CAPITOLO TRENTESIMO

FRANCESCO GUICCIARDINI

La restaurazione repubblicana che aveva portato alla tomba Machiavelli fu salutata con sollievo dai Fiorentini. Il nuovo regime si divise subito in due opposte fazioni: una d’ispirazione borghese, l’altra popolare. La prima cercava di barcamenarsi tra il Papa, Carlo V e Francesco I; la seconda, estremista e radicale, era tutta per la Francia. Queste divergenze portarono alla deposizione del gonfaloniere Niccolò Capponi, leader dei moderati, sostituito dal popolare Carducci.

Il trionfo del partito filofrancese rinfocolò i sentimenti antimedicei dei Fiorentini e scatenò epurazioni e rappresaglie. Uno dei palleschi – come si chiamavano i seguaci dei Medici – più invisi alla Signoria era il luogotenente pontificio Francesco Guicciardini. Consigliere e fiduciario di Clemente VII, era stato il cervello della Lega di Cognac, e – a giudizio di molti – uno dei responsabili della sua disfatta, culminata nel sacco di Roma. Alcune delle accuse che gli erano state mosse, come quella di aver intascato la cinquina dei soldati, erano false; altre avevano invece tutta l’aria d’essere fondate. Lo spauracchio di un processo e di una condanna indusse Francesco a cambiar aria e a ritirarsi con la famiglia nella tenuta di Finocchieto, dove restò due anni, che dovettero sembrargli un’eternità poiché, fin’allora, non aveva conosciuto che successi, onori e scatti di grado.

Nel 1511, a ventotto anni, la Repubblica l’aveva nominato ambasciatore alla Corte di Ferdinando il Cattolico. La scelta non era stata dettata solo da valutazioni di merito, sebbene Francesco fosse dotato di un eccezionale ingegno, ma soprattutto di ceto e di censo. I Guicciardini appartenevano a quella classe degli ottimati che a Firenze facevano il buono e il cattivo tempo, occupavano posti chiave nella vita pubblica, influenzavano la politica quando non la facevano direttamente, vivevano in compounds, si spartivano cariche e prebende, erano uniti da vincoli di parentela e d’interessi, e quando non si scannavano si sostenevano a vicenda. Di queste famiglie, la più ragguardevole e potente era, naturalmente, quella dei Medici, intorno alla quale le altre orbitavano, rendendosi reciproci servigi.

Sebbene di sentimenti palleschi, i Guicciardini mantenevano rapporti amichevoli col partito repubblicano che s’alternava coi Medici al governo della città. Papà Piero se n’era guadagnata la stima al punto ch’era riuscito a ottenere per il figlio la missione in Spagna. Francesco aveva del resto tutti i titoli per meritarsela. D’intelligenza precoce, acuta e pratica, era stato uno scolaro modello. Compiuti gli studi inferiori a Firenze, a diciassette anni s’era trasferito a Ferrara per seguirvi quelli di giurisprudenza. Piero avrebbe preferito che si fosse dedicato alla filosofia, alla quale il ragazzo era stato avviato dal padrino Marsilio Ficino, uno dei grandi maestri del platonismo. Ma Francesco aveva una sola passione, la politica, e una laurea in legge gli faceva comodo.

Quando nel 1505 tornò a Firenze non gli fu difficile, grazie alle relazioni paterne, ottenere una cattedra di diritto. L’anno dopo lo Studio fiorentino chiuse, e Francesco dovette cercarsi un altro lavoro. Scelse quello di avvocato che gli avrebbe assicurato buoni guadagni e procurato nuove amicizie. Ma la politica l’ossessionava e ad essa era disposto a sacrificare tutto, compresi i piaceri della sua età. Sebbene fosse un bell’uomo, di costituzione atletica e sanguigna, ricco, elegante, colto, era insensibile al fascino femminile. Amò, o finse d’amare, una sola donna, Maria Salviati, che diventò sua moglie. La sposò a venticinque anni, secondo i maligni per puro calcolo. Costei era infatti figlia di Alamanno Salviati, uno dei notabili più influenti della città. Sulla nomina di Francesco ad ambasciatore dovette certamente pesare anche questa parentela.

A dorso di mulo, seguito da un codazzo di famigli, sullo scorcio del 1511, Francesco lasciò Firenze diretto in Spagna. Nel marzo dell’anno successivo arrivò a Burgos, dove Ferdinando aveva fissato la sua Corte. Per diciotto mesi cercò di scoprire le mire del Re spagnolo sull’Italia. Ma l’astutissimo sovrano era un maestro nell’arte della simulazione e l’ambasciatore dovette rientrare in patria senz’aver nulla capito e previsto.

Ci tornò volentieri perché importanti eventi s’erano verificati a Firenze durante la sua assenza. Il primo settembre del 1512, diciott’anni dopo esserne stati scacciati dal Savonarola, i Medici erano risaliti al potere sulle lance spagnole. Nel marzo del 1513 il risorto dominio dei palleschi era stato suggellato dall’assunzione al Soglio di Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico. Francesco esultò e s’affrettò a offrire i propri servigi ai nuovi padroni. Ottenne d’entrare a far parte di una delle massime magistrature cittadine, gli Otto di Balìa. Quando, l’anno dopo, il Pontefice, diretto a Bologna per incontrare Francesco I, passò per Firenze, Guicciardini fu tra coloro che gli andarono incontro e gli resero omaggio. Leone lo nominò avvocato concistoriale, titolo che gli conferiva un notevole rango presso la Curia romana. Ma Francesco voleva il governo di una città pontificia. Il Papa l’accontentò offrendogli quello di Modena.

La Chiesa aveva usurpato questa turbolenta città al Duca di Ferrara e non voleva saperne di restituirgliela, sebbene si fosse ufficialmente impegnata a sgombrarla. La popolazione era furiosamente anticlericale e non perdeva occasione per dimostrarlo, trucidando i governatori papalini, o obbligandoli a fuggire a suon di legnate. Costoro facevano di tutto per meritarsele. Sottoponevano i sudditi a ogni sorta d’angherie, rubavano, aizzavano le fazioni e spesso ne cadevano in balìa. Venivano reclutati tra il Clero, erano completamente digiuni d’amministrazione e costituivano per la Chiesa una vera iattura. A rendere vieppiù precaria la stabilità degli Stati pontifici concorrevano i fuoriusciti che negli intervalli tra un governatorato e l’altro, o durante le vacanze del Soglio, piombavano nella città che li aveva banditi, saccheggiavano, uccidevano, stupravano, incendiavano.

Pochi giorni dopo l’arrivo di Guicciardini, trecento Modenesi presero volontariamente la via dell’esilio. Il nuovo governatore aveva fama di «duro» e i suoi primi atti ne fornirono la conferma. Fece passare la città al setaccio, ordinò vasti rastrellamenti nel contado, imprigionò tutti coloro sui quali pesava un minimo sospetto d’eversione, e fece decapitare i più facinorosi. Prese tutte queste misure senza chiedere il permesso alla Curia romana, da cui dipendeva e alla quale doveva rendere conto del suo operato, per timore ch’essa glielo negasse. Si limitò a informarla a cose avvenute. A chi gli rimproverava la sommarietà dei suoi metodi rispondeva: «Bisogna governare con terrore e con esempi straordinari».

Pacificata Modena, fu spedito dal Pontefice a riportare l’ordine in Romagna. Era questa, già nel Cinquecento, la regione più anarchica d’Italia. Il duca Valentino l’aveva domata a fatica, ma in seguito alla sua caduta gli odi di parte s’erano riaccesi e il caos era tornato a regnare. «Non vi potrei dire» scrisse Guicciardini all’amico Colombo, quando fu nominato governatore «quanto male volentieri io vada in Romagna, provincia avviluppata, dove bisognerà mettere mano al sangue, né potrò mai sperare di avere a trattare altro che faccende fastidiose e odiose.»

V’impiegò gli stessi metodi spicciativi e brutali adottati a Modena. Papa Clemente VII per premio lo chiamò a Roma e lo nominò luogotenente dell’esercito pontificio, che in lega con quelli fiorentino, veneziano e francese doveva affrontare quello imperiale. Abbiamo già descritto in un precedente capitolo le sfortunate fasi di questa guerra e il suo tragico epilogo: il sacco di Roma del 1527. A Firenze fu restaurata la Repubblica. E il Guicciardini, che aveva fin da principio vantato «la facilità dell’impresa et la vittoria certa», diventò uno dei capri espiatori della sconfitta e dovette rifugiarsi con la famiglia nella villa di Finocchieto. L’esilio cessò quando il Pontefice, con un ennesimo voltafaccia, abbandonò la Francia e s’alleò all’Impero, grazie al quale i Medici furono reintegrati a Firenze.

Francesco, che non aveva mai disgiunto le proprie fortune da quelle di Clemente e dei palleschi, riottenne un importante incarico politico con la nomina a governatore di Bologna. Sebbene la città fosse divisa in due fazioni che facevano capo alla famiglie dei Pepoli e dei Malvezzi, egli riuscì a ristabilire anche qui l’ordine e la legalità. Con la morte di Clemente e l’avvento al Soglio di Paolo III Farnese, Francesco tornò a Firenze, dove Alessandro de’ Medici lo nominò consigliere.

Quando Alessandro fu assassinato, Guicciardini caldeggiò l’elezione del giovinetto Cosimo, forse perché sperava di poterlo facilmente dominare. Ma Cosimo non era malleabile come il suo predecessore, voleva fare da sé e non intendeva affidarsi a tutori, anche se si chiamavano Guicciardini. Nel 1538, più per toglierselo di mezzo che per onorarlo, nominò Francesco commissario a Pistoia. L’ex governatore e luogotenente pontificio fece buon viso a cattiva sorte, ma alla scadenza del mandato si ritirò in campagna. «Mi sono dato tanto all’agricoltura» scriveva nell’ottobre del 1539 all’amico Lanfredini «che, se vo continuando così, tengo per certo che quest’altro anno sarò diventato contadino in tutto et di buona voglia, perché non veggo arte che mi piaccia più dì questa.» Francesco mentiva. La sola arte che gli piaceva era la politica, il cui tarlo seguitava a roderlo. Ma i tempi erano mutati, i suoi grandi protettori erano morti e i nuovi l’avevano accantonato. E fu un bene per lui che, se fosse rimasto impigliato nel giuoco del potere e nelle beghe dei partiti, non avrebbe mai trovato il tempo di scrivere quella Storia d’Italia, che lo rese immortale.

Non sappiamo quando Guicciardini pose mano a quest’opera, che rimane il suo capolavoro. Essa abbraccia in venti libri il periodo che va dal 1492 al 1534, anno della morte di Clemente VII, e ha per sfondo l’Italia contesa da Spagnoli e Francesi. Le vicende italiane sono inquadrate in un contesto europeo che conferisce modernità alla narrazione. Nessuno storico, prima del Guicciardini, aveva spinto lo sguardo al di là dei confini nazionali, anzi spesso non aveva saputo varcare nemmeno quelli della propria città o del proprio Stato. Oltre alla latitudine della visione, colpisce la mole della documentazione. Nato nel 1483, Guicciardini descrive avvenimenti di cui è stato attore o spettatore. Li ha visti dal di dentro, ne conosce i moventi, i retroscena e i risvolti, li ha annotati nei suoi diari, ha vissuto gomito a gomito coi suoi protagonisti. Il materiale di cui intesse la sua storia è tutto di prima mano. A differenza dell’amico Machiavelli, poco scrupoloso nel vaglio delle fonti, Guicciardini le sottopone a una critica pedante e rigorosa. Il periodo involuto e lardellato di coordinate e subordinate rende ostica la lettura. La fitta successione di eventi e personaggi e l’abbondanza dei dettagli nuocciono alla chiarezza dell’esposizione. Ma questi difetti non infirmano la validità della monumentale opera, che fa del suo autore il più grande storiografo del Cinquecento.

La Storia d’Italia appartiene alla maturità del Guicciardini. Quella di Firenze ai suoi anni giovanili. A questa circostanza essa deve forse la maggiore immediatezza e freschezza. Francesco la scrisse di getto a ventisette anni e vi tracciò la storia della sua città dal 1454 al 1509. È una galleria pittoresca e variegata di personaggi visti controluce e scolpiti a tutto sbalzo. Il principale difetto è la sproporzione tra le parti, l’eccessivo rilievo dato a figure minori e ad eventi secondari.

Alle storie fanno da corollario i Ricordi politici e civili, raccolta di massime e sentenze, in cui Guicciardini ha distillato il suo pensiero politico, filosofico e morale. «Tre cose» scrive «desidero vedere innanzi alla mia morte… uno vivere di Repubblica bene ordinata nella nostra città, Italia liberata da tutti e’ barbari, e liberato il mondo dalla tirannide di questi scellerati preti.» Francesco sa che si tratta di pie illusioni, specialmente l’ultima. «Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de’ preti: sì perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da Dio, e ancora perché sono vizi sì contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano. Nondimeno el grado che ho avuto con più Pontefici m’ha necessitato a amare per el particulare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Luther quanto me medesimo: non per liberarmi dalle legge introdotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa comunemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti, cioè a restare o sanza vizi o sanza autorità.»

Francesco ha dunque il coraggio delle proprie viltà. Odia il Clero, ne denuncia i vizi e le magagne, ma riconosce che per il suo «particulare», cioè per i propri interessi, non ha mai esitato a mettersi al suo servizio e a far carriera sotto le sue insegne. Dice peste e corna dei Papi, ma ne sollecita i favori. Lo troviamo sempre dalla parte del più forte, fautore ora dell’alleanza col Re di Francia, promotore subito dopo di un’intesa con l’Imperatore. Ritiene la libertà e l’uguaglianza ideali irraggiungibili. Perseguiamo la prima – dice – per confiscarla agli altri quando l’abbiamo ottenuta. Sbandieriamo la seconda pur conoscendone l’utopia. Anche sul popolo non si fa illusioni. La massa non ha volontà né discernimento, è in balìa delle passioni, succuba dei demagoghi, obbedisce al più forte. La democrazia è irrealizzabile. L’unica forma di governo è la dittatura di uno o di pochi. Meglio di pochi.

Sono conclusioni non molto diverse da quelle cui era giunto Machiavelli. Ma questi aveva riscattato il suo cinismo e pessimismo con qualche ideale. Nell’Italia ci credeva, e proprio per correr dietro all’impossibile sogno dell’unità nazionale aveva commesso quelle ingenuità che ce lo rendono amabile. Questo esaltatore dell’ipocrisia era un uomo sincero e sprovveduto, nelle cui parole si sente vibrare l’accento di una nobile passione.

In quelle di Guicciardini, no. Il cinismo che predicava, egli anche lo praticava. Duro, arido, calcolatore, il personaggio non era simpatico. E forse anche a questa sua mancanza di palpiti fu dovuta la sua disgrazia politica. Ma sono proprio questi difetti umani che fanno la sua grandezza di scrittore. Il vero Machiavelli non è Machiavelli, ma Guicciardini, questo mostro di egoismo e opportunismo, che non si prende neanche la pena di dissimularli. La sfiducia e lo scetticismo che d’allora in poi dovevano marcare il carattere degl’Italiani, e distruggerlo, trovano la loro più compiuta e disperata espressione in questo scrittore che finalmente dà a ogni Italiano la sua vera bandiera: el suo particulare.