Di fronte alla grande battaglia che metteva a soqquadro la Chiesa e la coscienza cristiana, Erasmo assunse atteggiamenti contraddittori che dimostrano il suo crescente disagio. Lo abbiamo lasciato in Belgio, consigliere privato del futuro imperatore Carlo V. Era ancora lì, e insegnava latino all’Università di Lovanio, quando Lutero affisse le famose Tesi. Leggendole, Erasmo non ne fu affatto scandalizzato. Anzi ne mandò copia ai suoi amici inglesi Moro e Colet accompagnandole con parole di elogio, e più tardi scrisse a un amico: «Io credo che queste tesi piaceranno a tutti… La Curia romana è la rovina della Cristianità».
Ma quando dalla critica delle indulgenze Lutero passò al disconoscimento dell’autorità del Papa e dei Concili, Erasmo diventò più cauto. Il Papa era quel Leone X dal quale egli aveva ricevuto particolari favori e al quale si sentiva legato da interessi di cultura umanistica. Ma oltre a questo, c’era anche un fatto di temperamento.
Erasmo era uomo di discussione sul piano filosofico, magari anche di polemica, ma non di lotta. Egli voleva, sì, una riforma della Chiesa, ma non la Riforma, cioè la rivolta portata fino allo scisma. Per cui fu profondamente turbato, quando molti teologi ortodossi cominciarono a mormorare che il vero ispiratore di tutto quello sconquasso era lui e che Lutero aveva soltanto covato l’uovo che Erasmo aveva deposto. «Sì,» rispose con la sua tagliente ironia «ma il mio uovo era di gallina. Lutero ne ha tratto fuori un gallo da combattimento.»
Un po’ per dimostrare la sua buona fede, un po’ per evitare che le cose arrivassero al punto d’imporre anche a lui una scelta cui il suo carattere conciliante e l’amor del quieto vivere repugnavano, ma un po’ anche per la sincera preoccupazione di una drammatica rottura dell’unità cristiana, si era messo in contatto con gli ambienti cattolici più liberali e «aperti», Colet, Moro, il vescovo Fisher, l’arcivescovo Warham, per spingere la Chiesa a concessioni che spianassero la strada a un compromesso disarmando gli estremisti della parte avversa. Ma Lutero non gliene diede il tempo. Il monaco ribelle, che sebbene così dissimile da Erasmo, o forse proprio per questo, nutriva una sconfinata ammirazione per lui e ne aveva divorato tutte le opere, gli scrisse una lettera piena di devoto affetto in cui, riconoscendolo suo maestro, ne invocava l’appoggio.
Erasmo si sentì solleticato nella sua vanità, ma anche profondamente imbarazzato. Che fare? Restare il figlio della Chiesa, o diventare il padre della Riforma? La sua perplessità è documentata nella risposta: «Carissimo fratello in Cristo, le vostre parole, che dimostrano l’acutezza della vostra mente e il calore di uno spirito religioso, mi giunsero particolarmente gradite. Non vi potete figurare l’emozione che i vostri scritti stanno suscitando qui. Io non riesco a dissipare nei lettori il sospetto che a ispirarli sia stato io e che io perciò sia il vessillifero del vostro partito. Ho giurato che mi siete del tutto sconosciuto, che sinora non avevo mai letto libri vostri, che non li approvo né li disapprovo, ma che tutti dovrebbero leggerli prima di parlarne a vanvera. Invano. Continuo a essere il bersaglio della generale animosità… Qui voi avete degli amici, a cominciare da me. Ma il mio pane è la letteratura. A questa cerco di limitare i miei interessi, tenendomi il più possibile estraneo ad altre dispute, nelle quali tuttavia penso che la cortesia sia più produttiva della violenza. Perciò credo che sarebbe più saggio da parte vostra denunziare coloro che abusano dell’autorità del Papa che non censurare lui, e seguire la stessa regola per i Re e i Principi. Le vecchie istituzioni non possono essere sovvertite dall’oggi al domani. Evitate i toni sediziosi. Mantenetevi calmo. Non incolleritevi. Non odiate. Cristo vi dia il Suo spirito per la Sua gloria e il bene di tutti».
A conferma dell’ambivalenza di questa lettera, Erasmo ne scrisse altre due: una a Froben, editore suo e di Lutero, sconsigliandogli di pubblicare altri scritti del monaco; l’altra all’elettore Federico di Sassonia per incoraggiarlo a proteggere il ribelle. Ma quella posizione di equilibrio era difficile da mantenere proprio nel momento in cui l’estremismo prendeva il sopravvento da una parte e dall’altra. Il Clero fiammingo reclamò e ottenne la sua estromissione dalla cattedra di Lovanio. Questa mossa, per dirla con Talleyrand, era peggio che un delitto; era un errore, che avrebbe potuto spingere definitivamente l’amareggiato Erasmo nelle braccia di Lutero facilitandone il trionfo, se costui, non meno irriducibile e massimalista dei suoi avversari, non avesse reagito alla scomunica del Papa scomunicandolo a sua volta, bruciandone pubblicamente la «bolla» e invitando i Tedeschi a «lavarsi le mani nel sangue dei Vescovi e dei Cardinali».
Questo era troppo per Erasmo, che se ne dichiarò indignato. Lutero, ormai disperando di guadagnarlo alla sua causa e fedele al motto di tutti fanatici: «Chi non è con noi è contro di noi», gli si scagliò contro tacciandolo di codardo, rinnegato, camaleonte, disertore, e altre qualifiche in tono col suo stile polemico. Ma nemmeno questo brutale e malaccorto attacco disarmò le diffidenze e l’acredine dei prelati fiamminghi che seguitarono a considerare Erasmo un criptoluterano o, come oggi si direbbe, un «compagno di viaggio».
Disgustato, Erasmo si ritirò a Basilea, la cittadella dell’Umanesimo svizzero, rimasta fin’allora estranea alla mischia. Sperava di ritrovarvi la pace. Ma fu raggiunto da una lettera di papa Adriano VI, suo vecchio amico dei tempi di Utrecht, succeduto a Leone. Essa documenta l’immenso credito che lo scrittore seguitava a godere, malgrado l’ostracismo inflittogli da ambedue le parti. «Sta a voi, con l’aiuto di Dio, recuperare le anime deviate da Lutero… Venite a Roma da me, che son rimasto quello che avete conosciuto quando eravamo insieme studenti… Ho bisogno del vostro consiglio».
La risposta di Erasmo era piena di amarezza: «Voi pensate che le mie parole abbiano ancora qualche peso. Purtroppo la popolarità di cui godevo ha ceduto il posto all’odio. Il Principe delle Lettere, come un tempo mi chiamavano, la Stella della Germania, l’Alto Sacerdote della Cultura, il Campione della Pura Teologia, non è più nulla di tutto questo. Una parte dice che io sono per Lutero perché non sono contro di lui; l’altra dice che io sono contro Lutero perché non sono per lui. Nei miei libri c’è materia per sostenere l’una e l’altra tesi. Ma anche in San Paolo ci sono dei passaggi che avallano le dottrine di Lutero. La verità è che io da Lutero dissento…»
Adriano morì subito dopo. Ma il suo successore Clemente VII si avvalse di questa dichiarazione per sollecitare Erasmo in termini ancora più pressanti a schierarsi con la Chiesa. Erasmo finì per arrendersi, e compose un trattato, De libero arbitrio, con cui rifiutava, pur senza direttamente attaccarla, la tesi fondamentale di Lutero: la predestinazione. Certamente lo fece per sottrarsi al pericolo della scomunica e della persecuzione, ora che la Chiesa accennava a restaurare i metodi inquisitoriali e polizieschi. Ma non solo per questo. Il fatto è che un uomo della sua formazione spirituale e culturale non poteva assumere altro atteggiamento.
La Chiesa aveva non soltanto tollerato, ma incoraggiato l’Umanesimo, restandone essa stessa profondamente intrisa. Specialmente i Papi dell’ultimo Quattrocento avevano aiutato e finanziato la riscoperta di testi classici, sul tacito presupposto che questo ritorno ai modelli filosofici, letterari e artistici della grande civiltà pagana restasse confinato alle élites d’Europa senza turbare l’ortodossia delle masse. Il fatto che queste élites non comunicassero fra loro che in latino le riduceva a una specie di accademia senza contatti col popolo. Era insomma una cultura di «notabili», aristocratica e iniziatica, che poteva adottare Aristotele e mettere Platone alla pari di Gesù, aggirare il dogma e perfino bestemmiare, senza gettare lo scompiglio nel gregge. Gli umanisti, fra i quali militavano anche dei Papi, non erano degli eretici. Erano soltanto degl’increduli, privi d’interessi teologici. Essi criticavano la Chiesa, ma ne apprezzavano la tolleranza e soprattutto ci vedevano il puntello di quella unità spirituale e culturale che meglio si confaceva al loro universalismo. Erasmo non si sarebbe mai rassegnato a essere uno scrittore soltanto fiammingo. Egli voleva corrispondere con Moro e Colet a Londra, coi Cardinali di Roma, con Manuzio a Venezia, con Froben a Basilea. Per questo non aveva mai voluto scrivere e parlare che in latino, questo esperanto della intellighenzia europea, ch’era anche la lingua della Chiesa: una Chiesa che, proprio grazie all’Umanesimo, aveva sempre più accantonato il retaggio biblico ed ebraico, per fare sempre più posto a quello della cultura pagana di Roma e della Grecia.
La Riforma rompeva brutalmente questo idillio fra Chiesa e cultura. Gli umanisti avevano dapprima creduto di vedere in Lutero un monaco semplicione che, avendo preso sul serio le loro critiche a un certo malcostume del Clero (di cui essi stessi erano, sì, i denunziatori, ma anche i maggiori responsabili), s’illudeva di potervi rimettere ordine. Ma sorrisero del suo rozzo e lutulento latino, e più ancora della foga, del calore, della passione che portava nelle sue diatribe sulla consustanziazione e la Trinità. Questi problemi ormai essi li avevano relegati in soffitta, appartenevano al repertorio medievale. Come poteva, uno spirito moderno, prenderli ancora sul serio?
Ma il rapido diffondersi dell’incendio e i suoi effetti devastatori li obbligarono a ricredersi. Con Lutero, che scriveva e parlava in tedesco, le lingue nazionali prendevano il sopravvento sul latino e fornivano alle masse il mezzo per partecipare ai problemi culturali del momento. Il monopolio delle élites finiva. E finiva anche il loro costume, il loro gusto, la loro mentalità. La Riforma spogliava le Chiese mettendo al bando le opere d’arte, rituffava la coscienza dei fedeli nei terrori dell’anno Mille richiamando in servizio il Diavolo che la Chiesa del Rinascimento aveva congedato, svalutava la vita terrena rifacendone la semplice anticamera dell’aldilà, spodestava la ragione a beneficio della fede; e dando con la dottrina della predestinazione per predisposto e inevitabile tutto ciò che accadeva sulla terra, negava tutti i valori di cui l’uomo rinascimentale aveva acquistato l’orgoglio: l’intelligenza, il coraggio, l’iniziativa, la sapienza.
Erasmo non poteva accettare nulla di tutto questo. Egli vide chiaramente – e lo disse – che dovunque la Riforma trionfava, la cultura declinava. Lutero rispose che a declinare non era tutta la cultura, ma soltanto quella pagana, cioè non cristiana. Aveva ragione. Ma per l’umanista Erasmo non ce n’erano altre.
Così il crepuscolo della sua vita coincideva con quello del suo mondo. Seguitò ad agitarsi per cercare un impossibile compromesso fra le due opposte concezioni. Raccomandava a tutti prudenza e misura. Sollecitava riforme come unico antidoto alla Riforma. C’era ancora molta gente che lo ammirava e gli dava ascolto. Dovunque andasse, lo accoglievano con grandi onori; e quando la pensione che gli passava Carlo V cominciò a farsi saltuaria, intervennero i Fugger con cospicue sovvenzioni. Ma sentiva l’inutilità della sua lotta e sempre più era sopraffatto dallo scoraggiamento. Il grande Dürer ne colse con mano maestra l’ombra nel ritratto che gli fece in questi tempi e che lo mostra ancora più magro, esangue e impresciuttito del solito, col volto devastato di rughe e le mani rattrappite dall’artrite. La gotta, i calcoli, i disturbi intestinali si erano acuiti. Ogni più piccolo sbalzo di temperatura gli provocava una bronchite. E questo lo costringeva a restarsene confinato in casa, e spesso a letto. Le visite e le lettere degli amici diradarono. Froben, che lo teneva ospite in casa sua, non osava dirgli che i suoi libri, un tempo delizia di tutta l’Europa colta, ingombravano il magazzino della stamperia perché non trovavano più lettori. Il nuovo pubblico, rozzo e ignaro di latino – il pubblico di Lutero –, non mostrava alcun interesse per la letteratura, era assetato solo di Dio, di Bibbia e di teologia. Ma Erasmo, che aveva sempre sentito tutto col suo infallibile fiuto di giornalista, probabilmente sentiva anche questo.
Nel giugno del 1536 fu colpito da un attacco di dissenteria, e capì ch’era la fine. Ma non chiamò il confessore. E così l’uomo che al momento della scelta suprema aveva preferito la fedeltà alla Chiesa, chiuse gli occhi invocando il nome di Cristo e di Maria, ma senza i sacramenti. Basilea gli tributò solenni esequie e ospitò i suoi resti nella cattedrale. Ma le sue traversìe non erano finite. I protestanti seguitarono a tacciarlo di codardia e di diserzione; i cattolici lo accusarono di eresia e proibirono la ristampa dei suoi testi. Ancora due secoli dopo Walpole lo definiva «un parassita mendicante, che aveva avuto abbastanza talento per vedere la verità, ma non abbastanza coraggio per professarla».
Solo nell’Ottocento, a polemica placata, le due Chiese abbandonarono questa nobile gara di acredine e di ottusità nei confronti di Erasmo, e ne riconobbero la grandezza. I fanatici non potevano capirla. E questo è il miglior elogio che gli si possa fare.