Agli Uffizi c’è un ritratto di Niccolò Machiavelli in atteggiamento pensoso: gli occhi neri e penetranti, il naso aguzzo, le labbra esangui e serrate, gli zigomi prominenti, le orecchie a ventola, la fronte spaziosa, i capelli neri. Quando l’autore del Principe posò per l’anonimo pittore doveva essere sulla soglia della cinquantina, nel pieno della maturità. Forse il dipinto fu eseguito nella casa di campagna di San Casciano, a pochi chilometri da Firenze, dove Niccolò s’era rifugiato in seguito alla caduta della Repubblica di Savonarola, al tempo della calata di Carlo VIII in Italia. Il ritorno dei Medici l’aveva infatti privato della carica di segretario dei Dieci della guerra, che aveva tenuto per quattordici anni. Vi era stato preposto nel 1498, quando ne aveva ventinove, e la sua nomina era stata accolta con sorrisetti di sufficienza dai vecchi notabili, scandalizzati che un posto così importante fosse affidato a un uomo così giovane, e per giunta privo di titoli di studio.
Niccolò aveva seguito svogliatamente i corsi di legge, ma alla vigilia della laurea li aveva abbandonati per la politica. Gli affari dello Stato, di uno Stato come quello fiorentino diviso dalle lotte di fazione, tribolato dal giuoco delle parti, lo interessavano molto più dei codici e delle pandette. Abbracciando la carriera politica, Niccolò aveva dato un grosso dispiacere al padre, ch’era avvocato, e sperava di fare del figlio il proprio successore, e alla madre, donna tutta casa e chiesa, che sognava di farne un prete. Era stata la lettura di Svetonio, Tito Livio, Tacito a infatuare Niccolò della storia e dei suoi protagonisti. I fasti di Roma repubblicana e imperiale, le conquiste militari e i trionfi civili dei suoi Consoli e dei suoi Principi l’avevano esaltato.
L’ufficio di segretario era un ideale osservatorio politico e un magnifico trampolino di lancio per un uomo ambizioso. Metteva chi lo ricopriva a diretto contatto col Gonfaloniere, coi più alti magistrati della Repubblica, coi suoi Generali, con gli ambasciatori stranieri. Sul suo tavolo passavano ogni giorno relazioni segrete, lettere riservate, rapporti confidenziali, documenti compromettenti. Il giovane segretario teneva gli occhi bene aperti. Nulla gli sfuggiva.
Nello stesso 1499, la Signoria lo spedì in missione presso Caterina Sforza, contessa d’Imola e Forlì, una specie di virago diventata famosa in tutta la Penisola per essere salita sulle mura della città e aver mostrato il ventre ai sudditi ribelli che stavano di sotto e minacciavano di uccidere i suoi tre figli, urlando: «Ho di che farne altri». A questa ambasceria altre ne seguirono. Nel 1500 fu alla Corte di Luigi XII, imparò il francese, visitò la provincia e mandò in patria rapporti così acuti che ottenne uno scatto di grado. Fu il buon esito di questa missione che due anni dopo indusse la Signoria ad affidargliene un’altra presso Cesare Borgia. Machiavelli non conosceva il duca Valentino, ma ne aveva ammirato le strabilianti imprese. Il segretario fiorentino e il figlio d’Alessandro diventarono amici, e Niccolò vide in lui il principe ideale capace di cacciare lo straniero e unificare la Penisola. Quando tornò a Firenze molti l’accusarono d’essersi fatto abbindolare dal Borgia, ma egli seppe abilmente disarmare i critici e riconquistarsi la fiducia della Repubblica.
Il Gonfaloniere e i Dieci della guerra non prendevano una decisione senza prima consultarsi con lui. Nel 1505 Machiavelli propose la formazione di una milizia nazionale che sostituisse quelle mercenarie volubili, infide e corrotte. L’idea piacque e Niccolò fu incaricato di mettere insieme un esercito. Lo reclutò soprattutto fra i contadini, più vigorosi e meglio adatti a sopportare i disagi della guerra. L’anno dopo Firenze aprì le ostilità con Pisa e spedì la nuova milizia a cingerla d’assedio. La capitolazione della città nemica fu il trionfo di Machiavelli, che oltre a quelle politiche accarezzava grosse ambizioni militari. Ma i suoi napoleonici sogni durarono poco. Quando Firenze dovette vedersela non più col piccolo e raccogliticcio esercito di Pisa, ma con quello raccolto da Giulio II nella cosiddetta «Lega Santa» istituita per riportare i Medici al potere, le milizie di Machiavelli sbandarono al primo urto, e Niccolò ci rimise il posto. Cercò d’ingraziarsi i nuovi padroni per riottenerlo, e ci sarebbe forse anche riuscito se proprio in quei giorni non fosse stata scoperta una congiura che portò all’arresto di due giovani nelle cui tasche venne trovata una lista di nomi fra i quali quello del Machiavelli. Sebbene nessuna prova contro di lui fosse stata raccolta, l’ex segretario fu imprigionato. Sottoposto a tortura e riconosciuto innocente, dopo un mese venne liberato. Gli amici gli consigliarono di cambiar aria. Aveva moglie e figli e non poteva esporli a repentagli. Decise di trasferirsi nella casa paterna di San Casciano, dove resterà quindici anni.
Conserviamo una celebre lettera all’ambasciatore Francesco Vettori, in cui Niccolò descrive la sua giornata di esule volontario. La mattina s’alza al canto del gallo e va nel bosco. S’intrattiene un paio d’ore coi taglialegna e quindi si dirige verso una fonte leggendo ad alta voce un canto di Dante o un sonetto del Petrarca. Rientrando, si ferma all’osteria a far quattro chiacchiere col fornaio, il macellaio e il farmacista. Al tocco rincasa, mangia e torna all’osteria. Giuoca tutto il pomeriggio a cricca e a trictrac, bevendo Chianti e bestemmiando. A sera riprende la via di casa e si chiude nello studio: «In sull’uscio» confida all’amico «mi spoglio questa vesta cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandoli della ragione delle loro actioni, e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro».
Nel silenzio della notte, nella solitudine di una stanzetta ingombra di libri e scartoffie, al chiarore di un vecchio lume, Niccolò scrive in una calligrafia minuta e compatta i Discorsi sulla prima Deca di Livio che dedica agli amici Jacobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai. I Discorsi, rimasti incompiuti, sono un atto di fede nei valori spirituali del mondo classico. Ma Niccolò li lasciò a mezzo per porre mano all’opera che doveva renderlo immortale. Cominciò Il Principe nel 1513 e in pochi mesi, nello stesso anno, lo portò a termine. Dapprincipio pensò d’indirizzarlo a Giuliano de’ Medici, ma questi morì, e allora lo dedicò a Lorenzo, Duca d’Urbino, sempre nella speranza di tornare nelle grazie della restaurata dinastia. Per quasi trent’anni il libro circolò manoscritto e solo nel 1532, cinque anni dopo la morte del Machiavelli, fu pubblicato. Sorta di vangelo politico e di manuale pratico del perfetto tiranno, diventò uno dei best seller del Cinquecento e uno dei più letti – o almeno dei più citati – di tutti i tempi. Con lucido e spietato realismo l’autore fa il quadro della situazione politica italiana, ne mette a nudo le magagne e detta i rimedi.
Machiavelli vede la Penisola frantumata in un pulviscolo di staterelli eternamente in lotta tra loro. Venezia guarda in cagnesco Milano, Firenze fa la guerra a Pisa, il Re di Napoli odia il Papa, e ne è ricambiato. Si fanno e disfanno leghe, si stipulano e capovolgono alleanze, ci si scambia giuramenti, li si viola, ci si tradisce, ci si scanna. Tutti vogliono comandare. Purtroppo le forze s’equivalgono e impediscono che una s’imponga alle altre e le pieghi alla propria volontà.
«E veramente alcuna provincia» scrive Machiavelli «non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d’una Repubblica o d’un principe, come è avvenuta alla Francia e alla Spagna. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch’ella una Repubblica o un principe che la governi, è solamente la Chiesa; perché, avendovi abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente né di tal virtù che l’abbia potuto occupare il restante d’Italia e farsene principe.»
Per Niccolò dunque non c’è dubbio: la colpa dell’abortita unità nazionale è della Chiesa. Essa ha sempre giuocato uno Stato contro l’altro per impedire che quello più forte diventasse troppo forte e la fagocitasse. Ogni volta che ce n’è stato bisogno non ha esitato a far ricorso allo straniero, trasformando l’Italia in un campo di battaglia e in una colonia alla mercé di Tedeschi, Francesi, Spagnoli. Ma tutto questo – dice Machiavelli – lo si sarebbe potuto anche perdonare alla Chiesa, se sotto lo stemma pontificio essa fosse riuscita a unificare la Penisola.
Solo un Principe «virtuoso» cioè astuto, ambizioso e senza scrupoli – perché questa è la «virtù», secondo Machiavelli – potrebbe fondare in Italia uno Stato nazionale sul modello della Francia, della Spagna e dell’Inghilterra. La virtù non ha nulla a che fare con la morale, i buoni sentimenti non fanno i buoni governanti, il fine giustifica i mezzi, cioè ogni azione, anche la più nefanda, diventa legittima quando la si compie per accrescere la potenza di uno Stato ed estenderne l’egemonia. Il nemico va annientato a qualunque costo e con qualunque mezzo. Chi minaccia il Principe dev’essere eliminato o messo in condizione di non nuocere. Il veleno è un’ottima risorsa per ridurre al silenzio gli oppositori. Il Principe, per difendere il trono, dev’essere sempre pronto a far la guerra. La stabilità di uno Stato dipende dalla forza del suo esercito. Ma guai se esso è formato di mercenari. Refrattari a ogni ideale di patria, costoro combattono solo per avidità di guadagno, sono sempre pronti a cambiar bandiera per schierarsi con chi li paga di più, obbediscono a ogni ùzzolo di rapina, sono sanguinari e vandali, seminano dovunque il terrore e l’anarchia. Solo una milizia nazionale può dar fiducia e sicurezza al Principe e renderlo potente.
Il despota perfetto deve farsi temere dai sudditi, negar loro la libertà e concederne solo le apparenze, perché uno Stato tollerante è destinato a perire. Per tenere a bada il popolo il Principe deve «parere pietoso, fedele, integro, religioso, ed essere; ma stare in modo edificato, con l’animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare al contrario… Debbe adunque avere un Principe gran cura che li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle sopra scritte cinque qualità; e sia, a vederlo e udirlo tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto religione… Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare… Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti».
Queste qualità, Machiavelli le vide incarnate in Cesare Borgia. Il duca Valentino gli aveva fornito un modello vivente di condottiero e di tiranno. L’unico nell’Italia del tempo. Sul Borgia, Niccolò aveva puntato tutto, forse anche la carriera. Ma quando apprese la notizia della sua morte, attribuita nelle prime versioni a una coppa di veleno, ebbe un moto di delusione e di stizza. Come aveva potuto il suo Principe, con la sua crudeltà di lupo e la sua astuzia di volpe, cadere in una così grossolana trappola? Non sappiamo come reagì il Machiavelli quando seppe che il duca Valentino era morto in combattimento. Ma ormai la realtà italiana aveva fatto naufragare tutte le sue speranze.
Rinunziò a impartire ai Principi ulteriori lezioni di arte di governo, risprofondò nello studio del passato. Nel 1520 il cardinale Giulio de’ Medici gli ordinò una storia di Firenze, in cambio di trecento ducati. Niccolò si rimise al lavoro. Cinque anni dopo le Storie fiorentine erano finite. Esse costituiscono l’opera di maggior impegno e di più vasta mole del Machiavelli, un’opera per quei tempi rivoluzionaria. Fin’allora la storia non era stata infatti che un’arida e piatta successione di cronache, lardellate di nomi e di date, senza un filo conduttore né un corredo aneddotico.
Nelle Storie fiorentine, Machiavelli non s’accontenta d’esporre meccanicamente i fatti. Li sviscera, ne indaga i retroscena, ne rianima i protagonisti. Ripudia tutte le leggende di cui i cronisti precedenti avevano infiorettato la storia di Firenze, che l’autore non limita alla politica ma estende all’economia, alla società e al costume. In uno stile limpido, stringato, maschio, tutto pepe e midollo, vi è ripresa anche la polemica contro la Chiesa che per conservare e rafforzare il proprio potere temporale ha seminato zizzania nella Penisola, ostacolandone l’unificazione. Quando il papa Clemente VII lesse l’opera che Machiavelli aveva dedicato proprio a lui, si congratulò con l’autore, che aveva sì fustigato la Chiesa ma non aveva mancato di tessere l’elogio dei Medici. E Clemente VII si sentiva più Medici che Papa.
Con le Storie rientrò nelle grazie della potente famiglia fiorentina. Il 18 maggio 1526 fu nominato capo dei «Curatori delle mura», un comitato addetto alle fortificazioni. Era, dopo quattordici anni, la prima ripresa di contatto con la vita politica. Ma fu anche l’ultima. Un anno dopo, quando i lanzichenecchi di Carlo V calarono su Roma e ne scacciarono Clemente, i Fiorentini rovesciarono i Medici e restaurarono la Repubblica. Il grande teorico della Realpolitik, l’esaltatore del calcolo opportunistico, in pratica non ne azzeccava una. Di aver cambiato così spesso bandiera, non si può fargli colpa: rientrava nella morale del suo tempo. Ma si può sorridere del fatto che il maestro del cinismo e della spregiudicatezza, quale egli è considerato, puntasse sempre sul cavallo sbagliato. Quando il 10 giugno fece domanda per riottenere il posto di segretario dei Dieci, la Signoria gliela bocciò. Machiavelli ne morì di dolore. Prima di congedarsi dal mondo chiamò un prete e si confessò. Lasciò una moglie, cinque figli e molti debiti.
Lì per lì la sua fine passò quasi inosservata. I lunghi anni di San Casciano avevano piombato il suo nome nell’oblio. Quel po’ di fama di cui aveva goduto non la doveva né al Principe né alle Storie fiorentine ma a una commedia scollacciata e anticlericale che aveva deliziato le platee ed era stata applaudita dallo stesso Pontefice. La mandragola è la storia di un marito ingenuo e sterile (Nicia), di una moglie procace e fedele (Lucrezia) e di un aitante e intraprendente play boy (Callimaco). Callimaco vorrebbe portare a letto Lucrezia, ma urta contro la sua caparbia virtù. Per espugnarla ricorre a uno stratagemma. Si spaccia per medico, si fa presentare al marito e gli predice che se Lucrezia berrà una certa pozione a base di erbe, tra cui la mandragola, potrà finalmente avere un figlio. L’unico inconveniente è che l’uomo col quale Lucrezia s’accoppierà, dopo aver sorbito la pozione, dovrà morire. A Nicia l’idea di pagare con la vita il piacere di diventare padre garba poco. A questo punto Callimaco gli offre di immolarsi al suo posto. Nicia accetta. Più difficile è convincere la casta Lucrezia. Ci provano un po’ tutti e alla fine ci riesce un frate, prezzolato dalla madre della donna. Lucrezia beve la mandragola, si concede a Callimaco e fra la soddisfazione generale resta incinta. La commedia, considerata il capolavoro del teatro del Rinascimento, seguita a passare per tale anche agli occhi di un critico acuto come il Ridolfi, che è anche il grande biografo di Machiavelli. Ma noi non riusciamo a condividere questi entusiasmi. La trama è scontata, il tema del triangolo è frusto, i caratteri dei personaggi sono forzati. Il dialogo è abbastanza brillante e qua e là strappa la risata, ma spesso anche scade nello scurrile e nell’osceno. L’elemento più vivo e valido è la polemica antifratesca.
La mandragola procurò al suo autore una fama di libertino, meritata solo a metà. Niccolò ebbe sempre un debole per le donne. Non si curò mai del loro rango, ma solo della loro disponibilità. Preferiva le contadine e le cameriere alle signore. Le trovava più schiette, genuine, accomodanti. Non facevano storie se Niccolò le concupiva nel retrobottega di un’osteria o in mezzo ai campi senza nemmeno togliersi il cappotto, come spesso gli capitava. Possediamo una lunga lista di nomi: la Sandra, la Mariscotta, la Riccia, la Barbara. Quest’ultima era una sciantosa di gagliardi appetiti e di gamba lesta. Celebre è rimasta la risposta che diede a un tizio che le rinfacciava la sua condotta: «È roba mia e la do a chi mi pare». Sebbene fosse piuttosto bruttina, fu la donna che Machiavelli più amò e che meglio lo capì.
In vita Niccolò fu quello che si dice un genio incompreso, e ne soffrì tutte le amarezze. Solo dopo la pubblicazione del Principe il suo nome diventò famoso. Il successo dell’opera fu strepitoso, scatenò un’ondata di polemiche senza precedenti e divise il pubblico in ammiratori e denigratori del suo autore. «Machiavellico» e «machiavellismo» diventarono termini alla moda anche fuori d’Italia, dove il libro venne abbondantemente tradotto, commentato e meditato. Lo lessero Re, Principi, Papi, Imperatori. Carlo V lo teneva sul comodino e ne sapeva a memoria lunghi brani. La fortuna del Principe crebbe nei secoli successivi: Enrico III ed Enrico IV di Francia lo portavano sempre con sé, Richelieu lo consultava alla vigilia di ogni importante decisione, Guglielmo d’Orange ne fece il proprio breviario.
Nessun’opera, dai tempi d’Aristotele, influenzò tanto la scienza politica e l’arte di governo. «Dobbiamo essere grati» scrisse Francesco Bacone «al Machiavelli e agli scrittori come lui, che ci hanno detto senza peli sulla lingua quello che gli uomini fanno e non quello che dovrebbero fare.»
Oggi il problema del giudizio morale da trarre dall’opera di Machiavelli non si pone più. Tutti riconoscono in lui il fondatore di una disciplina che a questo giudizio si sottrae. Le sue leggi non sono né morali né immorali, come non lo sono quelle della fisica e dell’economia.
Ma Machiavelli non fu soltanto il loro scopritore e ordinatore. Sotto l’apparente freddezza del teorico che dal caso concreto induce il principio generale, palpita la passione del grande Italiano che assiste all’aborto dello Stato nazionale e non sa rassegnarvisi. Ed è questo che fa la sua grandezza di scrittore. Da buon toscano (e Guicciardini lo sarà anche più di lui), egli ostenta il cinismo per nascondere l’amarezza. Questo voltagabbana che tradì gl’ideali repubblicani rimase per tutta la vita fedele a quello di un’Italia unita, armata e spretata. Per realizzarlo era pronto a vendere l’anima non solo ai Medici, non solo al Valentino, ma anche al diavolo.
La delusione distrusse l’uomo e fecondò l’artista.