CAPITOLO QUARANTADUESIMO

L’ITALIA SI SPEGNE

L’egemonia spagnola sull’Italia, diventata definitiva con la pace di Cateau-Cambrésis del 1559, aveva significato la fine delle lotte fratricide fra Stato e Stato, fra città e città, che per secoli avevano insieme assorbito ed esaltato le energie del nostro Paese. Viceré e gendarmi di Madrid garantivano l’assetto dato alla Penisola, che infatti rimase pressappoco inalterato fino ai primi del Settecento. Essi governavano direttamente il Milanese, le due Sicilie, la Sardegna e i Presidi di Maremma. Ma su tutto il resto esercitavano una supervisione che lasciava poco spazio alle iniziative locali. Il Piemonte dei Savoia, la Repubblica di Venezia, il Granducato di Toscana, gli Stati pontifici e i piccoli Principati lombardo-emiliani che si dividevano il resto dello Stivale non erano autonomi che sulla carta. In realtà dovevano uniformarsi alle direttive della Spagna sia in politica estera che in quella interna.

Non si possono sottovalutare i benefici che ne derivarono. Per la prima volta, dopo tanti secoli, l’Italia conosceva finalmente un po’ di pace. Il Paese era stremato, devastato dalle invasioni, demograficamente impoverito dalle pestilenze e carestie, e geograficamente declassato dalla scoperta del Nuovo Mondo che favoriva le nazioni atlantiche. Ma il dominio spagnolo, fedele alleato della Chiesa, lo metteva al riparo dalle furiose lotte di religione e di supremazia marittima che invece divampavano nel resto d’Europa; e forse molti Italiani ne avevano salutato l’avvento con un respiro di sollievo. A valutare il prezzo di questa pace, a sentire quale immiserimento non soltanto politico ed economico, ma anche spirituale, essa comportava, furono in pochi. Lo dimostra la docilità con cui il Paese, nel suo insieme, accettò la nuova situazione. Il gendarme spagnolo e il tribunale dell’Inquisizione non trovavano in Italia l’ostacolo che avevano incontrato in Olanda: una coscienza individuale resa consapevole dalla Riforma dei propri diritti e doveri e quindi decisa a tutto pur di salvare la sua autonomia dal sopruso autoritario. La trionfante Controriforma aveva tolto agli Italiani questa difesa, e li rendeva disponibili a tutto. È da questo momento infatti che si sviluppa nel nostro popolo la propensione ai mestieri «servili», in cui tuttora gl’Italiani eccellono. Essi sono i migliori camerieri del mondo, i migliori maggiordomi, i migliori portieri d’albergo, i migliori lustrascarpe, perché cominciarono a esserlo fin d’allora, quattro secoli fa. E fin d’allora, quando rinunziarono a quell’esame di coscienza che le Chiese riformate pongono a supremo regolo dell’umana condotta, s’abituarono a misurare le proprie azioni, sia nel campo privato che in quello pubblico, secondo un metro puramente utilitario, svincolato da qualsiasi impegno morale. L’Italiano non bada più che al «suo particulare», già invocato dal Guicciardini, in netta antitesi col civismo e la socialità, che il calvinismo invece sviluppa ed esalta nei popoli anglosassoni. Questo spiega l’acquiescenza italiana – destinata a durare tre secoli – alla situazione di Paese diviso e aggiogato al carro straniero. Dopo la pace di Cateau-Cambrésis la Penisola non ha più neanche una storia che non sia il riflesso di quella del padrone di turno.

Questo padrone per ora è la Spagna. Vediamo rapidamente come si svolge, sotto la sua regia, la vicenda dei vari Stati italiani nell’ultimo quarantennio del secolo. È una vicenda povera d’eventi, e anche di protagonisti, ridotti come sono a una condizione di vassalli.

A Napoli, la politica del viceré don Pedro di Toledo venne continuata dai successori. Quello che per energia più gli somigliò fu il Duca d’Alcalà, giunto a Napoli dalla Catalogna nel 1559. Era il vero tipo dell’hidalgo, altero, sprezzante, maniaco del protocollo e dell’etichetta. La sua prima preoccupazione fu di estirpare gli eretici di Calabria, poche migliaia di poveri contadini, discendenti da un pugno di valdesi, che sulla fine del tredicesimo secolo avevano cercato rifugio nei paesini di San Sisto e La Guardia. I signorotti del luogo li avevano sempre perseguitati, ma non erano mai riusciti a disperderli. Il viceré ordinò una caccia all’uomo senza precedenti, che portò letteralmente allo sterminio di quegli innocenti. In undici giorni ne vennero massacrati duemila e altrettanti furono imprigionati in attesa di fare la stessa fine. Un contemporaneo così descrisse quel «sacro macello»: «Oggi a buon’ora si è ricominciato a far l’orrenda iustitia di questi luterani, che solo in pensarvi è spaventevole: e così sono questi tali come una morte di castrati; li quali erano tutti serrati in una casa, e veniva il boia e li pigliava a uno a uno, e gli legava una benda davanti agli occhi, e poi lo menava in un luogo spazioso poco distante da quella casa, e lo faceva inginocchiare, e con un coltello gli tagliava la gola, e lo lasciava così; di poi pigliava quella benda così insanguinata, e col coltello sanguinato ritornava a pigliar l’altro, e faceva il simile».

Non contento di tanta carneficina, l’Alcalà chiese a Filippo II d’introdurre a Napoli l’Inquisizione spagnola. Ma il sovrano, memore dell’insurrezione che un analogo tentativo aveva scatenato nel 1547, rifiutò.

Meno fortunato fu il viceré nella lotta contro i briganti, che costituivano veri e propri eserciti armati. Quello del bandito Marco Berardi, soprannominato Re Marcone, contava millecinquecento uomini, di cui seicento cavalieri. Infestavano le contrade, assalivano le diligenze, derubavano i viandanti, violentavano le donne. Qualche volta s’ergevano a paladini delle popolazioni contro i soprusi del viceré e dei suoi intendenti, ricevendone in cambio asilo e garantendosene l’omertà.

Anche i pirati turchi che imperversavano lungo le coste diedero all’Alcalà molto filo da torcere. Ma neppure di costoro egli venne a capo. Deluso, malato e odiato, chiese di tornarsene in Spagna, ma alla vigilia della partenza fu stroncato da un attacco di broncopolmonite.

I successori mirarono a spremere le popolazioni e a portar oro alle casse dell’Escuriale. Fecero poco e male; e il Mezzogiorno diventò vieppiù un’area depressa, con le conseguenze facilmente immaginabili: il commercio si rarefece, l’agricoltura, abbandonata a se stessa e ai grandi latifondisti, decadde in modo irreparabile. Anche la società e il costume ne risentirono. I Napoletani cominciarono a vivere di riporto, scimmiottando in tutto e per tutto lo stile, i gusti e le fogge dei padroni. I signori presero a indossare tuniche corte, scarpe con fibbie d’oro, tempestate di diamanti; le dame a portare abiti sgargianti e svolazzanti di pizzi, trine e merletti; gli avvocati a ostentare quei piccoli copricapi di paglia foderati di taffetà nera, ancor oggi in voga, che gli valsero il nomignolo di «pagliette». Entrò nell’uso il «don» davanti ai nomi propri. Si diffusero gli ampollosi titoli di «eccellenza», «magnificenza», «reverendo» e l’espressione «bacio le mani», accompagnati da grandi scappellate e profondi inchini. Delle nuove mode quella che più fece furore fu il duello, forse perché forniva uno sfogo alla cavillosa litigiosità partenopea. Si incrociavano le armi per le più futili questioni d’etichetta e di precedenza. Sebbene le leggi punissero severamente chi si faceva giustizia da sé, le «singolar tenzoni» erano all’ordine del giorno, degeneravano spesso in zuffe collettive e regolarmente ci scappava il morto.

Sullo scorcio del secolo la capitale del vicereame sfiorava il mezzo milione d’anime. La plebe seguitava a vivere, anzi a morire, d’elemosine nei luridi «bassi». L’aristocrazia aveva perduto la ricchezza e molti degli antichi privilegi, ma non il sussiego e la spocchia, e una nuova nobiltà, quella di toga, ne aveva preso il posto. Giuocando e aizzando una classe contro l’altra, i viceré riuscivano però facilmente a tenere in pugno il paese.

L’altro caposaldo iberico in Italia era Milano. Ridimensionato nei suoi possedimenti, il vecchio Ducato dei Visconti e degli Sforza aveva perduto con l’indipendenza molto del suo antico splendore, sebbene la capitale fosse ancora una città ricca e culturalmente viva. Ma gli agenti del fisco spagnolo e i tribunali dell’Inquisizione la stavano finanziariamente e moralmente drenando.

Nel 1565 i suoi abitanti esultarono alla notizia dell’arrivo del nuovo Arcivescovo, Carlo Borromeo. Il papa Pio IV, suo zio, l’aveva designato a quell’alto incarico cinque anni prima, quando Carlo ne aveva solo ventidue. Ma per un lustro aveva voluto tenerselo con sé a Roma come segretario di Stato, un posto di solito riservato a uomini più maturi. Pio vi aveva collocato Carlo non solo perché si trattava del nipote, ma anche perché questo nipote metteva gl’interessi della Chiesa al di sopra persino di quelli propri. Era un giovane d’ingegno straordinariamente precoce, di vaste letture, di costumi illibati, sensibile, volitivo, eloquente, non bello ma pieno di fascino, che incarnava la Controriforma in tutto il suo rigore. Debuttò rinunziando a tutte le proprie rendite per costruire nuove chiese e ospedali. Il gesto piacque ai Milanesi ma dispiacque all’alto Clero che a simili esempi non aveva nessuna voglia di ispirarsi. Anche l’opera di moralizzazione degli ordini religiosi procurò all’Arcivescovo molti nemici, specialmente fra gli Umiliati, tali ormai solo di nome. Il 26 ottobre 1569 un prete, assoldato da costoro, sparò un’archibugiata contro il presule che stava recitando il rosario nella sua cappella privata. L’attentatore mancò il bersaglio e riuscì a fuggire. Acciuffato pochi mesi dopo, finì sul patibolo assieme ai mandanti.

Nemmeno per la Spagna il Borromeo fu un interlocutore comodo. Era un irriducibile assertore della supremazia del potere spirituale su quello temporale, e finché fu a capo della diocesi milanese, cioè sino alla morte, avvenuta nel novembre 1584, non riconobbe, almeno in teoria, altra autorità al di sopra della propria, riuscendo persino a impedire che l’Inquisizione spagnola venisse introdotta nella sua città. Forse per questo fu tanto amato dai Milanesi, che ne fecero con Ambrogio il loro grande Santo.

Sebbene indiretto, il dominio iberico si faceva sentire anche a Genova. La città manteneva però una certa autonomia, grazie ai servigi che Andrea Doria aveva reso alla Spagna. Questa aveva strettamente legato a sé la classe dirigente che dominava la Repubblica, e che era a sua volta dominata dalle grandi dinastie dei Doria, dei Grimaldi, degli Spinola, da cui dipendeva anche la strapotente Banca di San Giorgio. La migliore cliente della Banca era la corona di Spagna, dissanguata dalle guerre europee e sempre a corto di quattrini. In cambio dei suoi prestiti, Madrid concedeva ai mercanti genovesi speciali privilegi. I prodotti della Repubblica affluivano a Milano, Cadice, Lisbona, Barcellona, nei Paesi Bassi, nelle colonie americane, dovunque sventolasse la bandiera del Re cattolico.

La Spagna doveva importare tutto, compresi i tecnici e la manodopera specializzata, priva com’era d’industrie e con un’agricoltura in perpetua crisi per l’incessante esodo dei contadini, serbatoio e nerbo degli eserciti imperiali.

Nell’orbita spagnola ruotava anche il Piemonte. Il duca Emanuele Filiberto, che a San Quintino, alla testa dell’esercito spagnolo, aveva battuto quello francese, ne era diventato l’incontrastato padrone. Fin’allora la sua capitale era stata Chambéry perché i suoi possedimenti erano più di là delle Alpi, in territorio francese, che di qua, in territorio italiano. Emanuele Filiberto la trasferì a Torino, spostando il campo della sua azione politica dalla Savoia al Piemonte. Anzi, a una parte del Piemonte, perché il resto apparteneva ai Marchesati di Saluzzo e del Monferrato. Si procurò anche uno sbocco al mare annettendosi la Contea di Tenda, che gli dava accesso a Nizza, e comprando dai Genovesi il porto di Oneglia.

Era un uomo chiuso, taciturno, enigmatico. Aveva un debole per le donne, era di gusti semplici, odiava il lusso e ogni forma d’ostentazione al punto da vietare ai sudditi l’uso di abiti troppo sfarzosi. Era un cattolico fervente, arginò con un editto il moto calvinista dilagante nelle valli piemontesi, dichiarò guerra agli eretici e ne spedì molti sul rogo. Nel giugno 1561, per intercessione della moglie Margherita, concesse però libertà di culto ai valdesi. Avvolse il Piemonte in un sudario d’austerità, ma ne fece uno degli Stati italiani più ordinati, efficienti e prosperi.

Il figlio Carlo Emanuele I lo prese in consegna nel 1580 e lo tenne fino alla morte, avvenuta cinquant’anni dopo. Continuò la politica del padre con una spregiudicatezza che Emanuele Filiberto avrebbe forse disapprovato, ma che s’intonava al suo carattere energico, autoritario e alla sua sconfinata ambizione. Non tutte le imprese in cui si cacciò gli riuscirono. Fra quelle fortunate, la più fortunata fu l’annessione del Marchesato di Saluzzo. Lo strappò alla Francia, profittando delle guerre di religione che la dilaniavano. Quando la Francia fu in grado di riprenderselo, egli propose di barattarlo con le terre fra Lione e Ginevra che facevano parte del suo patrimonio di famiglia. Queste valevano molto di più di Saluzzo, ma avevano il torto di essere al di là delle Alpi. Anche per Carlo Emanuele I il destino del suo Stato e della sua dinastia si giuocava ormai solo al di qua.

Un altro alleato su cui Madrid poteva, ma fino a un certo punto, contare era il Duca di Toscana. Da buon «Padre della Patria», infatti, Cosimo aveva cercato di mantenere il suo Stato al di fuori delle beghe franco-spagnole, badando solo ad amministrarlo bene e a renderlo prospero. Fra il novembre e il dicembre 1562 il Duca era stato colpito da una serie di lutti familiari. In poche settimane la perniciosa gli aveva ucciso due figli e la moglie Eleonora, che adorava.

Ne era stato talmente sconvolto che nel marzo 1564 affidò lo Stato al figlio Francesco e si ritirò a vita privata. Non rinunziò però né alla supervisione degli affari politici, né al titolo di Duca che, nell’agosto 1569, il Papa trasformò in quello di Granduca. Libero dagli impegni ufficiali di Stato, si risposò con la fatua e procace Camilla Martelli, dalla quale fu sottoposto a tali maratone erotiche che, già sofferente di gotta, s’ammalò anche di cuore. Camilla cominciò allora a tradirlo spudoratamente e a maltrattarlo in tutti i modi, rifiutandosi persino d’imboccarlo e fingendo, la notte, di non udirne i lamenti. Solo la morte, nell’aprile 1574, lo liberò da quell’impossibile compagna.

Il successore Francesco non aveva la stoffa del padre. Più che la politica lo interessavano le storte e gli alambicchi. Aveva infatti l’hobby della chimica e della meccanica e si vantava d’essere un esperto di balistica e pirotecnica. Cosimo gli aveva dato per moglie Giovanna d’Austria. Francesco non la digerì mai e alla sua morte impalmò l’amante Bianca Cappello, alla quale fu fedelissimo, come lo fu alla Spagna, di cui fece il puntello del suo Stato. Il fratello Ferdinando I che gli successe nel 1587 continuò la politica interna del padre, ma in quella estera riuscì a sottrarsi all’influenza di Madrid per porsi sotto quella di Parigi.

Ma ormai Firenze non era più la mecca intellettuale, politica ed economica d’un tempo. Era ancora una città colta, raffinata, elegante ma non aveva più un signore come Lorenzo, né artisti come Brunelleschi, Donatello, Michelangelo. Le grandi industrie della lana e della seta erano in crisi, le banche s’erano impoverite, il capitalismo da mercantile era diventato agrario. Concentrandosi sulla terra, tagliato fuori dal grande gioco finanziario europeo, aveva perduto molto del suo peso economico e tutto il suo peso politico.

A Sud e a Est del Granducato si stendeva lo Stato pontificio. La Controriforma l’aveva trasformato in una cupa e immensa sacrestia. Il potere dei Papi s’era fatto più che mai assoluto anche per l’appoggio incondizionato del cattolicissimo Filippo II, che aveva consentito ai Pontefici non solo d’allargare i loro domini, che ora inglobavano, da Ferrara a Terracina, il Lazio, l’Umbria, le Marche, la Romagna e una buona fetta dell’Emilia, compresa Bologna, ma anche di ridurre all’obbedienza le piccole e riottose Signorie che vi s’erano istallate.

Nel 1566 salì sul Soglio, col nome di Pio V, Michele Ghislieri. Pochi come lui avevano le carte in regola per occupare quel posto. Aveva militato nell’ordine domenicano e s’era segnalato come inquisitore, mandando sul rogo tutti gli eretici che gli erano capitati a tiro. Da Papa seguitò a dare la caccia ai nemici del cattolicesimo e a portar fascine agli autodafé. Scomunicò Elisabetta d’Inghilterra e incitò i suoi sudditi cattolici alla ribellione, incoraggiò le persecuzioni degli ugonotti in Francia e applaudì la repressione del Duca d’Alba nei Paesi Bassi. Adottò la maniera forte anche all’interno della Chiesa e della stessa Curia. Revocò i benefici ai Vescovi che non risiedevano nelle loro diocesi, abolì favoritismi, privilegi, sinecure, licenziò i parassiti e i bighelloni che affollavano la Curia romana. Visse e morì da asceta, macerato dai digiuni e dalle penitenze, senza provare rimorsi e senza suscitare rimpianti.

Gregorio XIII non ebbe la tempra del predecessore, ma ne condivise lo zelo ortodosso, celebrando con un Te Deum di ringraziamento il massacro di San Bartolomeo. Più che delle anime ebbe cura delle finanze pontificie, che cercò di rinsanguare confiscando terre ai nobili. Costoro reagirono scatenandogli una guerriglia senza quartiere. Per farla cessare, il Papa dovette revocare gli espropri.

Gregorio calò nella tomba dopo tredici anni di regno, lasciando in eredità ai posteri un nuovo calendario, che da lui prese appunto il nome di gregoriano. Fin’allora s’era seguito quello di Giulio Cesare che aveva diviso i quadrienni in tre anni di 365 giorni e uno di 366: il che, per quei tempi, rappresentava un miracolo di precisione.

Ma gli astronomi e i matematici del Cinquecento avevano appurato che, secondo quel calcolo, ogni quattrocento anni il cosiddetto anno «tropico», cioè l’anno naturale, anticipava di tre giorni l’anno giuliano: per cui, per esempio, nel Cinquecento l’equinozio di primavera veniva a cadere in realtà l’11 marzo, mentre il calendario lo fissava al 21. Gregorio, per rimettere ordine in quella dissestata contabilità, ordinò nel 1582 che undici giorni fossero saltati in ottobre – dal 4 al 15 – e che d’allora in poi gli anni centenari, cioè di chiusura di un secolo, non fossero più bisestili, come fin’allora erano stati considerati, ma ordinari, meno quelli la cui somma delle prime due cifre fosse divisibile per quattro (ad esempio il 1700). Successivi studi stabilirono che nemmeno questo computo era assolutamente esatto poiché esso conduce a un ritardo di sessantuno diecimilionesimi di giorno ogni cento anni. Ma lo scarto è tale che solo fra quattromila anni occorrerà sopprimere un altro bisestile per riportare il conto in parità.

La riforma gregoriana incontrò vivaci resistenze. Molti erano convinti che il Papa avesse voluto «rubare undici giorni alla povera gente», e specialmente i Paesi protestanti l’osteggiarono a lungo. Ma, alla fine, anche questi dovettero arrendersi e accettare il nuovo metro di misura. I Paesi greco-ortodossi invece rimasero ostinatamente fedeli al calendario giuliano nonostante la sua riconosciuta imprecisione, solo perché a riformarlo era stato il capo dell’odiata Chiesa cattolica.

A Gregorio successe Felice Peretti col nome di Sisto V. Sanguigno, violento e autoritario, diede filo da torcere a tutti. Ai briganti che infestavano l’agro romano; ai nobili, che non volevano licenziare i loro bravacci; agli omosessuali, agli adulteri, alle baldracche, agli eretici. Mai, come sotto questo Pontefice, arsero tanti roghi e furono innalzate tante forche. Sisto rafforzò lo Stato della Chiesa sradicando la malavita, riconducendo all’obbedienza le fazioni romane e ristabilendo la disciplina del Clero. Abbellì l’Urbe, costruì nuove chiese e palazzi, allargò le strade, stasò le fogne, ma tassò e tartassò il popolo, che il giorno della sua morte tentò d’abbatterne la statua in Campidoglio. I soli che ai suoi funerali piansero furono i parenti, ai quali Sisto aveva distribuito a piene mani prebende, favori e benefici. Grazie a questo Papa tornò in auge il nepotismo, che la Controriforma sembrava aver per sempre estirpato. Poiché esso non assunse le forme macroscopiche e sfacciate del Rinascimento, fu battezzato «piccolonepotismo», ma non per questo fu meno nefasto e corrotto. Col piccolo-nepotismo i familiari del Papa non diventano più Principi o Duchi. S’accontentano di posti di sottogoverno e di lucrosi intrallazzi, che ottengono grazie alla istituzionalizzazione della nuova carica di «Cardinale-nipote», cioè del nipote favorito del Papa, fatto Cardinale appunto per sfamare il parentado. La piaga del piccolonepotismo infetterà la Chiesa fino all’Ottocento e ne farà lo Stato più dissoluto e peggio governato della Penisola.

Quanto agli altri Stati italiani, Madrid gli aveva lasciato un sembiante d’indipendenza, ma solo un sembiante, perché in qualunque momento era in grado di ridurli all’ordine. L’unico che avesse conservato le sue istituzioni e potesse fare una sua politica era Venezia, rimasta padrona del Veneto, di una fetta di Lombardia, di gran parte dell’Istria e della Dalmazia, e di alcune isole dell’Egeo. La Serenissima doveva questa sua situazione di privilegio un po’ alla sua natura di città anfibia, difficilmente espugnabile da terra, un po’ all’intelligenza dei suoi uomini di Stato, abilissimi nel barcamenarsi fra gli Asburgo d’Austria e quelli di Spagna. Ci riuscirono sempre giocando sulla flotta, necessaria a entrambi per la lotta contro i Turchi. Anche nei confronti della Chiesa, Venezia seppe mantenersi indipendente. Dopo il Concilio di Trento fu l’unico Stato italiano veramente libero e tollerante in fatto di religione.

Quanto ai Principati italiani minori, essi erano tuttora in mano alle vecchie dinastie rinascimentali. Al loro Ducato di Mantova i Gonzaga avevano aggiunto quello del Monferrato, che fra non molto i Savoia gli toglieranno. I Farnese erano rimasti Signori di Parma grazie ad Alessandro, che era stato assieme a Emanuele Filiberto uno dei grandi condottieri dell’esercito spagnolo. Gli Este mantenevano il dominio su Ferrara, Reggio e Modena. Ma, avendo sempre parteggiato per la Francia, ora che questa era stata estromessa dalla Penisola, erano rimasti senza protettore. Alla fine del secolo, quando la dinastia entrò in crisi per mancanza di successori diretti, papa Clemente VIII ne approfittò per inglobare Ferrara negli Stati pontifici, col tacito consenso della Spagna. Gli Este del ramo cadetto dovettero contentarsi di Reggio e Modena.

Pochi decenni erano bastati a trasformare l’Italia dei secoli d’oro, fremente d’energie competitive, campionario di personalità d’eccezione che le avevano assicurato il primato in tutti i campi, in uno squallido cimitero. Ma gl’Italiani non se n’erano nemmeno accorti. Il dramma di questa improvvisa, irreparabile decadenza trovò un’eco solo nella turbata coscienza di alcuni uomini, sopravvissuti scampoli della grande generazione rinascimentale, che lo rifletterono nella loro opera e nella loro vita.

A illuminare il tramonto di un’ultima luce sono un genio, un pazzo e un martire.