26.

Il tassista (sempre lo stesso malese con l’aspetto da nonno e i capelli candidi che li aveva accompagnati prima), vedendo Matthew scendere barcollando dal taxi all’ingresso del Mayfair, pensò che fosse ubriaco e gli chiese se voleva un massaggio, perché conosceva un posticino… Ma Matthew scosse la testa. Si sentiva debole e aveva le vertigini: desiderava solo infilarsi nel letto. Diede la buonanotte a Monty e si incamminò per il corto vialetto che portava al Mayfair Building; con un ruggito del motore il taxi se ne andò, lasciandosi dietro un sospiro di sollievo che rimase sospeso nello spazio vuoto dov’era stata l’auto fino a un attimo prima. Monty, intenzionato a divertirsi, stavolta non voleva ostacoli.

«Devo aver preso un po’ di febbre» pensò Matthew mentre saliva i gradini e cercava faticosamente di aprire la porta esterna della veranda. Dopo quel pensiero ne venne un altro ancora più angosciante: forse aveva preso la Singapore Grip! Di certo doveva essersi buscato una qualche malattia. Si aspettava quasi di trovare il maggiore a fumare un sigaro in veranda, ma anche se una luce in effetti era accesa, di lui non c’erano tracce, e nemmeno di Dupigny. Il pensiero di riposare senza indugio le membra stanche però lo tentava al punto che decise di gettarsi sulla poltrona di vimini più vicina, dove rimase immobile con il fiato corto, madido di sudore, a riprendere un minimo di forze. Quasi subito le palpebre gli si chiusero e si appisolò.

Pochi istanti dopo venne svegliato dal cigolio dei cardini della porta esterna: stava entrando qualcuno. Cercò di tirarsi a sedere e di sembrare sveglio, ma aveva lo sguardo annebbiato e per un attimo vide solo una grande macchia indistinta. Poi si ritrovò faccia a faccia con Joan, che gli disse: «Jim stava per tornarsene a casa ma poi abbiamo visto la luce dalla strada e abbiamo pensato di passare a darti la buonanotte».

«Molto gentile da parte vostra» disse Matthew cordialmente. Ehrendorf era entrato con la ragazza, ma si era seduto sul bracciolo di una sedia di vimini seminascosto nelle ombre accanto alla porta.

«E poi Jim voleva scambiare due parole con te» aggiunse Joan.

«Se riguarda quello di cui abbiamo parlato poco fa» disse Matthew, sentendo che la vista gli si sfocava di nuovo, «sai, la questione coloniale e via dicendo, be’, quello che intendevo dire è che dobbiamo fare in modo che si sviluppi tutto il paese. Al momento invece permettiamo agli abitanti del luogo di lavorare soltanto nel settore agricolo, perché insistiamo a volergli vendere i nostri manufatti. Lascia che ti faccia un esempio…»

«No, no, non si tratta di questo» strillò Joan, precipitosa. «Te lo dirà Jim. Forza, hai detto che l’avresti fatto» aggiunse severa mentre Ehrendorf si agitava nervoso ai margini del cerchio di luce e forse cercava di fare mente locale su quello che aveva intenzione di dire a Matthew.

Nel frattempo dalla memoria di Matthew si era alzato un altro velo ed erano tornati alla luce i fatti della serata, il che gli permise almeno di pensare: «È un vero miracolo che siano riusciti a ricucire il loro rapporto dopo lo scontro che hanno avuto un paio d’ore fa!»

«Forza, hai detto che lo avresti fatto».

Con quel suo volto pallido e attraente, Ehrendorf rimase a fissare Matthew in silenzio stando nella penombra, poi sospirò. Nel frattempo in strada passò un’automobile che scoppiettava producendo un rumore sordo e la luce riflessa dei fari si insinuò a strisce sottili dalle veneziane di bambù abbassate. Finalmente Ehrendorf parlò: «Volevo solo dirti, Matthew, che probabilmente me ne andrò da Singapore tra un paio di giorni… Per un altro incarico, immagino si possa dire così. Non so ancora di preciso dove. Stasera mi sono reso conto che io e Joan… ah, non c’è futuro per il nostro rapporto… buoni amici e basta… Ehm, ovviamente ci auguriamo il meglio a vicenda…» Dopodiché si ammutolì.

«Ecco fatto» disse Joan.

«Cosa? Sei in partenza? E io sono appena arrivato! È un vero peccato!» esclamò Matthew, abbattuto. Ehrendorf si era nascosto per un attimo la testa fra le mani per strofinarsi stancamente la faccia. «È ora che torni a casa» disse. Ma era impossibile capire se parlasse dell’America o del suo appartamento a Singapore.

Per qualche istante Matthew aveva avuto l’impressione che Ehrendorf avesse qualcosa di strano. Si trattava di questo: l’uniforme gli pendeva di dosso come se fosse stata fradicia. E in effetti, osservandola più da vicino, Matthew vide che era di parecchi toni più scura del normale e che gli stava davvero appiccicata alla pelle. Anche i capelli erano appiattiti come se qualcuno gli avesse svuotato un secchio pieno d’acqua sulla testa. Senza contare che intorno alle sue scarpe si era formata una pozza che si allargava lentamente verso il cerchio di luce.

«Ci mancherai, questo è certo» disse Joan tutta allegra.

«Immagino che per me sia giunta l’ora di impacchettare le mie cose e andare da qualche altra parte» disse Ehrendorf con un sorriso teso e amareggiato.

Matthew, che era sul punto di sollevare la questione degli abiti inzuppati, fu distratto da quell’ultima osservazione e chiese invece se per caso uno dei due sapeva che cosa fosse la Singapore Grip: era una specie di influenza o cosa? La domanda parve cogliere Ehrendorf alla sprovvista: dopo averci riflettuto un momento, disse che secondo lui era una valigia di rattan, come lo Shanghai basket, così la chiamavano, solo un po’ più piccola. Se così stavano le cose, anche lui ne possedeva una. Joan, però, lo contraddisse dichiarando in tono autorevole che si trattava di una forcina a due punte usata dalle donne per arricciarsi i capelli dopo esserseli lavati. Quella breve digressione lessicografica servì solo ad aggiungere ulteriore confusione a una scena che Matthew trovava già abbastanza sconcertante di per sé. Per poter chiarire ogni cosa doveva porre delle domande, pensò, e doveva farsele venire in mente subito, perché Ehrendorf, sistemandosi avvilito i pantaloni inzuppati, si stava già alzando. Doveva chiedergli della pozza d’acqua in cui era seduto e della sua partenza, di Joan e della Singapore Grip. Ma i suoi occhi scelsero proprio quel momento critico per annebbiarsi di nuovo impedendogli di vedere alcunché, sebbene la sua mente rimanesse vigile come sempre. Poi sentì una voce simile alla propria dare tutta allegra la buonanotte a qualcuno che se ne stava andando. Passarono alcuni minuti durante i quali Matthew rimase tranquillamente seduto in attesa che la vista gli si snebbiasse. Quando finalmente questo accadde, si ritrovò seduto di fronte a una sedia vuota sotto alla quale c’era una pozza d’acqua. C’era anche qualcos’altro che luccicava su un tavolo di rattan vicino a lui: una borsetta di pelle bianca che Joan doveva aver dimenticato.

«Devo essere davvero molto malato e farei bene a chiamare un medico prima che sia troppo tardi». Ma richiuse gli occhi di nuovo e ancora una volta, nel giro di pochi minuti, fu costretto a riaprirli, stavolta perché aveva sentito scricchiolare il ghiaino e cigolare gli scalini di legno che portavano in casa. Il maggiore, forse, o magari Dupigny che rientrava, pensò. Avrebbero senz’altro potuto aiutarlo a mettersi in contatto con un medico. E invece era Joan, su di giri.

«Sono io» strillò allegra. «Ho dimenticato la borsa. Vieni a fare due passi fuori, si sta benissimo. La luna si sta alzando proprio adesso, o forse è solo la luce delle stelle. Ci si vede come di giorno e finalmente sta rinfrescando. Forza, smettila di sognare a occhi aperti. Adesso mi dirai che vuoi farmi “un discorso serio”, ma per stasera ne ho avuti abbastanza. Dai, tirati su, andiamo a divertirci». Detto questo, lo afferrò per la mano e lo fece alzare dalla sedia, ignorando le sue proteste e le richieste di aiuto. Matthew, con la testa che gli girava, si ritrovò a scendere le scale barcollando al suo fianco. Una volta uscito all’aria fresca, però, si sentì un po’ meglio e concluse che forse non era poi tanto malato. Joan aveva ragione. Faceva più fresco e il cielo era così limpido che due ombre nitide li accompagnarono sul prato passando accanto agli attrezzi da ginnastica, inutilizzati dalla morte del vecchio Mr Webb, ai pali verticali e alla sbarra alta, simile a una forca sullo sfondo del cielo stellato, poi inoltrandosi fra le ombre più fitte del boschetto di alberi e cespugli in fiore che copriva l’area fra il comprensorio del Mayfair e casa Blackett, e infine nel buio corridoio degli alberi di pili.

«Voglio farti vedere una cosa» disse Joan, notando che Matthew esitava a infilarsi in quell’imbuto scuro. Nonostante il capogiro, lui era ben consapevole che lì dentro potevano essere in agguato animali feroci e non intendeva abbandonare del tutto la prudenza. Joan però lo strattonò nel buio finché non raggiunsero lo spazio aperto del prato, oltre il quale sorgevano la piscina e la casa, che si ergeva bianca e nitida al chiaro di luna. Ma invece di dirigersi verso l’edificio, Joan iniziò a tirarlo da una parte, sotto l’ombra nero-bluastra di un albero “fiamma della foresta” dove, con sua grande sorpresa, gli si infilò tra le braccia e posò le labbra sulle sue. Matthew la strinse convulsamente e l’oscurità che li circondava si tinse di magenta a causa del tumulto del sangue. Sentì i denti di Joan mordicchiargli le labbra, poi lei gli infilò la mano nella camicia e iniziò a esplorare la sua pelle umida, risvegliando una scia di desiderio ovunque andasse. Lui la lasciò andare per slacciarle i primi bottoni dell’abito di cotonina, ma lei si divincolò ridendo e inoltrandosi fra le ombre.

«Matthew, sei innamorato di me?» gli chiese.

«Be’, sì» balbettò lui barcollando in direzione della voce, ma nell’ombra non c’era nessuno e di nuovo sentì ridere Joan, che adesso era nel punto in cui si trovava lui un attimo prima; poi la voce gli chiese ancora, beffarda: «Sei innamorato di me, Matthew?»

«Ti prego» disse lui, «dove sei?»

«Prima mi devi rispondere. Mi ami?»

«Sì, oh, cioè…»

«Quanto mi ami?»

«Be’…» Matthew trovò un fazzoletto e si asciugò la fronte grondante di sudore. Ricominciò a stare piuttosto male.

«Sono qui, accanto alla piscina. Vieni a vedere il riflesso della luna. L’acqua stanotte è completamente immobile!»

Matthew uscì dall’ombra degli alberi e la raggiunse: Joan era accovacciata sui talloni a bordo piscina e fissava il disco luminoso e immoto della luna stampato come un sigillo di cera gialla sulla superficie dell’acqua. Cercò di abbracciarla, ma lei si ritrasse immediatamente, dicendo che prima bisognava che lui facesse una cosa. Glielo disse ma Matthew non capì che cosa volesse.

«Cosa?»

«Sì, devi saltare in acqua vestito».

«Devo fare cosa?» gridò lui sbalordito. «Stai scherzando?»

«No, devi saltare in acqua vestito».

«Ma dai…»

«No, voglio che tu lo faccia».

Matthew, arrabbiato, le disse: «Neanche per sogno. Adesso me ne vado a letto, perciò… buonanotte!»

«Matthew, aspetta, aspetta!» lo implorò Joan. «Aspetta!»

Si fermò. Il bordo della piscina era arrotondato e leggermente rialzato, come quello di un piattino. Joan adesso vi stava camminando sopra, con le braccia aperte come un’equilibrista sul filo. Mentre la osservava, lei finse di perdere l’equilibrio e cadde all’indietro nel riflesso lunare. Si sentirono un grande splash e poi l’acqua che sbatteva furiosa sui bordi. Joan, sorridendo, si distese sul dorso e si produsse in una, due, tre bracciate perfette che la fecero spuntare dall’acqua disegnando un’onda ad arco che le mulinava su entrambi i lati accanto alla testa. Matthew scosse il capo sbalordito, seminando in giro gocce di sudore come se anche lui fosse appena uscito dalla piscina. Era davvero troppo! Fu assalito da un senso di irrealtà, senza contare che la luna e le stelle avevano iniziato a cadere in picchiata e a farsi più grandi nel cielo. Se non fosse andato subito a sdraiarsi sul letto sarebbe crollato a terra da un momento all’altro. Quindi tornò indietro arrancando sul prato inondato di luce lunare che si inclinava ora da una parte ora dall’altra come il ponte di una nave in mezzo alla tempesta, poi si inoltrò nel buio corridoio alberato, fermandosi solo per vomitare tra i cespugli.

«Aspetta, vengo anch’io» sentì dire a Joan in lontananza. «Non ho ancora ripreso la borsetta».

Ma quando ebbe salito stancamente i pochi gradini del Mayfair Building e aperto ancora una volta la porta cigolante della veranda, Matthew trovò ad attenderlo un’altra sorpresa. La realtà gli sfuggiva di mano al punto che per un attimo la ragazza sorridente, diretta verso di lui per salutarlo, gli parve Joan che in qualche modo era riuscita a manipolare lo spazio e il tempo a suo piacimento per arrivare lì prima di lui. Ma non era lei: si trattava della ragazza eurasiatica dai capelli rosso scuro che aveva incontrato nelle prime ore della sera al Great World, Miss Vera Chiang. Gli bastò vederla perché il palmo della mano iniziasse a prudergli in modo delizioso.

«Immagino che sarai sorpreso di vedermi qui, non è vero? (Ti ricordi di me, sì? Vera Chiang.) Bene, lascia che ti spieghi come stanno le cose, Matthew, e vedrai che dopo non avrai più quell’aria confusa. Sai, in questa casa ho ancora la camera da letto che il tuo caro, caro papà mi ha dato quando ero “al verde”. Tuo padre, Matthew, era un uomo molto buono, gentile e generoso… Puoi star certo che pregherò sempre per lui per tutto l’aiuto che mi ha dato… Perciò qui ho ancora qualcuna delle mie cianfrusaglie, come i libri (perché sono un “topo di biblioteca”), gli “scatti” senza vestiti fatti dal tuo caro papà e altri dei miei familiari (adesso, mi duole dirlo, hanno già “tirato le cuoia” tutti quanti), che in Russia erano persone molto in vista, ma sono stati costretti ad andarsene dal paese per colpa della Rivoluzione. Stasera, quando quei marinai scalmanati ci hanno separato, mi è venuto in mente di tornare a vederle ancora una volta, cosa che non facevo da un po’, poi ti ho sentito arrivare e ho pensato che forse anche a Matthew avrebbe fatto piacere dare un’occhiata ai miei “scatti”… Ecco! Ma stai bene, caro? Sembra che tu abbia “perso le staffe”, lascia che te lo dica».

Matthew, che in effetti aveva un caldo micidiale e stava decisamente male nonostante la piacevole sorpresa di rivedere Miss Chiang così presto, si era dovuto appoggiare a un tavolo perché il bungalow aveva iniziato a ondeggiare. Subito dopo, però, si sentì abbastanza in forma da risponderle: «A dire la verità non sto tanto bene. Credo di avere un attacco di Singapore Grip o come diavolo si chiama».

A quelle parole fu Miss Chiang a rimanere sorpresa; le guance le si colorirono, cosa che agli occhi di Matthew la rese più carina che mai. Per un attimo parve sconcertata. Che bella ragazza, pensò lui, su questo non c’erano dubbi, peccato che tutto gli sembrasse così irreale.

«Matthew!» gridò una voce da fuori, e in men che non si dica si sentì l’ormai familiare cigolio della porta che si apriva. Quando Joan vide Matthew che parlava con Miss Chiang, si fermò di colpo. Alzò le sopracciglia con un’espressione tutt’altro che contenta.

«Conosci Miss Chiang?» riuscì a dire Matthew. «Credo mi abbia accennato che mi avrebbe mostrato delle fotografie…» aggiunse poi esitando e osservando attentamente l’espressione di Miss Chiang: gli era venuto in mente che forse gliele aveva già mostrate, nel qual caso le sue parole sarebbero parse alquanto strane. Ma Miss Chiang confermò che stava per farlo e dentro di sé Matthew poté tirare un sospiro di sollievo.

«Santo cielo, Miss Blackett, ma è fradicia! Lasci che le porti un asciugamano».

«No, grazie, Vera, mi asciugherò in un attimo. E poi trovo che sia piacevolmente rinfrescante». Dopodiché Joan si accomodò su una sedia di bambù non molto lontana da quella su cui Ehrendorf aveva sgocciolato qualche minuto prima. Mentre si sedeva, Matthew non poté fare a meno di notare, nonostante la febbre (o magari proprio a causa di quella), che il cotone sottile del suo abito le aderiva perfettamente al corpo, delineandone le forme deliziose e rivelando una serie di dettagli che prima non aveva avuto l’occasione di osservare. Nel frattempo Joan, che non aveva ancora mandato giù l’irritazione dovuta al fatto di trovare Vera e Matthew insieme, chiedeva altezzosa a Vera se fosse contenta dell’abito che aveva addosso. Visto quant’era povera quando aveva iniziato a lavorare per Mr Webb, non era una fortuna per lei, chiese rivolta a Matthew, che i suoi abiti smessi le stessero a pennello?

«Oh, sì, è una fortuna incredibile!» esclamò Vera battendo le mani. «Non avevo mai indossato vestiti così belli, prima, Matthew. Tranne, ovviamente, quando ero bambina in Russia, credo, perché la famiglia di mia madre era di sangue nobile, come minimo erano tutte principesse… e mio padre era un ricco mercante di tè, molto “ben visto” nelle cerchie più altolocate, così mi hanno detto…»

«Nella nostra famiglia» disse Joan «abbiamo sempre dato via gli abiti smessi… Mia madre i suoi li dà sempre all’ amah o ai boys per le loro mogli, o ad altre persone del genere. Sarebbe un vero peccato lasciare che della buona stoffa vada sprecata, soprattutto se l’abito sta a pennello a qualcun altro, come quelli che ho dato a Vera…»

«Be’, forse non proprio a pennello, Miss Blackett» disse Vera con dolcezza. «A volte quando indosso questo vestito trovo che mi stringa un po’ sul petto. Tu che ne dici, Matthew? Se avessi un seno più piatto non mi starebbe meglio? Ma d’altronde persino da bambina avevo già un petto molto sviluppato. A volte mi pare di respirare meglio se mi slaccio i primi due bottoni, così!»

E Matthew, anche se già da un po’ il bungalow tremava così tanto che era incredibile vedere il vaso di fiori ancora in piedi sul tavolo, colse quel momento per lanciare uno sguardo avido al magnifico seno di Miss Chiang, che ormai si vedeva molto bene perché si era affacciato mentre lei lo sventolava mormorando: «Uff, così va meglio».

«Curioso» disse Joan in tono mellifluo. «Mia madre dice che spesso i domestici ai quali dona i propri abiti non le sono affatto grati! Ci crederesti, Matthew? Credi dipenda dal fatto che non sono europei puri o si tratta semplicemente di mancanza di istruzione e buona educazione?»

«Be’, santo cielo!» esclamò Matthew aggrappandosi ai braccioli della sedia con tutte le sue forze mentre veniva scaraventato a destra e sinistra. «Non la metterei…»

Poco prima, parlando, Joan si era data da fare tenendo una mano dietro la schiena, la fronte aggrottata per lo sforzo. In quel momento la sua espressione si rilassò e anche lei si sbottonò il davanti dell’abito, sebbene con difficoltà perché era inzuppato; dopodiché iniziò a tirare un pezzo di tessuto bianco informe dicendo: «Devo ammettere che non c’è niente di più fastidioso di un reggiseno bagnato».

«Sentite, devo proprio andare a dormire, adesso» disse Matthew scattando in piedi. «Mi sento malissimo…» Il pavimento aveva iniziato a inclinarsi contemporaneamente in varie direzioni ed era un miracolo che riuscisse a mantenere l’equilibrio.

«Ma Matthew!» esclamò Vera balzando in piedi a sua volta. «Devi venire a vedere gli “scatti” che ho in camera mia». E prendendolo per un braccio fece per condurlo fuori dalla veranda. Ma anche Joan si era alzata e, prendendolo per l’altro braccio, iniziò a trascinarlo nella direzione opposta dicendo: «Prima di tutto Matthew deve uscire dal comprensorio per vedere una cosa che voglio mostrargli… e dato che potrebbe volerci un po’, Vera, secondo me non dovresti disturbarti ad aspettarlo».

«Stando così le cose, è meglio che lo porti prima in camera mia» strillò Vera tirando con forza Matthew dalla sua parte.

Difficile dire quanto a lungo si sarebbe protratta quella scena imbarazzante, ma in quel momento sulla mente di Matthew squassata dalla tempesta calò un fiume nero e lui crollò diplomaticamente a terra in mezzo alle due donne.

«Devo ammettere che attrarre le donne è proprio una cosa seria» pensò mentre perdeva i sensi.