Molti storici si stupiscono che l’Italia, nonostante il suo altissimo livello di cultura, abbia dato uno scarso contributo di uomini e di pensiero alla Riforma. Noi al contrario ci stupiamo che un contributo tuttavia lo abbia dato.
A scoraggiarlo, c’era anzitutto l’interesse economico. Da secoli l’Italia era in buona parte mantenuta da quelle che oggi si chiamerebbero «le rimesse» dei fedeli di tutta Europa. La Chiesa era un esattore puntiglioso che si serviva dei suoi parroci come di agenti del fisco per spremere «oboli» e «decime». Da tutti i Paesi del continente questo rivolo d’oro affluiva nelle casse della Curia romana, ma di qui si diffondeva in tutta la Penisola. E siccome il motivo più immediato della Riforma, quello che le aveva procurato i più caldi consensi popolari nei Paesi del Nord, era stata proprio la ribellione a questa mungitura, era logico che gl’Italiani, suoi unici beneficiari, vedessero nella sua fine una minaccia al loro benessere. La scoperta dell’America e lo spostamento delle grandi vie di traffico dal Mediterraneo ad altri mari avevano messo in crisi l’economia italiana. Cosa sarebbe successo se fossero venuti a mancare anche i rifornimenti che la Chiesa attingeva all’estero coi suoi pedaggi per il paradiso?
D’altra parte mancavano nel nostro Paese quei fermenti spirituali, quei dubbi, quelle angosce, che altrove alimentavano la «sete di Dio» e rendevano attuale il problema religioso. Da un pezzo gl’Italiani avevano trovato un comodo compromesso fra paganesimo e Cristianesimo in un credo politeistico popolato di benevoli Santi protettori; dalle loro concezioni avevano bandito la dannazione, e dalle loro prospettive l’inferno; e si erano abituati a dare alla loro pietà un carattere festoso, per non dire festaiolo, a base di spettacolari manifestazioni, cortei, processioni eccetera. Il loro Dio non somigliava più neanche di lontano al terribile Jeovah del Vecchio Testamento e nemmeno al severo Giudice di Dante. Era diventato un Padre affettuoso cordiale e indulgente, disposto a perdonare tutta una vita di peccati per un gesto di resipiscenza in punto di morte. A questi motivi si era ispirata tutta la grande arte rinascimentale, di cui proprio la Chiesa era diventata l’alta patrona e impresaria. E tutto questo creava un clima poco ricettivo alla passione teologica di Lutero e al rigorismo morale di Calvino, al loro minaccioso e intransigente Dio, e soprattutto alla spietata dottrina della predestinazione che abbandonava l’uomo alla mercé di una sorte prefabbricata e imperscrutabile.
C’erano, è vero, delle minoranze intellettuali per le quali questi motivi non valevano o comunque non bastavano a scoraggiare l’anelito a una più grande libertà di coscienza, di pensiero e di espressione. Ma esse avevano già trovato sfogo nella cultura. È difficile dire se la Chiesa, favorendo l’Umanesimo, avesse seguito un preordinato e abile piano di diversione. Ma è certo ch’essa, incoraggiando gl’intellettuali italiani a riscoprire il pensiero e la letteratura classica, li aveva distratti dal problema religioso. Non per nulla l’unico uomo che avrebbe potuto diventare il Lutero italiano, Girolamo Savonarola, aveva violentemente combattuto la moda umanistica: essa sottraeva il meglio della nostra intelligenza a quella ch’egli considerava la più importante, anzi l’unica missione dell’uomo: ritrovare il contatto diretto con Dio attraverso una fede più semplice e pura e un costume di vita ispirato unicamente al Vangelo. E non per nulla la Chiesa aveva mandato questo guastafeste al rogo. Molti artisti e letterati lo avevano pianto, sentendo confusamente che con lui era morto l’unico possibile capo di una Crociata nella quale anch’essi avrebbero potuto arruolarsi. Ma poi erano tornati alle loro dispute – più allettanti e meno pericolose – su Aristotele e Platone, cui Papi e Cardinali non solo l’incoraggiavano, ma partecipavano con fervore. Proprio quella mondanità che faceva la debolezza della Chiesa agli occhi dei rozzi e appassionati uomini del Nord, faceva la sua forza agli occhi degli scettici e civili Italiani.
Ma, oltre a questi, giuocava contro la Riforma un fattore su tutti decisivo: la mancanza di un potere laico che potesse con le sue leggi e i suoi tribunali mettere l’eretico al riparo dalla persecuzione. In Italia c’era una galassia di Signorie e Repubbliche, che in materia politica e temporale si trovavano spesso in contrasto con lo Stato pontificio. Ma in materia spirituale non avrebbero mai osato ribellarsi alla Chiesa. Firenze, Venezia, Milano, Napoli potevano litigare col Papa per il possesso di una città o di una fortezza; ma non potevano sfidare il suo anatema in materia religiosa. Anche se nel loro seno fosse nato un Lutero o un Calvino, esse, a differenza di quanto avevano fatto Wittenberg e Ginevra, lo avrebbero consegnato all’Inquisizione. Per il protestante inglese o tedesco insomma c’era soltanto il pericolo, per quello italiano c’era la certezza del martirio. La mancanza di uno Stato laico impediva l’attecchimento dei moti di Riforma, e la mancanza dei moti di Riforma impedì la nascita di uno Stato laico.
Questa era la disperata condizione dell’Italia.
Eppure, di movimenti ce ne furono, sebbene in molti casi non sia chiaro se i loro protagonisti mirassero a sovvertire la Chiesa o a migliorarla.
Iniziatore e capofila fu uno Spagnolo, Giovanni Valdés, il cui fratello Alfonso era uno dei segretari di Carlo V. Avevano scritto in collaborazione un saggio sotto forma di «dialoghi», come allora usava, in difesa di tesi piuttosto eterodosse. Alfonso, fedele discepolo di Erasmo, sosteneva che la Chiesa aveva commesso un marchiano errore scomunicando Lutero invece di «riassorbirlo» accettandone i saggi suggerimenti. Giovanni aveva scansato il problema religioso, limitandosi a quello politico. Era un socialista massimalista, secondo cui il Principe non era che il depositario della ricchezza dei sudditi, i quali avevano il diritto di parteciparvi secondo i loro bisogni.
Il Papa, ch’era allora Clemente VII, naturalmente preferì Giovanni e lo fece suo ciambellano, forse nella speranza che la vita di Curia, coi suoi lussi, lo inducesse ad annacquare il suo radicalismo. Ma Giovanni era uno di quegli uomini che credono in ciò che dicono e agiscono in conseguenza. Abbandonò quel posto di tutto comodo e, ritiratosi a Napoli, si dedicò all’insegnamento. Senza rompere con la Chiesa, sostenne tuttavia la dottrina luterana della predestinazione. E questo richiamò intorno a lui un gruppo d’intellettuali d’ambo i sessi: Pietro Carnesecchi e Vittoria Colonna, Vermigli e Costanza d’Avalos, Bernardino Ochino e Giulia Gonzaga, Marcantonio Flaminio e Isabella Manriquez.
Ochino è forse il caso umano più complesso e drammatico. Era di Siena, e vi aveva respirato l’aria mistica di Santa Caterina. Trovando che i francescani, fra i quali si era arruolato, difettavano di zelo, si trasferì nel più severo ordine dei cappuccini, ma anche fra loro il suo fervore fece spicco, tanto che lo promossero quasi subito Vicario generale dell’Ordine. Per quanto vaste, le chiese di Roma, Firenze, Venezia, non lo erano abbastanza per contenere gli appassionati delle sue prediche, di cui non s’era sentito l’eguale dai tempi di Savonarola. E nessuno, ascoltandolo, avrebbe immaginato che quell’uomo era destinato a morire scomunicato.
Ma a Napoli incontrò Valdés che lo familiarizzò con le opere di Calvino e di Lutero. La dottrina della predestinazione lo sconvolse, forse perché già egli stesso se n’era proposto il problema. I cenni che cominciò a farne nei suoi discorsi diventarono sempre più perentori e precisi, fino al giorno in cui a Venezia gli proibirono di risalire sul pulpito e Pio III lo convocò a Roma per una spiegazione. Il cardinale Contarini, che serviva la Chiesa ma non se ne fidava e soprattutto non voleva persecuzioni, gli sconsigliò il viaggio. Forse Ochino non avrebbe tenuto conto del suo ammonimento, se per strada non avesse incontrato un altro toscano, il priore Pietro Martire Vermigli di Lucca.
Anche Vermigli aveva imboccato strade poco ortodosse. Sosteneva che l’Eucarestia non era affatto un sacramento, ma soltanto la simbolica rappresentazione della passione di Cristo. I suoi superiori lo avevano risaputo e lo avevano convocato a Genova. Ma Vermigli disse a Ochino che temeva un agguato e perciò aveva deciso di emigrare a Zurigo. Ci andò infatti, di lì passò successivamente a Strasburgo e poi a Oxford, dove compose vari scritti di denuncia contro gli abusi della Chiesa. Ma continuò a esercitare una notevole influenza a Lucca, dove i suoi amici – Martinengo, Zanchi, Secondo Curione – seguitarono a propagare le sue dottrine fino al giorno in cui anch’essi dovettero emigrare per sottrarsi all’Inquisizione.
Ochino, dopo aver parlato con Vermigli, decise di seguirne l’esempio. Il fratello della sua vecchia amica Vittoria Colonna gli dette un cavallo con cui raggiunse Ferrara, ch’era diventata una specie di rifugio per i perseguitati, grazie alla duchessa Renata. Costei, figlia di Luigi XII di Francia, era stata iniziata al protestantesimo dalla sua governante, madame Soubise. Renata se la portò dietro quando si trasferì a Ferrara in seguito al matrimonio con Ercole d’Este. Le due donne organizzarono a Corte un piccolo cenacolo di ugonotti francesi che Ercole accolse con rinascimentale liberalità fino al giorno in cui uno di essi, durante una funzione religiosa, gridò: «Idolatria!» L’Inquisizione, che già teneva d’occhio quel gruppo di malpensanti, spiccò contro di essi mandato di comparizione. Sebbene tra di loro ci fosse anche la Duchessa sua moglie, Ercole non si oppose alla richiesta, e l’episodio dimostra quel che s’è già detto: quanto gli Stati italiani fossero sottomessi alla Chiesa, cioè quanto poco fossero degli Stati veri e propri. Dei convocati, uno sfuggì, che gl’inquisitori non si sarebbero lasciati scappare di certo se avessero immaginato a quale carriera era avviato perché, sotto un nome d’accatto, si trattava di Calvino in persona. Gli altri se la cavarono con una ritrattazione a fior di labbra, e ricominciarono a far la fronda. Ercole, che non voleva storie col Papa, esiliò l’ostinata Duchessa in una villa di campagna, le strappò le figlie ch’essa aveva iniziato alla fede protestante, poi la relegò in un convento per un buon lavaggio del cervello, e alla fine la denunziò egli stesso all’Inquisizione. Riconosciuta eretica e condannata all’ergastolo, Renata si rassegnò a un’abiura che le permise di riprendere il suo posto a Corte. Ma ci visse da prigioniera; e, rimasta vedova, tornò in Francia.
Tutto questo però non era ancora avvenuto, quando Ochino bussò alla sua porta. Essa lo rifornì di vestiti, di denaro e di lettere di presentazione per i suoi amici di Zurigo e di Ginevra.
Dopo aver vagabondato per la Svizzera, il fuggiasco si stabilì ad Augusta come predicatore, e prese moglie. Ma nel 1547 i magistrati della città l’avvertirono che contro di lui c’era un mandato di arresto imperiale. Ochino ebbe appena il tempo di fuggire prima a Zurigo, poi a Basilea, infine a Londra dove ottenne un modesto impiego a Canterbury. Lì per sei anni fu tranquillo e poté attendere ai suoi scritti – forse i più importanti del pensiero protestante italiano – cui Milton attinse l’ispirazione del suo Paradiso perduto.
Quando però sul trono d’Inghilterra salì la cattolica Maria Tudor, Bernardino dovette riprendere la sua peripatetica vita di apolide. Gli dettero un posto di pastore a Zurigo, ma lo perse perché anche come protestante egli seguitava a protestare e non riusciva ad andar d’accordo con nessuno: era un deviazionista nato, un trotzkista avanti lettera. Espulso dalla città, ramingò con la moglie e i quattro figli fra Basilea che lo respinse come «indesiderabile», Norimberga, la Polonia e la Moravia. Per strada incontrò la peste che gli portò via tre delle sue quattro creature. Schiantato dal colpo, egli le seguì nella tomba due mesi dopo. Le sue ultime parole furono: «Non ho mai voluto essere né un papista né un calvinista, ma solo un Cristiano»: la vocazione più difficile, l’ambizione più sbagliata in quel mondo diviso dagli odi teologici, i più spietati, i più anticristiani di tutti.
Certamente hanno torto certi storici italiani di parte laica, che cercano di maggiorare la portata di questi movimenti protestanti. È vero che Lutero si vantava di avere nella Penisola circa trentamila seguaci. Ma si trattava di una cifra propagandistica. In Italia ci saranno state, sì, trentamila persone, e forse anche di più, che mostravano simpatia per la Riforma perché avevano in uggia la Chiesa. Ma si trattava più che altro di un generico anticlericalismo, cioè di una protesta all’italiana, senza un vero impegno morale. Il solo nucleo di notevole importanza fu quello dei valdesi del Piemonte. Ma più che «riformati», costoro erano i precursori della Riforma. Lo erano da quattro secoli, durante i quali non avevano più partecipato alla vita religiosa italiana. Di essi preferiamo rimandare la storia al successivo volume L’Italia del Seicento perché è nel Seicento che questo gruppo fa sentire, attraverso il martirio, la sua voce. Per ora è solo una eccentrica minoranza che vive, geograficamente e spiritualmente, a margine del Paese.
Tuttavia aveva torto anche Calvino quando scherniva i nostri ribelli chiamandoli «nicodemi» dal nome di colui che, secondo il Vangelo di Giovanni, era andato da Gesù, ma di notte, per non farsi riconoscere. Una cosa era fare l’eretico a Ginevra; un’altra era farlo a Roma o a Lucca sotto la supervisione degli Spagnoli e dell’Inquisizione. La vicenda di Ochino dimostra che questi nicodemi sapevano anche sfidare rischi mortali per aiutarsi tra loro. E fra di essi ci fu anche un Carnesecchi che, ambiguo durante il processo, salì poi sul patibolo «tutto attillato con la camicia bianca, con un par di guanti nuovi e una pezzòla bianca in mano», come scrisse un cronista fiorentino.
Date le circostanze, era logico che gl’Italiani toccati dallo spirito protestante prendessero un’altra strada: quella della Riforma, sì, ma dal di dentro della Chiesa e per la sua rigenerazione, non dal di fuori e per la sua distruzione. Questa scelta sarà stata suggerita anche dal calcolo e dalla paura. Ma bisogna riconoscere ch’era la più realistica. Senza la protezione di un potere laico e senza seguito popolare, la Riforma in Italia non poteva fare che dei martiri, e ne fece. Ma i loro cadaveri non concimarono nulla. A raggiungere qualche risultato furono solo coloro che decisero di agire con la Chiesa invece che contro di essa. E fra costoro c’erano anche una dozzina fra Vescovi e Arcivescovi.
Vediamoli all’opera.