzarla e si rassegnò alla solitudine per il resto della sua vita, ormai completamente dedita alla battaglia della Riforma.
Ginevra lo aveva richiamato, dopo il clamoroso fallimento del governo laico. Dei suoi quattro maggiori dirigenti, uno era finito in galera per omicidio, un altro per truffa, il terzo per tradimento, il quarto era stato ucciso mentre tentava di fuggire. I costumi si erano scandalosamente rilasciati: giuoco, ubriachezza e prostituzione imperversavano. E di tutto questo disordine approfittavano i cattolici per tentar di riguadagnare le posizioni perdute. I protestanti cominciarono a chiedersi se col bando inflitto a Farel e a Calvino non si fossero privati degli unici capi in grado di assicurare la stabilità del regime. E dei due moralisti considerando – per errore – Calvino il meno intransigente e intollerante, lo invitarono a tornare. Calvino accettò solo di rendere una visita ai suoi vecchi amici. Ma la loro accoglienza fu così calorosa e festosa che decise di restare.
La prima impresa cui si accinse fu la riorganizzazione della Chiesa riformata che, dopo la sua partenza, si era divisa come al solito in sètte litigiose. Per ristabilire unità di comando, Calvino istituì una «Venerabile Compagnia», cioè un Consiglio di pastori, che dettò il modello a tutte le Chiese riformate e presbiteriane d’Europa e d’America.
A differenza di quello cattolico, questo nuovo Clero non si attribuiva i miracolosi poteri di trasformare il pane e il vino nel corpo e nel sangue del Signore nell’Eucarestia, né di assolvere il peccatore e di commutargli l’inferno nel purgatorio. Anzi, non si attribuiva nemmeno nessun carattere sacerdotale perché l’essenza del calvinismo, sul piano gerarchico, è questa: che l’unico vero «sacerdote» è Dio. Ma in compenso il Concistoro o Presbiterio aveva illimitato diritto di supervisione e censura morale su tutta la cittadinanza. Poteva, anzi doveva tenere sotto controllo ogni casa e famiglia, convocare il fedele e sottoporlo a interrogatorio, accusarlo pubblicamente, multarlo e perfino bandirlo per le sue mancanze. Tutti erano obbligati ad ascoltare il sermone domenicale, anche i malati, anche i seguaci di un credo diverso, compreso quello cattolico. E tutti dovevano attenersi al rito d’obbligo e all’interpretazione della Scrittura fornita dal pastore. Per impedire che la Riforma seguitasse a frantumarsi in sètte, Calvino rinnegava il principio stesso che l’aveva originata: l’affrancamento della coscienza individuale dall’autorità del sacerdote. Chi non accettava il verbo di Calvino era considerato eretico. E siccome l’eresia a sua volta era considerata non solo un insulto a Dio ma anche un’offesa allo Stato, chi se ne macchiava veniva penalmente perseguito. In vent’anni cinquantotto eretici salirono il patibolo, e altre quattordici persone furono bruciate come «untori», agenti di Satana per seminar pestilenze.
C’è da chiedersi perché i Ginevrini sopportassero un simile regime. Ma il fatto è che l’ordine instaurato da Calvino si dimostrava il più proficuo per quella società d’intraprendenti industriali e mercanti. Anche Calvino, come Lutero, accettava l’ingiustizia sociale e la divisione in classi come volute da Dio e additava i segni della Grazia nella disciplina, nella diligenza, nella frugalità, cioè in tutto ciò che esclude la lotta di classe e torna a profitto del profitto. All’opposto dei teologi cattolici, egli ammetteva che il denaro fruttasse un interesse, pur assegnandogli come limite il cinque per cento. Sarebbe fare un torto agli altissimi valori spirituali del calvinismo il dire che il suo Dio era un Dio capitalista. Ma era comunque, almeno in pratica, un Dio che sembrava tagliato proprio sulla misura di quegli Svizzeri industriosi e attaccati al soldo. Tanto è vero che i primi centri europei in cui, dopo Ginevra, il calvinismo attecchì furono quelli di più avanzato sviluppo mercantile: Londra, Amsterdam, Anversa; e a farsene banditrici furono le classi medie in impetuosa crescita, cui conveniva una religione che accettava i postulati dell’economia moderna, e anzi li consacrava.
A un uomo che rendeva simili servigi si poteva anche perdonare i difetti che rendevano piuttosto pesante il suo giogo. Certo, i Ginevrini che avevano invitato Calvino al ritorno considerandolo più ragionevole e tollerante di Farel avevano ora di che ricredersi. Ma pretesti per attaccarlo non ce n’erano poiché egli razzolava nello stesso modo in cui legiferava e predicava. Non aveva un vizio. Mangiava poco, e spesso digiunava del tutto, era astemio, lavorava dalle quattordici alle diciott’ore al giorno, non gli si conosceva né una debolezza né un’indulgenza. Rassomigliava insomma allo spietato Dio, al terribile Giudice che descriveva nei suoi sermoni.
Il ritratto a olio che ci resta di lui nella biblioteca dell’Università di Ginevra ne fornisce anche una conferma fisica: la fragilità del corpo, il pallore del volto, la fronte stempiata, l’intensità dello sguardo, più che del mistico, sono i tratti del fanatico, ma di sangue ghiaccio e d’intelligenza lucida e ordinata. Calvino non aveva il calore umano e il sanguigno impeto di Lutero. Ma in compenso possedeva il metodo sistematico dell’organizzatore e la chiarezza raziocinante del legislatore, spinta fino alla pedanteria. Nella sua smania di fare di Ginevra la «città di Dio», dettava perfino le diete ai cittadini, prescriveva i colori degli abiti, faceva imprigionare le donne che ostentavano gioielli e pettinature provocanti, imponeva nomi biblici ai neonati, e una volta inflisse quattro giorni di carcere a un padre che pretendeva di chiamare suo figlio Claudio invece che Abramo. Sotto la timidezza nascondeva un immenso coraggio, e dietro la ritrosia uno smisurato orgoglio. La totale mancanza di umorismo lo rendeva sensibilissimo alle critiche. La censura che aveva istaurato sui libri gli serviva per purgarli non solo delle offese a Dio e alla morale, ma anche di quelle a Calvino, molto più infallibile e intoccabile del Papa. Quando un «libertino» affisse un manifesto contro di lui tacciandolo d’ipocrita, Calvino lo fece arrestare, torturare finché ebbe confessato, eppoi decapitare. Egli stesso si rendeva conto di questi eccessi e cercava di controllarsi. Ma a un amico confessò che incontrava meno difficoltà a combattere gli eretici che a domare «la selvaggia bestia della mia rabbia». Nelle dispute di dottrina era terribile, e specialmente nell’«affare Serveto» colui che aveva tanto elogiato la clemenza di Seneca dimostrò quanto ne fosse incapace.
Michele Serveto era un «notabile» spagnolo, le cui avventure teologiche riflettevano esemplarmente l’inquietudine spirituale dell’epoca. Fin da ragazzo s’era imbevuto di Bibbia e di Corano, e a vent’anni aveva pubblicato un libello in latino, in cui ribadiva la tesi musulmana secondo cui la Trinità non era che una forma abilmente truccata di politeismo, come il culto dei Santi.
Questo attentato al dogma lo aveva esposto alla persecuzione e obbligato alla fuga. Serveto si era trasferito sotto falso nome a Parigi, vi aveva studiato un po’ di tutto, aveva collaborato col grande Vesalio ai primi esperimenti di dissezione anatomica; ma poi, ripreso dal furore teologico, si era trovato coinvolto nell’eresia di Cop e costretto a una seconda fuga a Lione. Qui aveva pubblicato prima un saggio sulla geografia tolemaica, poi una traduzione in latino della Bibbia in cui aveva spiegato che nella profezia di Isaia («Una vergine concepirà») la parola «vergine» non andava intesa nel senso nostro, ma in quello ebraico di «giovane donna» cui non occorre nessun miracolo per restare incinta e concepire.
Questa tesi lo espose alle ire non soltanto dei cattolici, ma anche dei protestanti. Il loro concentrico assalto, lungi dallo scoraggiare, esaltò la furia polemica dell’intrepido e appassionato Spagnolo, che in quel momento si era rituffato negli studi di medicina e stava componendo un saggio sulla sua ultima scoperta: la circolazione del sangue fra il cuore e i polmoni, che basterebbe ad assicurargli un posto di prima fila nella storia della scienza. Serveto ridiscese nell’arena teologica e, solo contro tutti, pubblicò un trattato per confutare i Principi di Calvino e soprattutto la dottrina della predestinazione. La diatriba fra i due si accentuò nelle lettere che si scambiarono privatamente, così cariche d’insulti che Calvino scrisse a Farel: «Se Serveto viene a Ginevra, farò in modo che non ne esca vivo».
Serveto a Ginevra ci venne, dando prova di una temerità che rasentava la follia. Ma prima ancora Calvino aveva cercato di annientarlo con espedienti che non gli fanno onore. Lo Spagnolo aveva pubblicato la sua confutazione, che comprendeva anche le lettere private all’avversario, firmando solo con lo pseudonimo. Arrestato e incriminato di eresia dall’inquisitore di Lione, negò di essere l’autore di quell’opera. Calvino si affrettò a fornire all’accusa gli originali di quelle lettere: prova irrefutabile della identità di Serveto. Pur di distruggere il suo nemico, Calvino era pronto a collaborare anche con l’Inquisizione, che infatti condannò a morte il prigioniero.
Questi riuscì a evadere e, fremente d’odio e di vendetta, si presentò a Ginevra. Calvino lo fece arrestare. Trattandosi di un ospite di passaggio, la pena massima prevista dalla legge era l’espulsione. Ma Calvino, rotto com’era a tutti i cavilli giuridici, riuscì a farlo incriminare di eresia. Seguì un clamoroso e spettacolare processo in cui accusato e accusatore si affrontarono in una battaglia da circo, che toccò insieme i vertici delle più alte discussioni teologiche e delle più basse risse da trivio. Mezza Ginevra, tutta quella «patriota» e «libertina», parteggiava per Serveto; e forse fu proprio questo a irrigidire Calvino nella sua richiesta di morte. Prima di pronunciarsi, il tribunale sollecitò il parere di tutte le altre Chiese protestanti della Svizzera. Unanimemente esse chiesero una condanna, a esclusione di quella capitale. Ma la volontà di Calvino riuscì a prevalere di tutto e di tutti. Senza un briciolo di carità né di rimorso, egli scrisse più tardi, ungendo la vendetta di sarcasmo, che quando Serveto udì la sentenza che gli comminava il rogo, «cominciò a lamentarsi come un pazzo, battendosi il petto e mugolando in spagnolo: “misericordia, misericordia!”» L’unico suo gesto di generosità verso la vittima fu di offrirgli la consolazione della vera fede, se ritrattava le sue eresie. Serveto rifiutò. Chiese soltanto che gli commutassero il rogo nella decapitazione. Calvino vi si mostrò disposto, ma Farel insorse tacciandolo di «debolezza» eppoi inseguì la vittima, mentre la conducevano al supplizio, ingiungendole di riconoscere e ritrattare i suoi errori. Ancora una volta Serveto rifiutò, e prima di scomparire tra le fiamme impetrò da Dio il perdono dei suoi persecutori.
Era il 1553. Esattamente tre secoli e mezzo dopo, nel 1903, la calvinista Ginevra decise d’innalzare un monumento a Serveto sulla collina che ne aveva visto il martirio. Ad aprire con una cospicua offerta la lista delle sottoscrizioni fu la «Venerabile Compagnia» di Calvino.
Morto in odor di eresia sia dei protestanti che dei cattolici, Serveto non trovò avvocati difensori né fra questi né fra quelli. Sia detto a nostro onore, gli unici che ne esecrarono il supplizio e ne rivendicarono pubblicamente l’innocenza furono tre intellettuali italiani emigrati a Ginevra: Matteo Gribaldi, Giorgio Blandrata e Valentino Gentile. I primi due furono per questo loro gesto perseguitati ed espulsi, Gentile ci rimise addirittura la testa, e non in senso traslato perché lo decapitarono.
Quanto a Calvino, non risulta che la sua coscienza fosse turbata dal rimorso. Anche a ceneri raffreddate, egli seguitò a imperversare sulla sua vittima con un libello Contro i prodigiosi errori di Michele Serveto. Era convinto di aver interpretato, mandandolo al rogo, la volontà di Dio; e dopo questo gesto si sentiva più che mai «unto del Signore». A procurargli triboli era soltanto il corpo. Sempre più era afflitto da emicranie lancinanti, coliche renali, asma e gotta. Ma non smise di predicare nemmeno quando non fu più in grado di muoversi e dovettero trasportarlo in chiesa su una lettiga. Neanche in punto di morte ebbe dubbi e ripensamenti. Chiese solo scusa agli astanti dei suoi soprassalti di collera e il 25 aprile del 1564 chiuse gli occhi col sereno intrepido coraggio dell’uomo di fede.
Di tutti grandi riformatori, era stato senza dubbio il meno amabile e umano, ma anche il più efficiente sul piano organizzativo e il più incisivo su quello morale. Ultimo arrivato della grande rivoluzione protestante, egli strappò mezza Europa e quasi tutto il Nord-America a Lutero, confinandone l’influenza alla Germania e alla Scandinavia. Fu in suo nome e sotto il suo influsso che presero avvio le più esaltanti imprese del mondo moderno.