CAPITOLO QUARANTUNESIMO

IL NEMICO INVINCIBILE

Col secolo – quel secolo splendido e tormentato –, anche la vita di Filippo volgeva alla fine. La gotta aveva ridotto il suo corpo a una piaga purulenta e lo stava disfacendo pezzo a pezzo. Da buon Spagnolo, egli si preparò alla morte come a una festa lugubre e solenne. Si rinchiuse nella cripta dell’Escuriale, piazzò il suo letto fra le tombe degli antenati e trascorse gli ultimi mesi a pregare insieme ai monaci che gli ronzavano intorno. Non aveva paura del Gran Mistero perché per lui non lo era. La Grazia non poteva mancargli, visto che aveva assolto tutti i suoi doveri di Re e di cattolico combattendo gl’infedeli e perseguitando gli eretici. La storia non aveva conosciuto un sovrano più sgobbone, bacchettone e inflessibile di lui.

Non aveva avuto una vita felice: anche la famiglia gli aveva dato poche consolazioni. Il figlio primogenito, don Carlos, che avrebbe dovuto succedergli, era gobbo e squilibrato, e Filippo aveva dovuto rinchiuderlo in prigione per complotto contro la sicurezza dello Stato. Lì il ragazzo era morto in circostanze non del tutto chiare, e la gente diceva ch’era stato il padre a ucciderlo. Forse non era vero. Ma avrebbe potuto esserlo, e non per questo Filippo si sarebbe sentito meno degno della Grazia. Anzi. Ora la successione toccava al secondogenito, Filippo come lui, ma solo nel nome: un giovanotto abulico e svogliato, propenso a evadere tutti i problemi e a lasciarli in appalto agli altri pur di non far fatica.

La sola consolazione del moribondo era stata la figlia Isabella, per la quale Filippo aveva sognato il trono d’Inghilterra, una volta che la sua invincibile armata fosse riuscita a conquistarla. Ma era rimasto un sogno. Per darle comunque una corona, Filippo all’ultimo momento l’aveva sposata a un Asburgo del ramo austriaco, l’arciduca Alberto, assegnandole come dote le Fiandre, che così finalmente si liberavano dell’odiato giogo spagnolo. Filippo sperava che ciò bastasse a quietare quel turbolento Paese e che la sua niña potesse regnarvi in pace. La morte non gli diede il tempo di accorgersi che anche questo calcolo era sbagliato.

Insomma, nonostante l’impegno che ci aveva profuso, tutta la sua fatica restava incompiuta. Invulnerabile dentro la sua cintura di mari, l’Inghilterra seguitava a lanciare le sue agili flotte all’attacco di quelle spagnole e al saccheggio delle loro basi. Filippo aveva tentato di rivalersene riaccendendo il fuoco della rivolta in Irlanda e sbarcandovi un corpo di spedizione. Ma gl’Inglesi erano già alla controffensiva e il corpo di spedizione tagliato dalla madrepatria. La Francia si era stretta intorno a Enrico IV, e Filippo aveva dovuto rassegnarsi a firmare con lui una pace che ribadiva quella di Cateau-Cambrésis, cioè si concludeva con un nulla di fatto. Nonostante i rivoli d’argento che avevano cominciato ad affluire dal Perù, le casse dello Stato erano disperatamente vuote, tanto che nel 1596 – ed era già la terza volta che succedeva – Filippo aveva dichiarato fallimento come un privato qualsiasi per sottrarsi ai propri creditori. Le guerre lo avevano dissanguato.

Era incredibile che un Reame potente come il suo, spalleggiato dalla Chiesa e assecondato dagli altri Asburgo d’Austria, Ungheria e Boemia, non fosse riuscito a ristabilire l’unità in Europa, e che un pugno di pezzenti fiamminghi e di marinai inglesi fosse riuscito a tenerlo in scacco. Nella sua politica ci doveva essere qualcosa di sbagliato. Ma cosa?

Anche se niente lo prova, è verosimile che Filippo sul letto di morte si sia posto questa domanda. Ma è assolutamente inverosimile che vi abbia trovato risposta. Filippo era un uomo dei suoi tempi: i suoi calcoli erano basati unicamente su rapporti di forza materiale. E questi rendevano più che plausibile il suo sogno egemonico. Non si può dire che nel perseguimento dei suoi piani egli avesse commesso più errori dei suoi avversari e rivali. Su costoro aveva anche il vantaggio di una migliore informazione. Oltre ai rapporti ch’egli esigeva dai suoi ambasciatori e agenti, sul suo tavolo si accatastavano quelli dei gesuiti, che facevano capo a lui e che la sapevano più lunga di tutti. E con la frenesia di lavoro che lo distingueva, quel Re burocrate e scartoffiaio non ne trascurava uno. Era senza dubbio il sovrano più al corrente della situazione mondiale. Nulla gli sfuggiva. Nulla, meno la cosa più importante, anche se più imponderabile: la comparsa sulla scena della storia di un nuovo protagonista che si sottraeva a ogni calcolo basato sull’estensione dei possedimenti, sul numero dei sudditi, sul potenziale degli eserciti: la coscienza individuale.

A svegliarla, più che Lutero, era stato Calvino. La causa del monaco di Wittenberg si era confusa con quella del nazionalismo tedesco e n’era stata condizionata. La sua efficacia infatti non aveva travalicato i confini dei Paesi di lingua e cultura germanica. Ma, oltre che del suo accento teutonico, essa soffriva di un’altra limitazione, grazie ai compromessi cui aveva dovuto scendere per vincere la sua battaglia. Erano i Principi che avevano salvato Lutero dalla persecuzione e coi loro eserciti avevano impedito a Carlo V di annientare la Riforma. Lutero se n’era sdebitato avallando la loro autorità e anzi attribuendole carattere sacro. «Non c’è autorità che non provenga da Dio» badava a ripetere (e di questa concezione noi contemporanei abbiamo visto un tardivo ma eloquente frutto nella docilità con cui tanti onesti Tedeschi si piegarono davanti a Hitler fino a secondarne gli atti più criminali perché anche lui incarnava un’autorità che, come tale, proveniva da Dio). Nel momento insomma in cui liberava la coscienza del fedele dal magistero del sacerdote, Lutero affidava questo magistero al Principe autorizzandolo a farne strumento di governo. Egli non aveva distrutto il principio di autorità. Lo aveva soltanto laicizzato.

Calvino non aveva dovuto fare i conti né col nazionalismo né coi Principi. Il destino lo aveva condotto in una città, Ginevra, che faceva parte di un coacervo di Cantoni plurirazziali e plurilingui, e che già si reggeva su un autogoverno di semplici cittadini. Egli non era quindi oberato da esigenze di tattica e di strategia né costretto a compromessi. La coscienza del fedele era insieme l’unico teatro della sua battaglia e la posta da conquistare.

Alla sua scuola nasce infatti un nuovo tipo d’uomo. Un uomo che anzitutto considera l’istruzione un dovere morale perché solo quando avrà imparato a leggere potrà accostarsi al Libro, cioè alle Sacre Scritture che Calvino gli ha proposto come unica bussola della sua condotta. La salvezza, dice Calvino, è lì, e soltanto lì. Quindi l’analfabeta, che non può decifrare il Libro e attingervi la sua regola, è già destinato alla dannazione. Il pastore, che non è sacerdote, non può nulla per lui. Può dare qualche consiglio o suggerimento. Ma il Libro non ammette interpreti. Ognuno deve cercarvi per suo conto la propria guida. E ognuno è direttamente responsabile di fronte a Dio del modo in cui lo farà e vi si atterrà. Non ci sono preghiere né gesti caritatevoli che possano rimediare a eventuali deviazioni.

Così, per rintracciare nel Libro il proprio itinerario, vecchi e giovani, uomini e donne, si ritrovano la sera nelle loro piccole assemblee o «congregazioni» là dove il culto è libero, e nelle case o nelle cantine di qualche «fratello#x00BB; là dove il culto è perseguitato, a leggere o a compitare secondo i casi. Non ci sono gerarchie in questo gregge perché lo stesso pastore non svolge nessun compito di mediazione ma, caso mai, quello di semplice maestro di scuola; e tanto meno ci sono differenze di classe. Il nobile è solo di fronte a Dio non meno del borghese e del popolano, siede sul loro stesso banco, parla il loro stesso linguaggio, anche perché è soggetto agli stessi pericoli d’inquisizione e di rogo. Qui infatti nasce la democrazia, quella vera, che si basa sul sentimento religioso dell’uguaglianza e sull’impegno della responsabilità personale. Tutte le altre, che non attingono a questa fonte, sono di similoro e ne hanno la consistenza, come purtroppo si vede nei Paesi in cui il cattolicesimo della Controriforma ha trionfato in assoluto.

Non è un credo comodo, quello calvinista. Il grande riformatore non è stato tenero nemmeno coi suoi. Non promette loro il paradiso. Li consegna senza neanche una parola di «raccomandazione» a un Giudice di cui egli stesso confessa di non penetrare le ragioni e il codice, e di cui nulla vale ad ammorbidire la severità. Il cattolico conosce, o crede di conoscere, la via della salvezza. Se rinnega il mondo – questo regno di Satana – per sfuggire alle sue tentazioni, se si assorbe nella preghiera e si abbandona all’estasi mistica, è sicuro di entrare nelle grazie di Dio. Al calvinista questi conforti sono negati. Non ha scappatoie. Nessuno può dargli una mano. È solo. Il Giudice al cospetto del quale si trova giorno e notte non gli si rivela per nessun segno né di assoluzione né di condanna. Alla salvezza gli offre una strada sola, che non è la contemplazione e la fuga dal mondo, ma il dovere di fronte al mondo.

Il calvinista (o «puritano», come lo chiamano in Inghilterra) è l’uomo del dovere, cioè del sacrificio: in famiglia, nel lavoro, nella società. Invece di andare a pregare in convento come faceva il suo antenato medievale, perché nella sua morale ciò equivarrebbe a diserzione e la preghiera non serve a nulla, trasforma in convento la sua casa, la sua bottega, la sua corporazione. Ogni sera ha il suo bravo conto da rendere al terribile Dio che lo sorveglia. Deve dimostrargli coi fatti che ha prodotto più di quanto ha consumato, che ha risparmiato più di quanto ha speso, che ha penato più di quanto ha goduto.

È questa religione del lavoro e del risparmio che dà avvio, fornendogli un fondamento morale, al capitalismo nel senso moderno della parola. Il borghese fiorentino del Tre e del Quattrocento accumulava danaro per acquistare rango sociale e potere politico, con ciò accettando implicitamente le strutture della società aristocratica in cui viveva e solo badando a inserirvisi meglio che poteva col titolo nobiliare comprato dal Papa o dall’Imperatore, col palazzo, col mecenatismo. Il calvinista, cresciuto nell’atmosfera democratica della «congregazione» e sotto il segno di un Dio egalitario, rifiuta le gerarchie della società rinascimentale, non cerca di guadagnarvi un posto, e vede nel danaro non uno strumento di potenza politica o di «promozione» sociale, ma un segno della Grazia. Il ricco, nel credo calvinista, è «l’eletto».

Votato alla solitudine dalla sua stessa concezione religiosa, represso per tutte le rinunzie che s’impone a cominciare da quelle dei sensi, sparagnino fino all’avarizia, intransigente con gli altri come lo è con se stesso, nemico di ogni sfarzo e ostentazione, sempre pronto a infiorare il suo discorso di citazioni bibliche e a giudicare tutto e tutti dall’alto della sua orgogliosa certezza di appartenere agli «unti del Signore», il calvinista è un personaggio di difficile commercio, talvolta francamente sgradevole. Ma rappresenta l’elemento propulsore del mondo moderno. È lui che istaura la civiltà del lavoro e dell’efficienza, di cui noi stessi siamo i figli. È lui nella sua qualità d’imprenditore e di capitano d’industria che sta per strappare il ruolo di protagonista al militare e al prelato sovvertendo le strutture della società tradizionale. È lui soprattutto che oppone un ostacolo insormontabile a ogni tentativo di restaurazione autoritaria. Non ha nulla dalla sua. Religione di ceti medi urbani, da Ginevra il calvinismo si è diffuso nei centri mercantili e industriali d’Europa, da Lione ad Anversa. Ma, a differenza del luteranismo, non ha né uno Stato né un esercito. Ha solo un rifugio, ma inespugnabile: la coscienza, che Calvino ha finalmente liberato da ogni costrizione esteriore e restituito alla piena e assoluta responsabilità.

Filippo s’era trovato di fronte questo nemico soprattutto in Fiandra. E probabilmente sul letto di morte si domandava cosa aveva dato a quel pugno di pezzenti olandesi senz’armi né danaro la forza di resistere alla sua flotta, al suo esercito, alla sua diplomazia. Il Re della Controriforma non capiva, non poteva capire che la sua lotta contro l’eresia era stata la lotta contro il mondo moderno, che proprio da quell’eresia prendeva l’avvio. Tutti i suoi sforzi e quelli della Chiesa erano riusciti soltanto a sottrarre a questa rivoluzione il loro feudo: la Spagna, l’Italia e il continente latinoamericano. Con quali conseguenze per questi Paesi lo vediamo ancor oggi.