33.

«Be’, immagino possa essere vero» stava dicendo il maggiore, dubbioso. «Non si può mai sapere. Nel 1937 ero a Harbin e all’epoca c’erano ancora tanti russi bianchi. E molti di quei poveri diavoli morivano di fame».

Matthew e il maggiore si trovavano nell’ufficio che un tempo era stato del vecchio Mr Webb. Matthew, totalmente privo di energie, alla fine era riuscito a tirarsi giù dal letto e a trascinarsi fino alla scrivania del padre, dove sedeva dormicchiando su un disordinato cumulo di rapporti, conti e documenti vari relativi all’industria della gomma. Il maggiore, preoccupato per l’atteggiamento cupo e apatico del ragazzo, ogni tanto cercava di coinvolgerlo in una conversazione allegra. Ma di quei tempi che motivo c’era di stare allegri? Solo parlare di Vera Chiang aveva risvegliato un briciolo di interesse nel paziente: Matthew si era ricordato di una conversazione tra Vera e Joan ascoltata come in sogno, nella quale Vera aveva dichiarato che sua madre era una principessa russa e suo padre un mercante cinese di tè… o qualcosa del genere. Che ne pensava il maggiore? A quanto pareva quest’ultimo aveva sentito Vera raccontare la stessa storia, ma con un paio di dettagli in più, e aveva educatamente sospeso il giudizio. Dopotutto, per quanto sembrasse improbabile, non si poteva mai sapere. Negli ultimi anni in quella parte di mondo erano successe le cose più strane.

«A proposito, dov’è, adesso? Pensavo che avesse ancora una stanza, qui».

«L’altro giorno è venuto un furgone della Blackett and Webb a ritirare le sue cose. Non che ce ne fosse bisogno, in ogni caso: aveva solo un piccolo bagaglio e un paio di pacchi. Immagino che Walter volesse mandarla via per qualche motivo, ma non mi ha detto quale. Comunque Vera è una ragazza socievole e probabilmente tra qualche giorno passerà a salutarci». Il maggiore si alzò. «Devo andare a sbrigare un po’ di lavoro. Monty ha detto che sarebbe venuto subito a vedere come stavi».

Matthew si stava riappisolando sui suoi fogli quando all’improvviso Monty comparve sulla soglia.

«Congratulazioni» disse Monty, che però sembrava preoccupato per qualcosa.

«Che vuoi dire?»

«Be’, ho saputo che tu e Joan state pensando di mettervi insieme».

«Oh, non siamo arrivati a tanto… Voglio dire, so che l’altra sera tuo padre ha detto che sarebbe un’ottima idea o qualcosa del genere, ma non credo che sia stato deciso, be’, niente di definito, sai… Quantomeno, questa è la mia impressione. Dopotutto…»

Ma Monty si limitò ad alzare le spalle; pareva che la questione non gli interessasse in modo particolare. Disse in tono vago: «Avrò preso un abbaglio… Ma da quello che hanno detto ero convinto che stessero organizzando il matrimonio… Sai, parlavano di damigelle e scemenze del genere». Si accasciò su una sedia e posò i piedi sulla scrivania di Matthew, rovesciando un bicchiere pieno di matite, ma senza fare il minimo sforzo per rimetterle a posto. «Quindi, se tu e Joan vi mettete insieme, immagino che non vorrai unirti a me e agli altri due ragazzi per dividerci quella puledrina vivace della cinese» disse in tono cupo. «A noialtri verrà a costare un patrimonio» aggiunse in tono accusatorio.

«Ma, Monty…»

«Gli altri due sono ragazzi a posto, miei grandi amici. E non è che ci siano donne bianche per tutti (se ci fossero, te lo direi). Immagino tu non sappia che ce n’è soltanto una ogni cinquanta bianchi».

«Te l’ho già detto secoli fa, Monty, che non ero interessato. Non fa per me».

«Okay, d’accordo, d’accordo, non farla tanto lunga. Non mi importa se vieni o no, ma ti perdi un’opportunità pazzesca. Comunque, sono affari tuoi…» Monty sospirò. «In realtà sono venuto a spiegarti la faccenda della ripiantumazione degli alberi della gomma nella tua tenuta del Johore. Il Vecchio ha detto che devo tenerti aggiornato, anche se probabilmente la cosa non ti interessa. La risposta è che risulta semplicemente più redditizio ripiantare subito, invece di andare avanti con l’estrazione del prodotto».

«Ma com’è possibile? Pensavo che ci fosse grande richiesta per ogni pezzo di gomma in più che produciamo».

«Il problema è la tassa sui profitti in eccesso… Non vorrai mica che scenda nei dettagli, vero?»

Evidentemente, però, Matthew lo voleva, perciò con un’espressione da vittima Monty tolse i piedi dalla scrivania e iniziò a spiegargli la questione. Quando nel 1939 era scoppiata la guerra, era stata affibbiata una tassa del sessanta per cento sui profitti in eccesso a tutte le aziende di eccellenza sia in patria che all’estero. All’inizio la Blackett non si era preoccupata più di tanto, perché per quanto la riguardava il calcolo dei “profitti standard” era stato fatto sulle annate buone. «Ci siamo resi conto di poter tenere ancora per noi una parte cospicua dei profitti: andava tutto a gonfie vele. Ma poi, accidenti, hanno pensato di aumentare la tassa sui profitti in eccesso portandola al cento per cento, non è incredibile?» Monty, gli occhi azzurri sporgenti come quelli del padre, fissava Matthew disgustato.

Contemporaneamente il prezzo della gomma era aumentato e, grazie allo schema di restrizione, sul mercato se ne poteva immettere di meno. «Poi abbiamo scoperto che potevamo fare “profitti standard” (cioè quelli che potevamo tenere per noi, perché il resto viene confiscato dal governo inglese) producendo meno gomma di quella che possiamo immettere sul mercato! Incredibile! Quindi che senso ha produrne di più, se non ci guadagniamo niente?»

Lo sguardo di Monty tradì una fugace preoccupazione, perché anche se nel complesso era convinto di capire la strategia commerciale del padre (e l’ammirava pure: quando si trattava di cogliere al volo le opportunità, Walter era davvero una forza), una delle sue iniziative non presentava ai suoi occhi alcuna valida ragione commerciale: la firma dei contratti con gli americani per la fornitura di enormi quantità di gomma che però non era possibile spedire. Dal punto di vista di Monty, l’accumulo di tali quantitativi di gomma al porto era in contraddizione con la politica del non produrre gomma dalla quale non si potessero ricavare guadagni. La tassa sui profitti in eccesso sarebbe stata applicata anche ai contratti con gli americani e Monty non riusciva a svelare quel mistero… anche se una spiegazione doveva pur esserci. In mancanza di alternative più plausibili, un paio di volte era arrivato persino a pensare che il padre fosse un patriota, ma no, non poteva certo essere così. Ovviamente gli aveva chiesto lumi, ma Walter aveva assunto un’aria esasperata e si era rifiutato di rispondergli. Monty però aveva finalmente iniziato a intuire la verità nei giorni successivi all’attacco giapponese. E se ci aveva visto giusto, era una verità terribile, ma quale altra spiegazione poteva esserci? Nella sua onniscienza, Walter aveva previsto l’attacco, e non solo: aveva previsto anche la conquista della Malesia Britannica o la distruzione di Singapore. Di fatto stava scommettendo sulla confisca o la distruzione di tutta quella gomma, pensando di chiedere un risarcimento al governo in un’area del mondo più tranquilla! Certo, era una scommessa bizzarra persino dal punto di vista di Monty, ma quale poteva essere il motivo, altrimenti? Suo padre non aveva mai fatto niente, in affari, senza un motivo valido.

«Comunque» disse tornando a concentrarsi su Matthew, «abbiamo deciso che l’unica cosa sensata da fare era ripiantare… Per quale motivo? Perché le spese dell’operazione sono deducibili dalle tasse».

«Anche se significa sostituire alberi sani e produttivi?» esclamò Matthew.

«Certo che sì! Perché li ripiantiamo usando quei cloni sviluppati di recente di cui ti parlavo. Tra qualche anno, quando saranno maturi, produrranno quasi il doppio per pianta».

«Ma che ne è dello sforzo bellico? La gente ha bisogno della gomma adesso, non tra qualche anno. E noi stiamo abbattendo gli alberi che la producono e li sostituiamo con piantine minuscole. E da quanto capisco, non stiamo nemmeno estraendo lattice fino a uccidere le piante! Roba da matti». Scrollandosi di dosso l’apatia, Matthew balzò in piedi e afferrò il braccio di Monty con una mano e il bavero della sua giacca con l’altra. Per lo spavento, Monty lanciò un grido rauco e si ritrasse di fronte all’attacco, convinto che Matthew stesse per aggredirlo perché a quanto pareva la sua mente poggiava su basi malferme. Ma in realtà non ne fu sorpreso: lo sospettava già da tempo. Alla prima occasione avrebbe fatto in modo che suo padre sistemasse le cose con quel pazzo.

«Be’, non è stata una mia idea» mormorò con voce suadente. «Non dare la colpa a me. Devi parlarne con mio padre». Poi, mentre Matthew lo lasciava andare e si metteva a camminare su e giù per la stanza, agitando, sì, il pugno in aria, ma senza sembrare tanto pericoloso, Monty aggiunse, più sicuro di sé: «Ma devo dire che… non credo tu debba essere sempre tanto zelante. Qui la gente non apprezza questo atteggiamento, anzi, che diamine, lo trova bizzarro, se proprio lo vuoi sapere. Ma ovviamente fa’ come credi» si affrettò a concludere, dato che Matthew si era nuovamente voltato verso di lui.

«Non è questo il punto, Monty… è una questione di principio».

«Sì, sì, certo» convenne Monty. «Comunque adesso devo proprio andare. Ho un sacco di cose da fare. Non è che cambieresti idea sulla cinese…? No, no, mi rendo conto. Va benissimo. Be’, arrivederci!» Detto questo, Monty batté in ritirata, contento di esserne uscito senza ossa rotte.

Matthew sprofondò nuovamente sulla sedia, ancora una volta esausto. Si versò da bere dell’acqua ghiacciata dal thermos che aveva sulla scrivania e la buttò giù in fretta: doveva parlare al più presto con Walter e cercare di convincerlo a fermare quella ridicola ripiantumazione. A che punto erano i lavori? Frugò tra le carte che aveva davanti, ma non riuscì a trovare le cifre che gli servivano e venne colto dall’ennesimo attacco di letargia. Con uno sforzo si alzò e uscì, dirigendosi verso il garage dal tetto di lamiera dove il maggiore stava eseguendo una laboriosa ispezione della pompa del rimorchio. Matthew voleva discutere la faccenda della piantumazione con lui, perciò si accomodò sulla Lagonda: ma il calore e la debolezza ebbero la meglio e presto si riappisolò con i piedi che spuntavano dalla portiera aperta, mentre l’altro esaminava e puliva le candele di accensione della pompa. Il maggiore temeva che a breve la macchina sarebbe dovuta entrare in servizio. Nel frattempo, quella bestiola minuscola, anziana e fragile che era “La condizione umana” sonnecchiava sfidando il pericolo sotto una ruota a raggi della macchina, che si trovava su un lieve pendio e sarebbe potuta scivolare in avanti da un momento all’altro, mettendo fine alle sue sofferenze.

Mentre lavorava, il maggiore pensava a Vera Chiang e a Harbin nel 1937. «Quanto può essere dura la vita dei rifugiati!» rifletté strizzando gli occhi per esaminare la candela (la sua vista non era più quella di una volta). «Con le nostre vite comode e ordinate, non immaginiamo neanche che cosa significhi perdere tutto per colpa di uno di quegli insensati rivolgimenti politici che colpiscono mezzo mondo come uragani e sradicano la gente a destra e a manca». Sospirò, e la candela che aveva in mano si appannò lasciando spazio a un’immagine di Harbin… quand’era stato?… quattro, no, quasi cinque anni prima. Per lui Harbin era stato senz’altro uno dei posti più deprimenti del globo.

Era il suo primo viaggio in Oriente… all’improvviso, d’istinto, aveva deciso di abbandonare la vita comoda e regolare che conduceva a Londra per vedere il mondo, andare a trovare François in Indocina, visitare anche il Giappone e constatare con i suoi occhi perché suscitava tanto interesse… capire che cos’era la vita prima che fosse troppo tardi e gli piombasse addosso la vecchiaia. Guardando la grande cattedrale ortodossa che dominava le vie Kitaiskaya e Novogorodnaya, così come le insegne dei negozi in cirillico, la vodka, i samovar, i caffè russi e sentendo il piacevole suono della lingua che si parlava ovunque, si sarebbe potuto pensare che Harbin fosse una città russa. E invece era diventata un luogo di disperazione per i russi bianchi che erano stati sbattuti a est dal maremoto della Rivoluzione. Com’erano indifesi! Sono ben poche le persone, pensò il maggiore sospirando, che possono esercitare la benché minima influenza sul proprio destino con il duro lavoro, la parsimonia, l’intelligenza o qualunque altra virtù! Quella era la triste verità per quanto riguardava la vita su questo pianeta.

Finché il Manchukuo non aveva comprato dal governo sovietico la Ferrovia Orientale Cinese l’anno prima della visita del maggiore, a Harbin era rimasto quantomeno un ampio contingente di dipendenti sovietici delle ferrovie, clienti abituali dei negozi e dei caffè russi, ma quando era arrivato lui, ai rifugiati era stata tolta persino quella piccola fonte di guadagno. I ferrovieri se n’erano tornati in Russia, lasciando i rifugiati nell’indigenza. Prima ce n’erano ottantamila, ma all’arrivo del maggiore erano già dimezzati. I più giovani e forti erano andati a sud per cercare mezzi di sostentamento in Cina, paese che dal canto suo era già devastato dalla carestia e dalle bande di briganti. Molti di coloro che erano rimasti a Harbin morivano di fame. Il maggiore aveva visto con i suoi occhi uomini bianchi coperti di stracci tirare i risciò…

Vera Chiang aveva trascorso a Harbin l’infanzia e l’adolescenza: questo era senz’altro vero, perché quando il maggiore l’aveva interrogata la ragazza aveva dimostrato di conoscere ogni angolo della città. Sua madre era morta là, «di mal di cuore», diceva a volte; altre volte diceva «di tubercolosi». Ma all’epoca lei era solo una bambina. Suo padre era andato a sud nel tentativo di mettere in piedi un’altra attività al posto di quella che aveva perso in Russia per colpa della Rivoluzione, lasciando la figlia in una scuola gestita da missionari americani: era così che aveva imparato l’inglese. Si era sentita tanto sola e triste! aveva detto al maggiore con le lacrime agli occhi, mentre lui le mormorava parole di conforto; non aveva mai saputo resistere a una donna in difficoltà. Ma poi, con grande ritardo, le era giunto un messaggio del padre e la sua vita si era fatta ancora più triste. Era malato, diceva, ridotto in miseria a Canton. «E così ho dovuto vendere anche l’ultimo anello di mia madre…» A quel punto, per quanto si commuovesse facilmente di fronte alle sofferenze femminili, il maggiore era stato assalito dai dubbi… Ma dopotutto non si poteva mai sapere. Una cosa era certa: Vera Chiang doveva pur venire da qualche parte! I suoi ricordi del periodo russo non erano molto convincenti, però. Pellicce, stalattiti di ghiaccio alle finestre, neve sui tetti, il vapore che usciva dalle narici dei cavalli e rimaneva sospeso nell’«aria pungente», i gioielli luccicanti al collo delle nobildonne che si chinavano sulla sua culla, perché ovviamente all’epoca della Rivoluzione lei era una neonata, e poi le slitte dei fuggitivi che sibilavano nella neve mentre andavano verso est per scappare dai bolscevichi, i suoi occhietti neri a mandorla completamente circondati di pelliccia che osservavano le interminabili distese ghiacciate della Russia. Insomma, quel genere di cose. Ovviamente non era impossibile, ma erano soprattutto gli anelli della madre a mettere a disagio il maggiore. Il motivo era questo: in un locale notturno di Shanghai si era ritrovato a parlare con una delle intrattenitrici, una bellissima ragazza russa, anche lei principessa, che dopo un paio di valzer dignitosi gli aveva confidato le proprie difficoltà: la mattina seguente, all’apertura del banco dei pegni, sarebbe dovuta andare a impegnare l’anello nuziale della madre per evitare che la sorellina minore finisse a fare la prostituta. Santo cielo! Che guaio! Che altro poteva fare il maggiore se non tentare di evitare quella calamità? Be’, vedete, il dilemma di Archer era che a volte quelle storie erano vere. Non molto spesso, forse, ma a volte sì.

Il maggiore era rimasto immobile con aria afflitta e fissava senza vederla la candela che aveva in mano. Sentendo forse che i pensieri di quell’uomo avevano preso una brutta piega, “La condizione umana” lasciò la sua pericolosa cuccia sotto la ruota della Lagonda e si avvicinò fino a posare il muso sulla scarpa del maggiore, levando gli occhioni sporgenti per scrutare meglio i tratti cupi del padrone: non poteva darsi che stesse rimuginando sul modo migliore di sbarazzarsi di un cane? No, il maggiore stava pensando ancora ai rifugiati, stavolta a quelli che erano riusciti a scappare da Harbin e a dirigersi a sud dove c’erano altre città con concessioni straniere, a Tientsin e oltre, a Shanghai. Ma persino a Shanghai molti russi si ritrovavano a morire di fame insieme ai coolies cinesi più disgraziati ed erano costretti a dormire per strada o nei parchi durante il gelido inverno cinese, destinati a unirsi al triste reggimento dei “cadaveri esposti”. Per alcuni anni quegli spaventapasseri scheletrici avevano infestato le concessioni straniere, ma il tempo è crudele: le persone vengono buttate a forza dentro una comunità oppure fuori. La Storia va avanti e il problema in un modo o nell’altro si risolve, senza alcun riguardo per i sentimenti umani più nobili.

E Vera? Suo padre, stando ai suoi racconti, aveva avuto un ictus ed era semiparalizzato. Lei era andata a Canton per dargli una mano meglio che poteva (il maggiore, dimostrando molto tatto, aveva evitato di chiederle come); avevano vissuto nell’indigenza. Dopodiché lui era morto e lei si era trasferita a Shanghai e aveva vissuto lì per un paio d’anni, ma poi c’erano stati dei problemi con un ufficiale giapponese. Perciò, con l’aiuto di alcuni amici, era andata a Singapore.

Be’, era davvero la figlia di una principessa russa e di un mercante di tè cinese? Era plausibile che una principessa russa sposasse un mercante di tè cinese? No, ma nei primi anni della Rivoluzione, con tutte le ritorsioni che c’erano state, si erano spesso creati legami improbabili. Vera, che adesso aveva poco più di vent’anni, poteva benissimo avere l’età giusta per essere il frutto di un’unione disperata come quella. A Harbin, ricordava il maggiore, capitava spesso di vedere ragazze di sangue nobile spazzare i negozi russi sulla Novogorodnaya o fare le cameriere ai tavolini dei caffè sotto l’immancabile ritratto dell’ultimo zar che pian piano ingialliva. In circostanze tanto terribili la gente faceva qualunque cosa pur di sopravvivere. Senza contare che quando la situazione peggiorava ulteriormente, veniva fuori, piacesse o meno, che un’attraente ragazza russa, principessa o contadinella che fosse, aveva quantomeno qualcosa da vendere… anche solo se stessa. Il maggiore aveva sentito dire che a Harbin i visitatori inglesi e americani a volte venivano avvicinati da russi caduti in disgrazia che li invitavano a fuggire con le loro mogli perché non potevano più mantenerle. In quella città da incubo persino lui era stato fermato da una giovane russa vestita di stracci, disposta a vendere il proprio corpo in cambio di un pasto. Il maggiore sospirò. A volte a Harbin si pentiva di aver lasciato Londra: se scoprire che cosa fosse “la vita” implicava cose del genere, avrebbe preferito rimanere nell’ignoranza.

A Shanghai invece le cose non erano andate così male. Pareva che lì le belle ragazze russe se la cavassero meglio, perché le taxi-girls bianche erano molto apprezzate dai cinesi ricchi e potevano guadagnarsi da vivere discretamente nelle sale da ballo e nei cabaret cittadini. Gli avevano riferito che guadagnavano due dollari cinesi di commissione su ogni bottiglia di champagne che vendevano. Inoltre, se nei bordelli di Shanghai una ragazza cinese costava da un dollaro cinese in su, il prezzo minimo per una bianca era di dieci dollari. E per la somma principesca di cinquanta dollari, così era venuto a sapere il maggiore da una fonte autorevole, potevi assistere a uno spettacolo di danza eseguito da sei ballerine russe nude nella privacy di casa tua o della tua stanza d’albergo. Il maggiore, nonostante le insistenze del suo informatore, non si era lasciato tentare: non che lo spaventasse la spesa, solo che non riusciva proprio a immaginarsi rinchiuso nella sua camera d’albergo con sei signore nude… che magari appartenevano all’aristocrazia russa in disgrazia. E poi (si scoprì a calcolare previdente), non sembrava un affare nemmeno per i più libidinosi, visto che, dati i prezzi di allora, con dieci dollari in più ti saresti potuto godere le sei ragazze separatamente.

A quel punto i locali notturni di Shanghai svanirono e furono sostituiti dalla vista della candela nel palmo rugoso e di un paio di occhi ansiosi e annebbiati. Il maggiore ruotò il polso per guardare l’orologio. La luce iniziava a calare e faceva un po’ più fresco. Matthew, che aveva ancora l’aria stanca, stava faticosamente cercando di uscire dalla Lagonda. Il maggiore sospirò e rimise la candela nella pompa, poi andò a lavarsi le mani. Aveva accettato l’invito a cena di Mr Wu, l’uomo d’affari cinese che era entrato nell’unità Mayfair dell’AFS. Mentre saliva le scale per entrare in veranda, si fermò un momento a guardare un bombardiere Blenheim sfrecciare nel cielo opalescente, diretto verso l’aerodromo di Kallang. Poi, mentre aspettava Mr Wu, prese lo Straits Times per capire quanto apparisse negativa la situazione agli occhi dei giapponesi.