CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

PANORAMA ITALIANO

L’Italia era ormai un dominio spagnolo, di cui Napoli e Milano costituivano i capisaldi.

Dal 1504, la città partenopea era governata da un viceré, che in nome di Madrid vi esercitava il potere assoluto. Dapprincipio egli si servì dell’elemento indigeno, ma col tempo ogni funzione pubblica diventò monopolio di Castigliani e Aragonesi. Nella capitale stanziava un piccolo esercito, bene armato e di una fedeltà a tutta prova. Sugli abitanti vigilava un’efficiente polizia, da cui dipendevano e a cui facevano capo centinaia di spie e informatori. Speciali corrieri facevano la spola fra Napoli e Madrid, di dove partivano gli ordini ai governatori e ai viceré del più vasto impero del mondo.

Nei primi decenni del Cinquecento, Napoli era una delle città più popolose della Penisola. L’inurbamento dei Baroni dalle campagne ne aveva dilatato i confini e al tempo stesso aveva introdotto nella capitale un pericoloso elemento d’instabilità. La riottosità e spavalderia di questi nobilucci di campagna, l’insolente fasto di cui facevano sfoggio, l’ostentato disprezzo per ogni genere di lavoro furono all’origine di un costume e di una mentalità che purtroppo si sono perpetuati fino ai nostri giorni.

Non meno corrotta e socialmente quasi altrettanto inutile era la borghesia, formata di speculatori e avvocati. I primi appaltavano gabelle, gestivano banche, costruivano palazzi, esportavano frumento, importavano manufatti. Molti erano forestieri, soprattutto genovesi e fiorentini. I secondi erano in maggioranza indigeni. Il loro numero era enorme, ma bastavano appena al fabbisogno della capitale, i cui passatempi preferiti erano già allora le contese giudiziarie. Data da quei tempi, anche se il modello si perfezionò nel secolo successivo, la formazione del meridionale leguleio, faccendiere, imbroglione, esperto di cavilli, e quella del magistrato formalista che allo scrupolo del codice sacrifica quello della giustizia: una malformazione che seguita a contaminare l’Italia tutta.

Le condizioni della plebe erano migliori che nel resto del Mezzogiorno ma peggiori che nel resto d’Italia. I Napoletani godevano infatti di numerosi privilegi, fra cui l’esenzione dal focatico, o imposta di famiglia; ma vivevano ammucchiati come acciughe in luridi bassi, infestati da topi e pidocchi. In una città come quella priva d’industrie, e quindi di fonti di lavoro e di guadagno, campavano di elemosine e di piccoli espedienti, e la loro fisiologica e cronica disponibilità a ogni tentativo d’eversione sociale era la costante preoccupazione dei viceré. Costoro, più che a sfamare le masse, pensavano a divertirle con spettacoli pirotecnici, parate, esecuzioni capitali, funerali, messi in scena senza economia e con sfarzo tutto spagnolesco.

Nel 1532 fu nominato viceré il marchese di Villafranca don Pedro di Toledo, un moralista duro e autoritario ma efficiente, che governò Napoli per oltre vent’anni, elevò il tenore di vita dei suoi abitanti e abbellì la città. Per tenere a bada plebe e aristocrazia, aizzò l’una contro l’altra, ergendosi ad arbitro delle contese che opponevano continuamente questa a quella. Sotto di lui, i delitti, i furti e le rapine diminuirono e la corruzione trovò un argine. Bandì i duelli, proibì le musiche notturne e le «ciambellarie», burle di giovinastri ai danni delle vedove che si rimaritavano, riunì i bordelli in un unico quartiere, vietò alle loro inquiline di uscirne, fece radere al suolo le grotte di Chiatamone, luogo di convegno di pederasti e baldracche, comminò pene severissime a coloro che di notte si facevano vedere in giro con scale a piuoli, di cui i Napoletani si servivano per compiere i furti e rapire donne. Perseguitò gli usurai e istituì il Monte di Pietà, bonificò paludi, costruì case, scuole, ospedali, elargì sussidi ai disoccupati e proibì le «superstiziose dimostrazioni di duolo, che si facevano ne’ funerali, non solo con lungo e smoderato strascico d’abiti luttuosi, ma anche con urli e pianti e graffiature di viso, fino a mezzo delle pubbliche strade».

Dalla Spagna importò le corride, di cui era un patito. Scendeva personalmente nell’arena, e una volta fu ferito alla coscia da una cornata. Ma i Napoletani erano piuttosto allergici a questo genere di spettacoli, che spesso si concludevano con autentiche ecatombi di tori e toreri. Preferivano sport e giuochi meno cruenti. Erano già fin d’allora la più festosa, pittoresca e spensierata popolazione italiana, che dimenticava facilmente i propri guai. E fu questo a facilitare la dominazione vicereale, che durò due secoli e isolò il Mezzogiorno dal resto della Penisola.

L’altro caposaldo iberico in Italia era Milano. Per il suo possesso, Spagnoli e Francesi erano ripetutamente scesi in campo e con alterne vicende ne erano stati di volta in volta i padroni. Nel 1526, col trattato di Madrid, il Ducato era stato assegnato, sia pure solo nominalmente, a Francesco Maria Sforza, secondogenito di Ludovico il Moro. Di fatto su di esso esercitava un controllo assoluto Carlo V, che nel 1535, alla morte di Francesco, ufficialmente se l’annesse, nominandovi un governatore.

Le innumerevoli guerre di cui era stata teatro avevano ridotto Milano a un cimitero. L’industria era stremata, il commercio languiva, molti artigiani avevano dovuto chiudere bottega; nelle campagne, saccheggiate dagli eserciti, i raccolti non bastavano a sfamare nemmeno i contadini. Il patriziato, che sotto gli Sforza costituiva il ceto dominante e deteneva il capitale, era stato dissanguato dalle lotte di parte, che l’avevano diviso in fazioni favorevoli ora alla Francia ora alla Spagna.

Con l’avvento di quest’ultima, il Ducato si ridusse al rango di colonia e conobbe uno dei periodi più tristi della sua storia. All’inizio vi regnò il caos, aggravato dall’inettitudine e dalla rapacità dei primi governatori. Solo nell’agosto del 1545, Carlo si decise a dare un assetto stabile. Al vertice della gerarchia era un governatore dal quale dipendevano l’amministrazione e la giustizia. Gli editti e le leggi che in nome del sovrano egli emanava si chiamavano «gride» e venivano rese pubbliche da araldi che le «strillavano» per le strade. Il supremo organo giudiziario era il Senato, che sulla carta godeva di ampia autonomia ma in pratica era il notaio del Re di Spagna, di cui passivamente registrava gli atti. I suoi membri erano in gran parte nobili e patrizi di collaudata fedeltà alla corona. L’ultima opposizione alla Spagna era stata brutalmente liquidata. Il partito filofrancese era stato sciolto e i suoi membri decapitati o banditi. Un sudario di conformismo, aduggiato dalla trionfante reazione cattolica, avvolse il Ducato e ne inaridì la vita. Per Madrid, Milano non era solo una provincia da sfruttare e uno scudo contro la Francia. Era anche un ideale osservatorio su altri due importanti Stati: Genova e Torino.

Fin dal 1528 la città ligure era entrata nell’orbita spagnola. In quell’anno il celebre ammiraglio Andrea Doria, rampollo di una delle famiglie più potenti della Repubblica, gettava le ancore nel porto di Genova issando lo stendardo imperiale. Fino a poco tempo prima aveva militato sotto le insegne della Francia, che esercitava il pieno dominio sulla Liguria. A provocare il voltafaccia era stata la promessa di Carlo di scacciare i Francesi e restituire ai Genovesi la libertà. Il colpo riuscì, e la Repubblica riacquistò la propria indipendenza, almeno sulla carta. L’ammiraglio risparmiò a Carlo lo scomodo di spedire a Genova un viceré assolvendone egli stesso le funzioni, e a Genova l’umiliazione di essere governata da uno straniero. La città gli dimostrò la sua gratitudine offrendogli il titolo di Duca. Ma il Doria preferì quello di «Padre della Patria» un po’ perché comportava l’esenzione dalle tasse (era genovese, no?), un po’ perché, sebbene avesse superato la sessantina, non voleva rinunziare alla carriera d’ammiraglio. Nel 1531, infatti, si rimise in mare, espugnò Patrasso, Sicione e Corinto, e condusse Carlo alla conquista di Tunisi.

Ogni suo ritorno a Genova veniva salutato da fiaccolate, fuochi d’artificio, feste, balli. Ma sotto la cenere della concordia covava la brace della ribellione. I Fieschi, pur ostentando il più gran rispetto per l’ammiraglio, trescavano coi Francesi contro di lui. Quando il Doria fu informato della congiura non volle crederci. Gian Luigi Fieschi, che la capeggiava, era uno dei suoi amici più assidui. Quando si vide scoperto, cercò di mettersi in salvo su una nave, ma nel salirvi cadde in mare e scomparve tra i flutti. Il fratello Girolamo riuscì a rifugiarsi nel suo feudo di Mondobbio, da dove, alcuni mesi dopo, fu snidato e impiccato. La vendetta di Andrea s’abbatté su tutti i cospiratori e le loro famiglie. Dopodiché egli si sentì più che mai «Padre della Patria» e, sebbene la gotta non gli desse tregua, si mise nuovamente alla testa della flotta della Repubblica e la lanciò contro i corsari che infestavano il Tirreno. Fu una delle sue ultime imprese. Il 25 novembre 1560, all’età di novantaquattro anni, calò nella tomba.

In Piemonte l’egemonia spagnola era stata più a lungo contrastata. La geografia poneva il Ducato di Savoia nella sfera d’influenza francese, e la lingua e i costumi ricalcavano quelli d’oltralpe. Tra la fine del Trecento e il principio del Quattrocento, mentre in Francia divampava la Guerra dei Cent’Anni, il Piemonte era riuscito ad allentare i propri vincoli col potente vicino e per un certo tempo aveva goduto di una relativa indipendenza. Ma con l’avvento al trono di Luigi XI era ripiombato sotto l’egemonia francese, invano contrastata dalla Spagna.

Non contento d’esercitarvi questo dominio di fatto, nel 1536 Francesco I decise d’annettersi il Piemonte e di farne una base per la riconquista del Milanese. Il 3 aprile, senza colpo ferire, l’esercito francese occupò Torino. Francesco diede alla città un parlamento, privilegio concesso ai territori del Regno a diritto misto, ma ordinò la chiusura dell’università, una delle più rinomate della Penisola, per paura che diventasse un focolaio d’irredentismo.

La dominazione francese non era però destinata a durare a lungo. Carlo V, colto di sorpresa dalla mossa francese, non tardò a reagire. Le forze dei due sovrani si logorarono per quasi vent’anni in una serie d’inutili guerricciole e scaramucce, che insanguinarono il Piemonte fin quando, nel 1556, Emanuele Filiberto di Savoia si schierò con Filippo II, anzi fu nominato comandante dell’esercito spagnolo che a San Quintino sconfisse quello francese. La Spagna poteva ora contare su un suo Doria anche in Piemonte. Il Nord della Penisola era interamente nelle sue mani.

Ma anche al Centro Madrid aveva importanti pedine. A Firenze la caduta della Repubblica aveva riportato al potere i Medici. Il duca Alessandro governava con pugno di ferro. La sua elezione aveva ingrossato le file dei fuoriusciti, che l’accusavano di tirannide e d’immoralità e chiedevano all’Imperatore la sua testa. Carlo V indisse a Napoli una specie di tribunale. Alessandro vi si presentò e fu assolto, grazie alle arringhe dei suoi avvocati Baccio Valori e Francesco Guicciardini. L’Imperatore, per farsi forse perdonare di aver dubitato della sua innocenza, gli diede in moglie la figlia naturale Margherita e due mesi dopo si recò a Firenze in visita ufficiale, suggellando solennemente i vincoli d’amicizia che univano l’Impero ai Medici. Fu un duro colpo per gli oppositori di Alessandro, che vedevano così sfumare il loro sogno di restaurazione repubblicana.

Fra di essi c’era un certo Lorenzino, cugino del Duca, un letterato fallito, ambiguo, diffidente, invidioso e privo di scrupoli. Alessandro, di cui era nota la smodata lussuria, ne aveva fatto il suo ruffiano. Lorenzino, che i Fiorentini avevano soprannominato Lorenzaccio, allacciava tresche e procacciava donne al suo signore. Alessandro era di bocca buona, gli piacevano tutte, ma aveva un debole per le monache, specialmente se minorenni. Lorenzino era quindi l’uomo più adatto ad attuare il piano dei fuoriusciti di assassinare il Duca e restituire a Firenze la libertà. Era divorato dall’ambizione, odiava il cugino, e sebbene avesse solo ventidue anni, sognava di prenderne il posto.

La sera dell’Epifania (1537), Alessandro si recò a casa di Lorenzino, dove avevano luogo i suoi convegni amorosi, e in attesa che il cugino gli portasse la dama di cui s’era invaghito, si spogliò e si distese sul letto. Lorenzino si presentò puntuale all’appuntamento, accompagnato, invece che dall’amante, da un ceffo del Mugello, di nome Scoronconcolo. I due trovarono Alessandro addormentato. Lorenzino s’avvicinò al cugino e lo trafisse con uno stocco. Il Duca lanciò una specie di barrito e s’avvinghiò all’assalitore, ma Scoronconcolo gli dette il colpo di grazia. Compiuto il delitto, i due congiurati lasciarono Firenze e s’unirono ai fuoriusciti per tornare insieme a essi quando la città, conosciuta la morte del tiranno, si sarebbe sollevata. Ma la sollevazione non ci fu. Le simpatie per i Medici erano scarse. Ma ancora più scarse erano quelle di cui godevano i loro nemici.

Alla successione fu designato il figlio di Giovanni dalle Bande Nere, Cosimo, un giovane di diciassette anni, che fin’allora aveva vissuto con la madre in campagna, dedito alla caccia, al nuoto e all’equitazione. I Fiorentini accolsero con scetticismo la sua nomina e gli pronosticarono un regno breve e contrastato. Ma di lì a poco, quando i fuoriusciti armarono un esercito per rovesciarlo, Cosimo fece cingere d’assedio il castello di Montemurlo, fra Pistoia e Prato, dove i capi dell’opposizione s’erano asserragliati, e prima che le truppe repubblicane giungessero in loro soccorso, li catturò in massa, li trascinò a Firenze e li fece decapitare.

La fulminea impresa destò l’ammirazione dei contemporanei. L’Imperatore in persona si congratulò col Duca. Cosimo ne profittò per chiedergli la mano della figlia Margherita, vedova del predecessore. L’Imperatore gliela negò, ma il Duca non si diede per vinto e lo invitò a trovargli un’altra moglie. Carlo gli propose la primogenita del viceré di Napoli. Cosimo chiese e ottenne di sostituirla con la secondogenita, più giovane e carina. Il 29 giugno 1538, nella chiesa di San Lorenzo, si celebrarono le nozze.

Cosimo aveva vent’anni, la moglie diciassette. Lui era chiuso, enigmatico, freddo, calcolatore; lei devota, austera, tutta casa e chiesa. Eppure, fu un’unione esemplare, allietata da uno sciame di figli e durata ventitré anni. La coppia si trasferì dal palazzo avito di via Larga a quello della Signoria, munito come un fortilizio. Il Duca lo riempì di pretoriani che lo seguivano dovunque e di notte ne vegliavano i sonni. Lorenzino era ancora vivo, i fuoriusciti stavano rialzando la cresta, e Cosimo temeva di far la fine del suo predecessore. I sicari che, dopo aver assunto il potere, egli aveva sguinzagliato dalla Francia alla Turchia sulle orme del tirannicida, erano tornati in patria a mani vuote. Ma nel 1547 si sparse la voce che Lorenzino si trovava a Venezia. Cosimo vi spedì subito i suoi killer, sotto i cui pugnali il Medici cadde trafitto mentre, una mattina all’alba, usciva dalla chiesa di San Polo. Ora il Duca poteva dormire sonni tranquilli.

Eliminato il più temibile dei fuoriusciti, s’accinse a consolidare il potere e ad allargare i confini del Ducato. Il principale ostacolo era costituito da Siena, alleata dei Francesi, che presidiavano la città con una guarnigione. Con mossa abile e improvvisa, profittando dell’impossibilità della Francia a inviare rinforzi, Cosimo spedì un esercito alla conquista della città. Colta di sorpresa, dopo una resistenza eroica e disperata, Siena s’arrese. Correva l’anno 1555. La Toscana s’avviava a diventare uno degli Stati più temuti della Penisola e, con quello pontificio, il più potente dell’Italia centrale.

Dopo il tragico scacco del 1527, il dominio temporale della Chiesa aveva rischiato di sfasciarsi. Nella sola capitale la popolazione s’era quasi dimezzata: da oltre cinquantamila anime era scesa a trentamila. Ai saccheggi e alle carneficine dei lanzichenecchi erano seguite epidemie e carestie. Roma sembrava tornata ai tempi più barbari del passato con i suoi stupendi palazzi e le sue superbe chiese degradati a stalle e bivacchi di truppe.

Nel 1534, con Paolo III, cominciò l’opera di rinascita. I Romani, che avevano salutato con tripudio la nomina a Pontefice di un loro concittadino, ne furono insieme i beneficiari e le vittime perché il nuovo Papa aumentò le vecchie gabelle e ne impose di nuove. Gli edifici scempiati dalle orde tedesche furono restaurati e nuovi ne spuntarono al centro e alla periferia. La città lentamente si ripopolò, il commercio si rianimò, la vita artistica rinacque. Nel 1545, col Concilio di Trento, Paolo III diede ufficialmente il via alla controffensiva cattolica e l’Urbe riacquistò in pieno il suo rango di capitale dell’ortodossia.

Ma prima di affrontare le vicende della Controriforma, tracciamo un breve panorama della vita culturale e artistica italiana che proprio in questa prima metà del Cinquecento dava i suoi frutti più maturi, prendendo le mosse dalla Mantova d’Isabella Gonzaga e del Mantegna.