A Roma, i maestri del Rinascimento furono un umbro e un toscano. Raffaello era nato nel 1483 a Urbino, figlio del pittore di Corte Giovanni de’ Santi. Urbino era allora – lo abbiamo già detto – uno dei centri artistici più vivi della Penisola. I Duchi di Montefeltro ne avevano fatto una specie di mecca dell’arte e della cultura. Non per nulla il Castiglione vi aveva trovato lo spunto per il suo Cortegiano.
Raffaello accompagnava spesso il padre a Corte, si sedeva al suo fianco mentre affrescava le pareti del Palazzo o ritraeva i Duchi, e ardeva dal desiderio d’emularlo. A scuola ci andava malvolentieri perché i pennelli e i colori lo interessavano più dei libri. Quando, a undici anni, rimase orfano sapeva già dipingere con straordinaria abilità. Gli zii, presso i quali andò a vivere, l’affidarono al pittore Timoteo Viti, che gli fece per un certo tempo da maestro. Nel 1499 lasciò Urbino e si trasferì a Perugia nella bottega di Pietro Vannucci, detto il Perugino, la cui fama eguagliava allora quella di Leonardo e Michelangelo. Lavorò con lui tre anni e sotto la sua guida perfezionò la propria tecnica. Il Vannucci lo volle con sé nella decorazione del Palazzo del Cambio e ne fece il suo principale aiuto. Il nome di Raffaello diventò famoso e le ordinazioni si fecero sempre più numerose. Chiese, monasteri, enti pubblici e privati cittadini se lo contendevano a suon di ducati. L’artista lavorava giorno e notte: solo le donne riuscivano a distrarlo dal cavalletto. Gli piacevano tutte, ma prediligeva quelle brune e formose. Ne aveva a josa perché era bello, galante e generoso. Un autoritratto ce lo raffigura di lineamenti delicati e colorito pallido, la bocca a cuore, gli occhi grandi, il naso robusto, i capelli lunghi e bruni. Pare che non si sia trattato di narcisismo: anche gli altri lo vedevano bello così. Si vestiva con eleganza e portava alle dita costosi anelli. L’urbanità, la squisitezza di modi, il talento gli guadagnarono l’amicizia dei colleghi, tra i quali il Pinturicchio, che lo invitò a Siena e gli affidò i cartoni per la Biblioteca del Duomo.
Nel 1504 si trasferì a Firenze, dove scoprì e studiò i grandi maestri del passato. Lo colpì soprattutto Masaccio e i suoi stupendi affreschi della chiesa del Carmine. Conobbe Fra’ Bartolomeo, pittore allora assai in voga, e forse incontrò Leonardo e Michelangelo. Restò a Firenze quasi ininterrottamente fino al 1508, dividendo il suo tempo fra la pittura e gli amori. Ne ebbe moltissimi, e le numerose madonne che dipinse in questo periodo ce ne forniscono la prova, perché le loro fattezze ricalcano quelle delle donne amate. Di questi anni sono alcuni dei suoi ritratti più celebri: La bella giardiniera, La deposizione, le Madonne del Granduca, del Prato, del Cardellino.
Ora la fama dell’artista aveva varcato i confini di Firenze e della Toscana e s’era sparsa in tutt’Italia. Nel 1508 Giulio II lo chiamò a Roma e l’incaricò d’affrescare il suo nuovo appartamento in Vaticano. Nell’Urbe lavorava da tempo Michelangelo e forse fu anche questa circostanza a indurre Raffaello ad accettare l’invito. Sebbene di otto anni più giovane, l’idea di un cimento col Buonarroti, che stava affrescando la volta della Sistina, l’esaltava. Eppoi Roma pullulava di donne, la cui reputazione non era migliore di quella delle Fiorentine, e vi era una società della quale a Firenze, dai tempi del Magnifico, s’era perduto il ricordo. Cardinali, banchieri e ricchi borghesi gareggiavano in mecenatismo e munificenza. Insomma, era la città ideale per un giovane ambizioso e gaudente, sebbene Giulio non fosse un cliente comodo. Quel Papa-soldato, collerico e autoritario, usava con gli artisti gli stessi modi rudi e prepotenti con cui, sul campo di battaglia, trattava la truppa.
Raffaello si mise subito al lavoro e cominciò a decorare la Stanza della Segnatura. In stupendi affreschi raffigurò la celebrazione dell’Eucarestia, la scuola d’Atene, il concilio dei poeti sul monte Parnaso. Lo stesso Papa e i più dotti umanisti della Corte pontificia gli fornirono i temi, mescolando la teologia con la filosofia classica, la poesia pagana con la fede cristiana. Dalla Stanza della Segnatura, Raffaello passò a quella d’Eliodoro, la cui cacciata dal tempio fu il primo affresco che eseguì. Data la mole dell’impresa il Pontefice consentì all’artista d’arruolare alcuni aiuti. Giulio Romano e il Penni lavoreranno a fianco del maestro fino alla sua morte e saranno gli esecutori materiali di gran parte della sua sterminata produzione. D’ora in poi infatti Raffaello si limiterà a fornire agli allievi i disegni e i cartoni intervenendo solo eccezionalmente nella stesura pittorica.
Le Stanze lo resero altrettanto popolare di Michelangelo e una valanga di commissioni gli piombò addosso. Nel 1513 morì Giulio e gli successe Leone X, di cui Raffaello diventò il pupillo, come il Buonarroti lo era stato del predecessore. Il nuovo Pontefice e il giovane pittore erano fatti per intendersi. Sebbene Leone possedesse una vasta cultura e Raffaello fosse ignorantissimo, avevano gli stessi gusti, la stessa concezione edonistica della vita, la stessa amabile indulgenza, lo stesso amore per il lusso e la buona tavola. Solo sulle donne non si trovavano d’accordo perché a esse papa Medici era refrattario. Raffaello seguitava invece a correr dietro alle gonnelle, che si teneva vicine anche quando dipingeva. Affrescando la villa Tiberina del banchiere senese Agostino Chigi ottenne che l’amante di turno vi fosse alloggiata, in modo da poterne, fra una pennellata e l’altra, godere le grazie.
Guadagnava molto e aveva acquistato un bellissimo palazzo dove viveva come un principe, circondato da uno stuolo di servi, adulato e riverito. Era un esteta, aveva bisogno del lusso e dell’eleganza, il brutto e il volgare gli davano una sofferenza fisica. Quando usciva, un corteo di allievi, amici e scrocconi lo seguiva. Aveva libero accesso alla Corte pontificia e non c’era festa, banchetto, manifestazione mondana alla quale non prendesse parte. I salotti alla moda se lo contendevano, i patrizi, i ricchi borghesi, i Cardinali gli commissionavano quadri, affreschi, disegni. Raffaello diceva di sì a tutti e assumeva nuovi aiuti. Nel 1514 Chigi lo incaricò di decorare una parete nella chiesa di Santa Maria della Pace. L’artista eseguì un gruppo di angeli e sibille, riecheggiando lo stile di Michelangelo. L’opera fu molto ammirata e Raffaello chiese al tesoriere del Chigi, che già gli aveva versato cinquecento ducati, un sovrappiù. Poiché costui non ne voleva sapere, propose di far giudicare il dipinto dal Buonarroti, il quale disse che la testa di ognuna delle quattro sibille valeva almeno cento ducati. Il banchiere ordinò subito di sborsare la somma e commentò: «Se m’avesse fatto pagare anche i drappeggi delle vesti, sarei andato in rovina».
Raffaello aveva passato da poco la trentina e i suoi dipinti andavano a ruba. Il Papa non gli dava tregua. Nel 1515 gli ordinò una serie di arazzi per le pareti della Sistina. Raffaello disegnò i cartoni e li spedì a Bruxelles dove vennero trasposti su tessuto. Due anni dopo Leone gli affidò la decorazione delle Logge vaticane, sulle cui volticelle gli allievi raffigurarono cinquantadue scene del Vecchio e Nuovo Testamento. Nel 1517 il cardinale Giulio de’ Medici, il futuro Clemente VII, gli commissionò una pala d’altare per la cattedrale di Narbonne. Contemporaneamente il prelato ne ordinò un’altra a Sebastiano del Piombo, amico di Michelangelo e nemico acerrimo di Raffaello che, pungolato dal confronto, eseguì di propria mano il disegno e le figure principali del dipinto. Sebbene incompiuto, esso resta una delle testimonianze più alte dell’arte raffaellesca, il commiato del maestro dalla pittura e dal mondo.
La morte prematura e improvvisa gl’impedì infatti di condurlo a termine. A provocarla furono, pare, gli eccessi sessuali. Scrive il Vasari: «Raffaello combinò fuori di modo i piaceri amorosi; onde avvenne ch’una volta tra l’altro disordinò più del solito, perché tornato a casa con una grandissima febbre, fu creduto da’ medici che fosse riscaldato. Onde non confessando egli disordine che aveva fatto, per poca prudenza, loro gli cavarono sangue, di maniera che indebolito si sentiva mancare, laddove egli aveva bisogno di ristoro. Per che fece testamento: e prima come cristiano mandò l’amata sua fuori di casa e le lasciò modo di vivere onestamente, dopo divise le cose sue fra’ discepoli suoi, Giulio Romano, il quale sempre amò molto, Giovan Francesco Fiorentino, detto il Fattore, e un non so che prete da Urbino, suo parente… Poi, confesso e contrito, finì il corso della sua vita il giorno medesimo che nacque, che fu il Venerdì Santo, d’anni trentasette (6 aprile 1520)».
L’«amata» cui accenna il Vasari era la celebre Fornarina, ritratta dall’artista in uno dei suoi quadri più belli. Al momento del trapasso la donna sarebbe stata allontanata dalla stanza di Raffaello per ordine del confessore, che rifiutava di dare l’assoluzione al moribondo in sua presenza. La Fornarina non poté nemmeno partecipare ai funerali, e per il dolore quasi uscì di senno. Il cardinale Bibbiena le consigliò di farsi monaca, e in un convento la poveretta passò il resto dei suoi giorni.
La scomparsa dell’artista destò nell’Urbe un compianto vasto e sincero. Il più afflitto fu il Pontefice, che amava Raffaello come un figlio. Alle solenni esequie intervenne un’immensa folla, fra cui centinaia di donne: tutte quelle ch’egli aveva amato più quelle che avrebbero desiderato esserlo. La salma fu inumata nel Pantheon e il Bembo dettò questo epitaffio: Ille hic est Raphael.
Pochi artisti ebbero vita altrettanto breve e feconda. Sebbene buona parte delle opere che Raffaello firmò siano state eseguite dagli aiuti, suoi furono la concezione e i disegni. Non tutta la vastissima produzione che porta il suo nome è di prima qualità. Gli affreschi dell’ultima Stanza e le Logge vaticane sono mediocri, o addirittura scadenti. Anche i ritratti non sono di uguale bellezza. Quelli eseguiti dal maestro – come il celebre Leone X – rivelano un genio pittorico che invano cercheremmo negli allievi.
Raffaello piacque ai contemporanei più di Michelangelo e di Leonardo perché meglio rappresentò, nella vita e nell’arte, gl’ideali della sua epoca e più felicemente ne incarnò lo spirito scettico e spensierato, forse perché gli mancarono il senso del dramma e il sentimento del divino. Con lui calò nella tomba il sogno pagano del Rinascimento.